Conflitti,  Internazionale,  Lavori,  Numero 1. Maggio 2020,  Storia e memoria

Storia di due marxismi: in ricordo di Erik Olin Wright

Traduzione e introduzione a cura di Riccardo Emilio Chesta

Questo scritto, in cui Michael Burawoy[1] traccia un rigoroso profilo intellettuale del collega e amico Erik Wright, è stato redatto per la conferenza in ricordo di Erik Olin Wright – scomparso nel gennaio 2019 – tenutasi l’1 e il 2 novembre 2019 all’Università del Wisconsin a Madison, dove Wright era stato docente nel Dipartimento di Sociologia e per circa quarant’anni direttore del Havens Center for Social Justice. Lì Wright aveva sviluppato nell’arco di alcuni decenni il suo programma di ricerca scientifica neo-marxista atta a rielaborare un’analisi di classe al passo con i tempi, progetto che all’inizio degli anni Novanta, a seguito di aporie scientifiche e mutamenti politici più generali, lasciò il posto al Progetto di utopie reali. Grazie a Erik Wright, il Havens Center è stato non solo un dipartimento universitario di assoluta centralità nel dibattito sociologico americano, ma un’autentica fucina di sociologia critica, crocevia di generazioni di ricercatori e attivisti da tutto il mondo, dove si fondono rigore scientifico e impegno politico.

Questo saggio è stato inviato da Michael Burawoy a Opm, e riproduce il testo pubblicato sul numero 121 della New Left Review, uscito nel febbraio 2020.

Burawoy è stato nel 2004 presidente dell’American Sociological Association – carica che anche Wright avrebbe ricoperto, nel 2012 – ed è tuttora docente in uno dei luoghi più rilevanti della produzione sociologica americana, il Sociology Department dell’Università di California a Berkeley.

L’importanza della traduzione di questo scritto è molteplice. Anzitutto, permette di far entrare nel dibattito pubblico italiano i due autori statunitensi, entrambi esponenti di una via “critica” alla scienza sociale, che mentre a livello globale hanno esercitato un’indiscussa influenza scientifica e intellettuale, nel nostro paese sono poco noti ai non addetti ai lavori.

Se il lavoro di revisione neo-marxista della stratificazione sociale operato da Wright è ampiamente conosciuto tra economisti e scienziati sociali, non si può certo dire altrettanto dei suoi lavori più teorici e in particolare degli ultimi contributi legati al suo Progetto di utopie reali. In Italia, di Wright sono usciti nell’ultimo decennio alcuni lavori grazie alla casa editrice Punto Rosso: dapprima il saggio «Per un nuovo socialismo e una reale democrazia. Come essere anticapitalisti nel xxi secolo» (2017), versione divulgativa e sintetica del magistrale Envisioning Real Utopias del 2010, poi tradotto come Utopie reali e pubblicato nel 2020, a seguito del testo del 2019 Capire la classe. Per “erodere” il capitalismo, traduzione di Understanding Class uscito in inglese nel 2015.

Un discorso analogo si applica al percorso di Michael Burawoy. Della sua attività di ricerca pluridecennale sui processi lavorativi e sul consenso nel modo di produzione capitalista, su capitalismo e post-colonialismo, sui processi di transizione dal socialismo al capitalismo, c’è stata una ricezione tutta accademica, circoscritta ai campi disciplinari della sociologia del lavoro, dell’economia politica o della sociologia pubblica (come è stato il caso del suo Presidential Address tenuto nel 2004 a San Francisco, al Congresso dell’American Sociological Association). Ancora nessuna delle sue otto monografie risulta tradotta in italiano, a sottolineare la scarsa accessibilità della sua opera per il lettore nostrano.

Con la pubblicazione di questo saggio di Burawoy, ci si augura che la sua ampia portata teorica aiuti in Italia a innescare un dibattito da cui in molti trarrebbero giovamento, dai professionisti della ricerca fino agli attivisti, quel “pubblico partecipante” che sia Burawoy che Wright ritengono attore fondamentale nel processo di elaborazione di una teoria “critica” in grado di operare sulla realtà sociale in senso trasformativo ed emancipatore. Una posizione non nuova in sociologia, che dai classici come Karl Marx arriva fino ad autori non marxisti come Alain Touraine, come lo stesso Burawoy ricorda nel saggio che qui viene presentato.

 Il saggio che segue traccia il profilo intellettuale di Erik Wright, uno dei più importanti sociologi critici americani, il cui lavoro scientifico si è sviluppato tra la seconda metà del xx secolo e i primi decenni del xxi affrontando quindi il dibattito neomarxista nel pieno della sua espansione, nelle controversie legate al suo rinnovamento in senso «critico» o «analitico», sino alla sua emarginazione, in alcuni casi argomentata scientificamente, in altri casi tacitamente rimossa per questioni di conformismo accademico e di sopravvivenza universitaria.

Il ricco e documentato saggio di Burawoy affronta con grande perizia e onestà intellettuale l’impegno con cui Wright sviluppa la propria linea di ricerca scientifica nel solco della tradizione marxista, aggiorna i propri paradigmi immergendosi nella profondità dei dilemmi scientifici così come nelle loro implicazioni politiche, mostra senza remore le aporie analitiche ed empiriche in cui incorrono, instaurando un dialogo mai banale con la sociologia mainstream (o si sarebbe detto un tempo, “borghese”). Impegno che non sempre risulta corrisposto da un adeguato sforzo di riflessività. Anche questo, come una sociologia minima della scienza ci insegna, ha più a che fare con questioni inerenti alla natura dell’istituzione accademica e alla sua dipendenza dall’ordine sociale generale. Una buona parte delle ragioni della marginalità di Wright va ricondotta alla relazione tra determinate tendenze sociologiche e rapporti di forza in società più che a profonde ragioni epistemologiche o veritative: a sottolineare che la scienza quando affronta le questioni più rilevanti finisce sempre per risultare politicamente scottante.

 I risultati della ricerca pluridecennale di Wright hanno implicazioni importanti per la definizione teorica e lo studio empirico della classe sociale, nonché appunto per le connesse conseguenze “politiche” legate alla costruzione di alleanze tra soggetti afferenti a classi specifiche “dominate” economicamente e socialmente. Sono risultati di una ricerca estremamente seria e impegnata, che offre risultati tutt’altro che ideologici o consolatori. La scientificità dell’approccio di Wright sta nel riconoscere il risultato spesso spiazzante, quando non disperante, delle proprie ricerche, così come, a un certo punto, la percezione di una relativa “irrilevanza” di un lavoro d’indagine quantitativa su cui egli stesso aveva investito risorse intellettuali collettive su grandi numeri e per più decenni. Come lo stesso Burawoy riconosce, quello di Wright è un indice di profonda vocazione per il lavoro di ricerca che non è mai solo una lotta per il conseguimento di uno status o riconoscimento accademico individuale (nonostante che sia, in parte, lo stesso Wright a riconoscere la sua umana motivazione anche in questo senso). Si tratta di un autentico impegno weberiano che richiede convinzione e responsabilità, in quanto profondamente volto a una missione di emancipazione collettiva.

Studiare il percorso di Wright non è quindi un esercizio di curiosità intellettuale o un’escursione museale dove vengono mostrate i resti di una preistoria scientifica e marxista. I lavori di Erik Wright, così come quelli dello stesso Burawoy, costituiscono una cassetta di attrezzi per la comprensione del presente, la critica delle sue storture e l’azione trasformativa sulla realtà.

Diversi sono i livelli di rilevanza dei loro contributi scientifici. In primis, è da studiare in che modo è possibile riprodurre modi e reti di organizzazione scientifica come quelli del Havens Center for Social Justice, centro capace di coniugare ricerca di altissimo rigore scientifico con un altrettanto serio attivismo e impegno politico, modalità su cui Erik Wright ha impostato il proprio Progetto di utopie reali. Progetti e istituzioni che tentano di risolvere questioni classiche: in che modo è possibile evitare la biforcazione tra l’istituzione scientifica che facilmente scema in autoriproduzione accademica fine a se stessa e l’attivismo politico che privo di immaginazione facilmente finisce in autoriproduzione settaria o lobbystica.

In maniera simile – come è riportato nel saggio che segue – e nonostante le divergenze sull’eredità del marxismo analitico, il programma di sociologia pubblica di Burawoy ha intersecato per un tratto quello delle utopie reali di Wright, salvo poi assumere una vita propria. Burawoy condivide però con il progetto di Wright determinati assunti, pur in una lettura più polanyiana del problema. Se il capitalismo ha esteso il processo di mercificazione che riguardava le tre tradizionali merci fittizie – natura, lavoro, denaro – a una quarta merce, la conoscenza, allora il contro-movimento per l’emancipazione dovrà costituirsi anche, se non soprattutto, in seno a quest’ultima. Per Burawoy è quindi necessario un Moderno Principe, in senso gramsciano, capace di produrre una fantasia concreta, dove teoria e prassi si alimentano per produrre l’immaginazione e la realizzazione di nuove forme di socialità e di vita fuori dalle logiche della mercificazione e dello sfruttamento capitalistico.

In ultimo, il saggio è un contributo rilevante di storia intellettuale americana e globale, utile a comprendere il rinnovarsi di una grande tradizione quale quella marxista e la sua capacità di leggere il tempo presente, dando nuovi strumenti non solo per guardare con chiarezza alla realtà ma anche per agire sulla stessa. Quello che il lavoro pluridecennale di Burawoy e Wright ci restituisce è una cassetta degli attrezzi e un modo di guardare alle cose che non si ritira a una fredda passività e accettazione del reale, ma rinnovando una convergenza tra scienza e critica che spinge ad immaginare e sperimentare nuove forme sociali di vita oltre il capitalismo.

Scrivendo nel 1970 The Coming Crisis of Western Sociology, Alvin Gouldner diagnosticava la fine degli anni d’oro della sociologia. Le sue tesi principali – e qui si riferiva all’euforico dopoguerra dell’America che si imponeva come una nuova “società guida”, espressa nella dominante teoria parsonsiana del consenso – risultarono fuori tempo con l’avvento del movimento dei diritti civili, il movimento delle donne, pacifista e il crescente radicalismo anti-statalista. Gli Stati Uniti non erano l’oasi della liberaldemocrazia ritratta dai più influenti sociologi. Sì, la sociologia era in crisi, ma Gouldner non colse in anticipo il modo in cui i movimenti degli anni Sessanta avrebbero catalizzato il femminismo, la teoria critica della razza e il marxismo in un processo di rinnovamento della sociologia.

Negli anni Settanta, Gouldner, nonostante appartenesse a una più vecchia generazione di sinistra, fu comunque parte di quel rinnovamento. In The Two Marxisms[2] distinse due tendenze opposte ma interdipendenti all’interno del marxismo: scientifico e critico. In breve, il marxismo scientifico muove da una comprensione razionale della società dove i concetti riflettono meccanismi reali, postula il determinismo delle strutture oggettive e assume la storia come inevitabilmente diretta verso il socialismo una volta maturate le condizioni, vede la politica come epifenomenica e l’ideologia come distorsione. Il marxismo critico inizia opponendo l’onnipresenza dell’alienazione al potenziale per l’autorealizzazione umana, è scettico nei confronti dei concetti in quanto congelano i processi sociali, sottolinea il ruolo dell’intervento umano contro la rigidità delle strutture oggettive, assume che la storia non ha un fine prestabilito ma è il prodotto della mobilitazione collettiva, vede la politica come una realizzazione dei valori ultimi e l’ideologia come una forza morale. In tempi rivoluzionari il marxismo critico e scientifico possono essere tenuti assieme in una unità contraddittoria, mentre in tempi non rivoluzionari procedono per strade separate.

Nonostante siano intesi a spiegare la storia del marxismo, questi due marxismi definiscono accuratamente anche la biografia di Erik Wright. Egli inizia unendo il marxismo scientifico e critico, ma più tardi essi si separano in quanto ognuno sviluppa la propria traiettoria autonoma. Il marxismo scientifico di Erik è il programma di un’analisi di classe che inizialmente lo portò alla fama internazionale. Iniziato durante il dottorato di ricerca, sfumò negli ultimi due decenni della sua vita, quando giocò un ruolo di secondo piano rispetto al marxismo critico delle utopie reali che lui aveva iniziato sin dai primi anni Novanta. Stranamente, non ci fu virtualmente alcuna fertilizzazione reciproca tra i due, in quanto ognuno si sviluppò come se l’altro non esistesse. Erik passò da un’analisi di classe senza utopia a un’utopia senza analisi di classe. Questa divergenza è ancor più enigmatica visto che il primo marxismo di Erik, prima che sviluppasse l’analisi di classe, aveva tenuto assieme teorie critiche e scientifiche. Come poté questo percorso intellettuale correre lungo queste due strade separate? Sono dunque il marxismo critico e il marxismo scientifico in ultima analisi avversi, così mostrando le opposizioni binarie identificate da Gouldner? Oppure, come argomenterò, le ragioni di questa divergenza riguardano il contesto politico nel quale Erik scrisse e la sua mutata relazione con la sociologia. La separazione non è inevitabile. Infatti, alla fine della sua vita, ci sono richiami a una riconnessione di scienza e critica che spingono a un’ulteriore elaborazione nel proseguire la sua opera.

Questo saggio si divide in quattro parti: il primo marxismo di Erik dove scienza e critica sono unite, il programma di analisi di classe, il Progetto di utopie reali e alcune proposte per riunire scienza e critica.

1. Il marxismo giovanile

In prima istanza, è necessario ricostruire il percorso che ha portato Erik al marxismo. Dopo la laurea in Studi sociali a Harvard nel 1968, Erik trascorse due anni a Oxford, studiando per conseguire un’altra laurea, assorbendo la sociologia e gli studi politici da Steve Lukes e la storia marxista da Christopher Hill. Erano questi anni turbolenti in cui il marxismo stava fiorendo su entrambe le sponde dell’Atlantico, ma specialmente in Inghilterra, conquistando le menti di una nuova generazione di scienziati sociali.

Per evitare la leva, Erik si iscrisse allo Unitarian-Universalistic Seminar a Berkeley. Questo avvenne addirittura prima del periodo a Oxford, dove avrebbe dovuto studiare religione – la Rivoluzione Puritana in Inghilterra! Quando ritornò negli Stati Uniti nell’autunno del 1970 si iscrisse al seminario come studente a tempo pieno. Come parte dei suoi studi, organizzò un corso autogestito dagli studenti intitolato “Utopia e Rivoluzione”:

Per dieci settimane mi incontrai con circa una dozzina di altri studenti provenienti da vari seminari alla Graduate Theological Union di Berkeleyper discutere dei principi e delle prospettive di trasformazione rivoluzionaria della società americana e del resto del mondo. Eravamo giovani e seri, animati dall’idealismo del movimento per i diritti civili, dal movimento contro la guerra e dalle correnti della controcultura che si opponevano all’individualismo competitivo e al consumismo. Discutevamo le prospettive per un rovesciamento rivoluzionario del capitalismo americano e le ramificazioni della “dittatura del proletariato”, così come il potenziale per una sovversione controculturale delle strutture esistenti del potere e della dominazione attraverso la sperimentazione di forme di vita alternative[3].

Eravamo giovani e seri, animati dall’idealismo del movimento contro la guerra e per i diritti civili, contro l’individualismo e il consumismo

Un’altra parte del programma del seminario era un lavoro sul campo come preparazione per il servizio pastorale. Erik scelse la prigione di San Quentin, dove diventò assistente cappellano. Così come registrava e sbobinava ogni sessione del suo seminario “Utopia e Rivoluzione”, scrisse fin dall’inizio con regolarità le note di ricerca sulle sue esperienze che poi (con ulteriori contributi di avvocati, carcerati e giornalisti) sarebbero diventate il suo primo libro The Politics of Punishment (1973) [La politica della pena][4]. Nel libro, Erik elabora una concezione radicale del reato e della pena, una critica del modello riabilitativo carcerario come “totalitarismo liberale”, seguito da ampie descrizioni delle condizioni a San Quentin viste con gli occhi dei funzionari carcerari e dei carcerati. Vi sono poi quattro capitoli sulla violenza, il razzismo e la rivolta nel carcere di Soledad, scritti dal direttore del reparto di psichiatria, un carcerato, un avvocato rappresentante dei Soledad Brothers e uno scrittore del Prison Law Collective [Collettivo per la giustizia carceraria]. L’ultima parte del libro ha tre capitoli scritti da collaboratori sulle rivolte carcerarie, sul mutamento legislativo e sul lavoro dei tribunali. Erik scrive poi un capitolo conclusivo sulla riforma delle carceri, sostenendo che ogni cambiamento legislativo richiederebbe una trasformazione della società. The Politics of Punishment esprime una opposizione radicale contro le carceri, e in molti casi anticipò la prospettiva critica degli studi contemporanei sulla carcerazione. Nella sua precoce etnografia della vita in carcere, scienza e critica sono unite.

Nonostante possa sembrare strano, il seminario teologico divenne un incubatore del radicalismo di Erik, già segnato da un marxismo embrionale che soffondeva i mondi intellettuali che aveva attraversato. Come per molti altri, il suo radicalismo trovò dimora nella sociologia del tempo, portandolo a iscriversi al Dipartimento di Sociologia di Berkeley[5]. Così scriveva:

Di tutte le scienze sociali, la sociologia mi sembrava essere la meno disciplinare: aveva i confini più sfuocati. Ma in maniera ancor più significativa, la sociologia aveva valorizzato di più le sue tradizioni marginali rispetto altre scienze sociali. Anche i sociologi anti-marxisti riconoscono l’importanza di Marx come uno dei fondatori intellettuali di quella che è diventata la sociologia[6].

A quel punto, come più tardi avrebbe affermato, era chiaro che il marxismo era l’unica scelta. Il marxismo stava infatti fiorendo nella Bay Area, anche al di fuori dei dipartimenti di sociologia, in vari gruppi di dibattito, incluso il collettivo editoriale della rivista Kapitalistate, diretta da James O’Connor, la sezione locale della Union for Radical Political Economics, la socialista Union of Marxist Social Scientists e il Berkeley Journal of Sociology. Erik era attivo in tutti questi, ma in particolar modo nel primo.

In quei giorni il Dipartimento di Sociologia di Berkeley era nel caos, diviso in fazioni che gli eventi politici del campus portavano a contrapporsi[7]. È difficile ora apprezzare l’agitazione a Berkeley che iniziò con il Free Speech Movement nel 1964 e raggiunse il suo apice nel 1968-1970 con il corso di Eldridge Cleaver (che gli amministratori cercarono senza successo di fermare), lo Sciopero per il Terzo Mondo che avrebbe portato alla nascita del Dipartimento di Studi Etnici, la difesa del People’s Park che portò il Governatore Reagan a chiamare la Guardia Nazionale, e le manifestazioni anti-guerra che incontrarono la violenza poliziesca. In quegli anni, gli insegnamenti ordinari della facoltà di sociologia erano sospesi perché gli studenti organizzavano i loro seminari. Il più duraturo fu quello su «Controversie Contemporanee nella Scienza Sociale Marxista», che poi Erik avrebbe portato con sé all’università del Wisconsin, il leggendario Sociologia 621 che offrì all’inizio di ogni anno e poi ogni due anni, con l’ultimo svoltosi nel 2017. Qui Erik insegnò a dottorandi di ogni parte del mondo la sua versione del marxismo[8].

Il marxismo accademico di Erik fu esposto nel suo secondo libro del 1978 Class, Crisis and the State[9], pubblicato per la New Left Books, basato su tre saggi che aveva scritto tra il 1974 e il 1976 e pubblicati in New Left Review, The Insurgent Sociologist e The Berkeley Journal of Sociology. Il primo saggio fu la sua innovativa ed elegante ricostruzione della concezione marxista di classe, il secondo una storicizzazione delle contraddizioni e crisi dell’accumulazione capitalistica e il terzo un’affascinante comparazione degli scritti di Lenin e Weber sulla durevolezza della burocrazia.

Il terzo saggio finisce con una disquisizione sui dibattiti correnti sullo Stato – se fosse uno “Stato nella società capitalista”, che in caso venisse conquistato, anche per via elettorale, poteva essere usato nel perseguimento del socialismo, o se fosse uno “Stato capitalistico” con una sua distinta “autonomia relativa” che intrinsecamente riproduceva le relazioni capitalistiche e dovesse quindi venire distrutto e rimpiazzato da uno Stato socialista. Erik trovò manchevoli entrambe le posizioni, sostenendo che la conquista dello Stato capitalista attraverso l’espansione del sostegno popolare avrebbe trasformato lo Stato senza alcuna “distruzione”. Credo che questa fosse la posizione che avrebbe tenuto fino alla fine della sua vita.

2. Il marxismo scientifico – l’analisi di classe

Un punto da sottolineare è il radicalismo dei suoi primi scritti, e come l’analisi di classe e l’immaginazione utopica fossero unite in un progetto unico. Questa è la prospettiva marxista del pensiero di Erik. Ma in che relazione stava con la sociologia? Erik salvava così il marxismo, ma in che modo salvava la sociologia? Questo è quello che scrisse nel 1987:

Ho originariamente immaginato gloriose battaglie tra paradigmi, con tanto di lance scagliate e un valoroso cavaliere marxista che spodestava il rivale borghese in una drammatica battaglia quantitativa. Non solo, la fantasia vedeva il vinto ammettere la sconfitta e cambiare partito come risultato[10].

Dei tre saggi contenuti in Class, Crisis and the State sarebbe stato con quello sulla classe che Erik avrebbe combattuto con i sociologi.

Il marxismo, sosteneva Erik, non aveva mai fatto i conti con i limiti della teoria originaria marxiana della polarizzazione di classe. Più e più volte i sociologi sottolineavano che il carattere distintivo della struttura di classe moderna era la dimensione crescente delle “classi medie”. I marxisti potevano rispondere che l’ascesa delle classi medie era un’illusione, che marcava l’efficacia dell’ideologia borghese, in quanto la maggioranza della classe media era composta da lavoratori salariati e avrebbe dovuto essere associata al proletariato. Altri magari si riferivano alle classi medie come a una sorta di nuova classe – una nuova piccola borghesia, una classe dei servizi – ma nessuno elaborava le proprie posizioni in una nuova, più ampia teoria della struttura di classe.

Qui entrò in scena Erik Wright, sostenendo che nel capitalismo esistevano essenzialmente tre classi fondamentali: capitalisti (datori di lavoro), lavoratori (salariati) e piccola borghesia (lavoratori autonomi). Tuttavia, con le tre classi fondamentali emergevano tre classi intermedie, situate tra le tre classi fondamentali: manager e supervisori (tra il capitale e il lavoro); piccoli imprenditori (tra la piccola borghesia e il capitale); e lavoratori semi-autonomi (tra la classe operaia e la piccola borghesia). Queste classi intermedie divennero le famose “posizioni di classe contraddittorie” di Erik. Posizioni che condividevano caratteristiche di entrambe le classi tra le quali erano localizzate. Mostrò come, usando queste misure, la dimensione della classe operaia eccedeva di gran lunga quella delle altre definizioni di classe concorrenti, specialmente quella sviluppata da Nicos Poulantzas[11]. Le sue argomentazioni ricevettero molta attenzione all’epoca. Wright si chiese a quali condizioni quelle posizioni di classe contraddittorie connesse ai lavoratori salariati, specialmente i manager e i supervisori e i lavoratori semi-autonomi, si sarebbero unite alla classe operaia nel perseguimento del socialismo. E sostenne che gli interessi di classe immediati potevano intralciare l’avanzata di fondamentali interessi di classe comuni.

Per la sua tesi di dottorato, tuttavia, Erik espose il suo ritratto della struttura di classe in contrasto con la teoria del conseguimento di status dei sociologi e con la teoria del capitale umano degli economisti nello spiegare la diseguaglianza di reddito. Utilizzando i dati di indagini campionarie esistenti, era in grado di sostenere che il suo innovativo modello marxista delle classi era in grado di competere con i modelli basati sui modelli economici del capitale umano o sui modelli sociologici del conseguimento di status. Perché scelse il terreno della ricerca quantitativa come mezzo per risolvere la disputa tra marxismo e sociologia?

In primis, ovviamente, a quel tempo la stratificazione era al cuore della teoria e ricerca sociologica. Si sosteneva che la stratificazione, per lo meno misurata in termini di gradi di prestigio delle occupazioni – e più tardi lo status socio-economico – riflettevano un sotteso consenso valoriale. Era anche l’area di maggior avanzamento metodologico nei modelli statistici conosciuti come path analysis sperimentati da Blau e Duncan[12]. Erik considerava il lavoro quantitativo come un modo per legittimare il marxismo in sociologia, o addirittura dimostrare la superiorità del marxismo come scienza. Al contempo, ammetteva, sarebbe stato un modo anche di far proseguire la sua carriera all’interno dell’accademia[13].

Il suo modello di struttura di classe divenne ampiamente noto sia tra i marxisti, sia tra i sociologi, ma non portò a battaglie gladiatorie con la sociologia. Non era percepito come una minaccia e fu piuttosto assorbito all’interno della sociologia. Come lo stesso Wright appuntò nel 1987:

Quello che è stato impressionante negli ultimi decenni è quanto poco serio dibattito c’è stato, all’interno della sociologia mainstream, in risposta all’ascesa della ricerca neo-marxista. In generale, sono stato incapace di provocare risposte sistematiche alla mia ricerca tra i sociologi mainstream, che fossero di carattere teorico o empirico… Il principale effetto della mia ricerca sulle linee dominanti, per quanto possa dire, è che certe “variabili” hanno maggior probabilità di essere incluse nelle equazioni di regressione. Quello che mi immaginavo come un’ampia sfida teorica alla “sociologia borghese”, sostenuta da una ricerca empirica sistematica, si è risolta in un’appropriazione pragmatica di certi elementi isolati del quadro concettuale operazionalizzato, con poca attenzione alle questioni teoriche astratte[14].

Avendo spogliato il marxismo della politica, lasciato indietro le contraddizioni del capitalismo, abbandonata la storia, e specialmente la storia come storia di lotta di classe, e avendo ridotto l’analisi di classe a un altro insieme di variabili indipendenti, i sociologi mainstream si sentivano a loro agio con il suo marxismo multivariato. Se questo era il marxismo, allora benvenuto.

Il lavoro quantitativo poteva non aver prodotto nuovi risultati rilevanti, ma aveva avuto l’effetto di spingere Erik a sviluppare definizioni più chiare per le sue categorie di classe. Dovendo operazionalizzare la classe, la posizione contraddittoria di classe che lui chiamò “lavoratori semi-autonomi” si mostrò particolarmente difficile da definire in maniera coerente. Di fatto, lottare con la sua ambiguità lo stimolò a rilanciare le basi della sua struttura di classe, seguendo la teoria dello sfruttamento sviluppata dall’emergente economista John Roemer[15]. Erik ricostruì la sua teoria dello sfruttamento focalizzandosi sulla distribuzione di diverse proprietà: forza lavoro, mezzi di produzione, risorse organizzative, competenze o titoli. Il feudalesimo era incentrato sul controllo della forza lavoro, il capitalismo sul controllo dei mezzi di produzione, lo statalismo sul controllo delle organizzazioni, il socialismo sul controllo delle competenze e dei titoli, mentre il comunismo permetteva il controllo collettivo di tutte le proprietà e l’eliminazione dello sfruttamento. Si delineava una storia evoluzionistica intrinseca all’eliminazione progressiva delle forme di sfruttamento, che così dava il via a una nuova mappa delle classi sotto il capitalismo definita dalle proprietà che esse possedevano: dai datori di lavoro, dalla piccola-borghesia, dai manager, dai supervisori, da esperti non-manageriali, e dai lavoratori. Tutto questo venne elaborato in grande dettaglio nel suo libro Classes[16].

Mentre Erik (1982) dissentiva da Roemer nel definire lo sfruttamento di classe senza relazioni di dominio, quelle relazioni di dominio erano presunte più che osservate, misurate o mappate. Quello che in effetti egli operazionalizzava erano diverse proprietà – proprietà dei mezzi di produzione, forza lavoro, risorse organizzative e competenze. Il suo rilancio delle basi della struttura di classe in termini di proprietà detenute dagli individui portò Erik un passo più vicino alla sociologia. Erik può aver indirettamente contribuito all’atrofia del modello di conseguimento di status ma ha anche preparato la via per lo sviluppo di nuove concezioni di classe, come quella basata su diversi “capitali” – sociale, economico e culturale – introdotta da Pierre Bourdieu[17], concezioni di classe in cui l’idea di sfruttamento scompare.

Erik divenne vittima del suo stesso successo. In un momento di rinascita marxista, l’opera di Erik attirò molta attenzione. Era un marxista con una sorprendente integrità che combinava finezza empirica, rigore analitico e innovazione teorica. Non c’era niente di simile nel mondo della sociologia, benché John Goldthorpe divenisse un suo accanito concorrente anti-marxista, cosicché Erik riuscì ad assicurarsi finanziamenti per condurre indagini sociali su scala nazionale progettate per cogliere distinte dimensioni della struttura di classe basate sulla combinazione di sfruttamento e dominio. Ma ancor più di questo, riusciva a introdurre misure di coscienza di classe che potessero mappare possibili alleanze di classe. La fama di Erik si diffuse oltre i confini nazionali man mano che sempre più paesi attuavano proprie indagini che replicavano quella che Erik aveva progettato. Nel giro di dieci anni una quindicina di paesi avevano raccolto dati sulla struttura di classe e la coscienza di classe. Per Erik questo comportò un enorme volume di lavoro – suggerimenti, consulenze, collaborazioni e co-autoraggio di articoli sull’analisi di classe comparata. Il prodotto finale fu un massiccio volume, Class Counts [La classe conta] (1997)[18]. Non era chiaro se ci fosse un qualche risultato empirico di spicco ed Erik, nella prefazione, ammise che non era sicuro che «i risultati fossero valsi lo sforzo», due decenni di lavoro[19].

Erik perse interesse a contrapporre marxismo a sociologia e si focalizzò piuttosto sulla connessione tra variabili dipendenti e indipendenti all’interno di un vasto programma di ricerca che raggiunse il suo apice quando il marxismo era già in ritirata all’interno della sociologia. Di conseguenza, Erik iniziò ad avere un approccio più conciliante con la sociologia e un posizionamento più modesto della sua opera. Nel volume collettaneo che curò, Approaches to Class Analysis[20] [Approcci all’analisi di classe], la sua analisi di classe marxista venne presentata come un approccio tra i tanti, che includevano i neo-weberiani, i neo-durkheimiani, bourdieusiani, analisi basate sulle rendite e analisi post-classiste. Dal suo iniziale entusiasmo volto ad assegnare il primato tra teorie in competizione divenne più ecumenico. Erik assunse una postura più difensiva, sostenendo il suo concetto marxista di classe assieme ad altre concezioni che, ironicamente, erano sorte, in parte, nello spazio che lui aveva creato criticando i vecchi modelli di conseguimento di status.

Nel suo ultimo libro riguardante la classe, Understanding Class [Comprendere la classe], inserisce una scelta di saggi scritti tra il 1995 e il 2015 tentando di rivitalizzare l’analisi di classe non attribuendo una primazia, né attraverso il pluralismo, ma attraverso la sintesi. Erik prova qui a mettere assieme tre modi fondamentali di condurre l’analisi di classe: la classe come sfruttamento, come cumulo di opportunità, e come attributi individuali – in linea di massima, il marxismo, gli approcci weberiani e di conseguimento di status, ognuno riguardante diverse tipologie di problemi. Scrive:

Un’analisi di classe pienamente elaborata combina quindi questo tipo di macro-modello dinamico del conflitto e della trasformazione con il modello multilivello micro-macro dei processi di classe e delle vite individuali. In tale modello, vengono combinate le intuizioni chiave degli approcci stratificazionisti, degli approcci weberiani e degli approcci marxisti[21].

Questa mossa verso un modello sintetico, “dalle grandi battaglie sui paradigmi” al “realismo pragmatico”, come Erik la chiamerebbe, potrebbe essere vista come un riflesso della sua ascesa a una posizione di rilievo all’interno della sociologia: ora poteva accettare la validità di altri modelli di classe, incorporandoli in un quadro marxista. Ma non credo che fosse quello che stava accadendo. Al contrario, al divenire più marginale del marxismo in sociologia, Erik prendeva una posizione più prudente, cercando di mantenere l’idea di classe abbracciando visioni sociologiche che aveva sino ad allora criticato. Stava transitando da quella che chiamava critica della sociologia “incentrata sui vizi” a una critica “incentrata sulle virtù”[22], riconoscendo il ruolo esplicativo di ognuna delle diverse visioni entro un quadro concettuale più ampio. Alla fine però questo significò che la sua analisi di classe perse il suo tratto distintivo nel momento in cui fu integrata nella sociologia, assieme a prospettive che spesso non si fondavano su una concezione di capitalismo, per non parlare del superamento del capitalismo[23].

Al divenire più marginale del marxismo in sociologia, Erik prendeva una posizione più prudente, cercando di mantenere l’idea di classe

Erik indubbiamente fece un grande intervento con la sua analisi di classe, sia nella sua riconcettualizzazione, sia nella sua, ancor più innovativa, dettagliata misurazione empirica e mappatura delle strutture di classe che seguì. L’ambizione e il successo di tal progetto diede una legittimazione senza precedenti al marxismo in sociologia. Ma di nuovo, questo avvenne a un costo. Invece di mettere in discussione i fondamenti della sociologia, Erik competeva con i modelli sociologici esistenti. Usò tecniche standard (indagine campionaria e analisi statistica) per dimostrare che le sue categorie di classe coglievano al meglio i “meccanismi sottostanti” per spiegare una varietà di fenomeni, dalla diseguaglianza di reddito alle diverse dimensioni di coscienza di classe. In realtà la battaglia tra paradigmi divenne un giudizio tra modelli astratti, trascinandolo sul terreno della sociologia. Il suo marxismo scientifico finì in una sociologia marxista. Negli ultimi due decenni, la sua ricerca più riuscita non era più specificamente marxista – si veda l’opera con Rachel Dwyer sul cambiamento della distribuzione di lavori cattivi e buoni nella struttura occupazionale americana, demistificando l’euforia degli anni Novanta riguardo una “marea montante che solleva tutte le barche”[24].

A questo punto Erik avrebbe potuto lasciare il marxismo, come fecero in molti. Avrebbe ottenuto riconoscimenti per avere visto la luce e avere ammesso i suoi errori giovanili. Ma questo non era certo da lui. Invece, Erik reinventò un marxismo adatto ai tempi. Operando una chiara rottura con l’analisi di classe, recuperò il suo vecchio interesse per il pensiero utopico. La sua relazione con la sociologia cambiò: invece di fondarsi sulla sua tradizione positivista fece ricorso implicitamente se non esplicitamente alla sua tradizione emancipatrice. Dal suo marxismo scientifico “pragmatico” – una sociologia marxista – passò a un marxismo critico, a un marxismo sociologico.

3. Il marxismo critico – le utopie reali

Il progetto sulle utopie reali rappresenta, nelle parole di Louis Althusser[25], una rottura epistemologica. Comunque, dove Althusser vide il passaggio di Marx da una filosofia critica o umanista a un’autentica teoria scientifica del capitalismo, la rottura epistemologica di Erik fu in una direzione opposta: dalla scienza alla critica; dalla mappatura della struttura sociale al progetto di trasformazione sociale; dallo studio dei meccanismi reali allo studio dei futuri possibili; dalla neutralità scientifica all’esplicitazione dei fondamenti dei valori; dalla misurazione a distanza all’impegno ravvicinato; dall’ideologia come distorsione all’ideologia come forza morale; dalla politica come epifenomeno alla politica come parte integrante dell’avvento delle utopie reali; dal determinismo delle strutture oggettive al rovesciamento del capitalismo.

La svolta verso il pensiero utopico non era interamente nuova. Come ho menzionato precedentemente, Erik aveva già tenuto un corso su “Utopia e Rivoluzione” durante il suo interregno teologico. Inoltre, all’inizio del 1979 Wright si era unito al gruppo dei “Marxisti analitici”, a volte conosciuto come “No Bullshit Marxist Group” [Gruppo Marxista senza minchiate], che si aggrovigliava su quelli che considerava gli aspetti problematici del marxismo, finendo a brandelli. Quando gli venne chiesto perché avesse lasciato, Adam Przeworski, uno dei suoi membri principali, rispose:

Lasciai perché pensavo avessimo concluso il nostro programma intellettuale. In ultima analisi abbiamo scoperto che del marxismo non è rimasto molto e che in realtà non c’era più molto da imparare[26].

Il fatto che il solo Erik poté sopportare l’offensiva critica di questi studiosi brillanti e continuare con il suo marxismo fu una testimonianza della sua resistenza, del suo intelletto formidabile, e del suo attaccamento ai fondamenti morali del marxismo. Il gruppo lo rese comunque sensibile all’importanza dei fondamenti morali che lo portarono al suo Progetto di utopie reali[27]. Quello era il lato “utopico” delle utopie reali. Sul lato “reale” delle utopie reali, Erik era influenzato dal suo collega e amico, Joel Rogers, che giunse a Madison nel 1987. Facevano lunghe passeggiate assieme quasi ogni domenica. Dall’inizio Joel fu un infaticabile maestro di cambiamento sociale progressista a livello statale e nazionale, una potente fonte d’ispirazione e una prova di realtà per le utopie di Erik. Portarono il reale e l’utopico assieme nel loro libro American Society: How It Really Works [La società americana: come realmente funziona][28]. Fu questa la base di un corso che progettarono assieme e in cui si domandavano in che misura gli Stati Uniti realizzassero i cinque “valori chiave” della società americana – libertà, prosperità, efficienza economica, equità e democrazia – e come avrebbero potuto fare meglio.

La sua rottura fu in una direzione opposta: dalla scienza alla critica; dalla mappatura della struttura sociale al progetto di trasformazione sociale

Ma ci tengo a sottolineare una più vasta influenza sul Progetto di utopie reali – la congiuntura politica del momento. Il 1991 fu l’anno del collasso dell’Unione Sovietica, due anni dopo il crollo del socialismo di Stato in Europa dell’Est. Per quelli che identificavano il marxismo con le società sovietiche, questo pose fine a una tradizione intellettuale moribonda che avrebbe dovuto venire seppellita molto tempo prima. Per altri, la scomparsa di una reale alternativa al capitalismo, non importa quanto problematica, avrebbe avuto conseguenze avverse per la politica occidentale: il capitalismo non avrebbe più dovuto fare concessioni politiche che sorgevano dalla competizione con l’Unione Sovietica durante la Guerra fredda. Infatti, l’indiscriminato rigetto del passato sovietico da parte dei leader russi post-sovietici e la loro ugualmente risoluta adozione di un’economia di mercato, mentre ebbe effetti disastrosi per la maggioranza dei russi, diede un enorme impulso all’imporsi del neoliberismo e ai proponenti della “fine della storia”. In questo contesto, per quelli che mantenevano una critica del capitalismo, per quelli che mantenevano la possibilità di un’alternativa al capitalismo che potesse garantire una vita migliore per i più, divenne imperativo immaginare forme nuove di socialismo.

E qui ritorna Erik Wright con le sue “utopie reali”. Il marxismo classico aveva un’allergia al pensiero utopico. In L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza[29] Engels sottopone il pensiero utopico a una critica spietata, presentandolo come la proiezione di un progetto senza riscontro nella realtà, come se il progetto avesse il potere miracoloso di realizzarsi di sua propria iniziativa. Invece Engels insiste su come il capitalismo ponga i semi della propria distruzione, esponendo l’argomentazione marxiana basata sull’intensificarsi delle crisi di sovrapproduzione con la necessaria coincidenza dell’espandersi della lotta di classe. Era una teoria stringente che si mostrò errata, non da ultimo a causa della sua non sviluppata teoria dello Stato, la sua imperfetta teoria della lotta di classe e l’assenza di una teoria della transizione.

Marx ed Engels, e a dire il vero gran parte del marxismo classico, sottostimarono la durevolezza del capitalismo. Se il crollo del capitalismo non è imminente, allora lo sviluppo di una immaginazione credibile di socialismo diventa ancor più difficile, quanto ancor più importante. La vitalità del marxismo si aggrappa all’idea di un’alternativa “socialista” al capitalismo. Ma quale tipo di alternativa socialista?

Dato che il socialismo esistente era stato screditato o dismesso, questo dilemma richiedeva  un’immaginazione utopica, ma quale sorta di immaginazione utopica? I progetti di un futuro socialismo sognati dai loro architetti erano semplicemente troppo remoti o, se realizzati, portavano facilmente al “totalitarismo”. Così Erik coniò la frase “utopia reale” per riferirsi ad allora esistenti organizzazioni, istituzioni e movimenti sociali che operavano nella società capitalistica, ma seguendo principi anticapitalisti. Quattro furono gli esempi: il bilancio partecipativo, originalmente sviluppato a Porto Alegre; il reddito di base universale; Wikipedia; la cooperativa basca Mondragon di proprietà dei lavoratori. In ciascun caso, Erik esplorò il funzionamento dell’utopia reale, espose i suoi princìpi, esaminò le sue dinamiche e contraddizioni interne così come le condizioni di possibilità e diffusione[30].

Dal 1992, Wright organizzò una serie di conferenze al Havens Center dove un saggio analitico, focalizzato su una particolare “utopia reale”, venne fatto circolare in un gruppo selezionato di partecipanti, ognuno dei quali scriveva e presentava dei commenti. Sino a oggi sono stati prodotti sette volumi: sulla democrazia associativa, curato da Josh Cohen e Joel Rogers; su una particolare versione di socialismo di mercato, curato da John Roemer; sulle nuove forme di egualitarismo, curato da Sam Bowles e Herb Gintis; sul governo partecipativo, curato da Archon Fung e Erik Wright; sui sussidi del salario minimo, curato da Bruce Ackerman, Ann Alstott e Philippe van Parijs; sulla diseguaglianza di genere, curato da Janet Gornick e Marcia Meyers. Il volume più recente, sulla democratizzazione della finanza, fu curato da Fred Block e Robert Hockett.

Erik era attivamente coinvolto in ognuna delle conferenze e nella pubblicazione dei saggi presentati, prima nella rivista Politcs and Society e in seguito più estesamente in un libro pubblicato dall’editore Verso. Furono necessari vent’anni prima che Erik pubblicasse la sua grande opera Envisioning Real Utopias[31], che scaturì da un articolo che scrivemmo assieme, intitolato «Il marxismo sociologico»[32].

Envisioning Real Utopias inizia con una “diagnosi e critica”, un catalogo delle malattie del capitalismo che invita a delle “alternative”. Il catalogo include undici modi in cui il capitalismo come sistema economico genera conseguenze indesiderabili – sofferenze umane eliminabili, negazione della crescita personale, limitazione dell’autonomia e della libertà umana, violazione dell’egualitarismo, che portano a irrazionalità, consumismo, degrado ambientale, mercificazione, militarismo e imperialismo, corrosione dei valori comunitari e della democrazia.

Così era esposto il carattere negativo del capitalismo, ma quali erano le alternative? Come avevano pensato i marxisti le alternative socialiste al capitalismo? Inizialmente, seguendo Marx ed Engels, i marxisti si concentrarono sull’autodistruzione dell’economia capitalistica e la sua auto-trasformazione, ponendo le condizioni per il socialismo – lasciando alla classe operaia e i suoi rappresentanti la presa del potere e la gestione di una nuova società a loro propria immagine. Nessuna necessità di utopia! Era la fase anti-utopica, focalizzata su quando e come il capitalismo sarebbe crollato. In una seconda fase, il dibattito attorno al socialismo fu influenzato dall’imprevisto costituirsi dell’Unione Sovietica. Lo Stato appariva centrale in questa seconda visione del socialismo; si potrebbe dire che questo fosse il socialismo in terra[33]. La nostra tesi era che nella terza fase il socialismo avrebbe dovuto essere definito come l’autoregolazione collettiva della società civile, estesa su due piani[34]. Primo, il potenziamento del sociale avveniva in relazione allo Stato coinvolgendo diversi modi di approfondimento della democrazia: bilancio partecipativo, assemblee cittadine, democrazia associativa. Secondo, il potenziamento del sociale andava contro l’economia attraverso Wikipedia, l’economia solidale, la cooperativa Mondragon, il reddito di base universale.

Erik Wright arrivò a fronteggiare il problema centrale della sua opera: il passaggio dall’analisi di classe senza utopie alle utopie senza analisi di classe

La terza parte del libro sviluppa una teoria della trasformazione. Erik considera tre strategie: trasformazione per rottura, su cui era scettico (come è sempre stato), trasformazione interstiziale, che riguarda lo sviluppo di istituzioni autonome all’interno del capitalismo e trasformazione simbiotica, che ci riporta a modalità in cui lo Stato può essere usato per promuovere lotte trasformative contro se stesso[35].

Nei vent’anni in cui Erik lavorò a questo libro, viaggiò per tutto il mondo discutendo di utopie reali con accademici, attivisti e politici. L’eloquenza e l’ottimismo che emanava attirarono sostenitori entusiasti. Envisioning Real Utopias, nonostante la voluminosità, fu comunque tradotto in molte lingue. Ma Erik intuì che avrebbe potuto essere ancor più efficace se ci fosse stata una versione popolare più corta, simile a un manifesto. Riuscì a completare How to be an Anticapitalist in the Twenty-First Century[36] [Come essere anticapitalista nel xxi secolo]prima di morire. Non appena fu pubblicato furono subito fatte dieci traduzioni del libro.

Inevitabilmente, un più corto e lineare resoconto del progetto sulle utopie reali, scritto circa un decennio dopo Envisioning Real Utopias cambiò le argomentazioni e le sottolineature. Invece della piuttosto arbitraria lista delle storture del capitalismo How to be an Anticapitalist si basa su tre principi normativi per opporsi al capitalismo: eguaglianza/equità, democrazia/libertà e comunità/solidarietà. Formulare il progetto in tal modo ha il vantaggio di ricorrere a valori che sono il fondamento delle democrazie liberali – valori che il capitalismo viola o realizza limitatamente.

Adesso Erik considera cinque strategie per realizzare il socialismo democratico. È critico del primo, distruggere il capitalismo – come si può costruire un nuovo ordine dalle rovine del vecchio – e parla invece di smantellare il capitalismo dall’alto, domare il capitalismo (contenendone gli effetti peggiori), resistere al capitalismo ed evadere dal capitalismo. Erik immagina che queste strategie lavorino insieme per erodere il capitalismo e costruire un socialismo futuro basato sulle idee di democrazia economica. Offre un insieme familiare di utopie reali che contribuiscono a tal fine: da un lato, quelle che possano costruire un’economia alternativa e dall’altro lato, quelle che possano costruire un ordine più democratico.

Quando gli fu diagnosticata una leucemia mieloide acuta nell’aprile 2018, Erik era prossimo a concludere il libro, ma doveva ancora scrivere il più impegnativo ultimo capitolo, ovvero chi sarebbero gli attori della trasformazione? Aveva diagnosticato le malattie del capitalismo, proposto le utopie reali, formulato strategie per la loro realizzazione, ma chi avrebbe guidato il progresso verso il socialismo? Per la prima volta affrontò la domanda degli attori collettivi necessari per erodere il capitalismo. Era molto chiaro sul fatto che il socialismo democratico non sarebbe sorto senza lotta collettiva, ma non arrivò a un particolare attore o a una combinazione di attori. Invece, esaminò le condizioni per la lotta – l’importanza delle identità che possano forgiare solidarietà, degli interessi che portano a obiettivi realistici, e dei valori che possono creare unità politica tra diverse identità e interessi. Non identificò un attore particolare della trasformazione.

Qui arrivò a fronteggiare il problema centrale della sua opera, il passaggio dall’analisi di classe senza utopie alle utopie senza analisi di classe: in How to be an Anticapitalist sosteneva che un conto è essere un anticapitalista e un altro conto un socialista democratico. La lotta di classe può contribuire alla prima ma è inadeguata alla seconda. Dove Marx considerava che un’inevitabile polarizzazione di classe avrebbe portato a una magica coincidenza tra la fine del capitalismo e la costruzione del socialismo, Erik trasse la conclusione dalla propria analisi di classe. La classe in sé era una forza sociale troppo frammentata e limitata per costruire qualcosa di nuovo. Se “erodere” il capitalismo non doveva portare alla barbarie ma al socialismo democratico, la trasformazione avrebbe richiesto una visione morale per innescare lotte per un mondo migliore. Erik appoggia la troika: eguaglianza, democrazia e solidarietà.

Non c’è un singolo attore predefinito, spinto dalla sua posizione sociale o economica a impegnarsi nella lotta di classe. Erik scrisse: «Non sarò capace di proporre una risposta reale alla domanda dove questi attori collettivi possano essere trovati, ma spero di chiarire il compito che affrontiamo nel crearli»[37]. Per usare il linguaggio di Pierre Bourdieu, Erik ruppe con la sua giovanile concezione “teorica” di classe – la classe definita sulla carta.

Questa “classe definita sulla carta” ha un’esistenza teorica che appartiene a tutte le teorie: come prodotto di una classificazione esplicativa, in tutto simile a quella degli zoologi e botanici, essa permette di spiegare e prevedere le pratiche e le proprietà delle cose classificate – inclusa la loro propensione a costituire gruppi. Non è realmente una classe, una classe concreta, nel senso di un gruppo, un gruppo mobilitato per la lotta…[38].

L’attore o gli attori, se devono apparire, sono costituiti dalla loro aderenza a un’ideologia vincolante che porta unità alle lotte sparse. Se prima la classe preesisteva alla lotta, adesso la lotta preesiste alla classe.

C’era una contingenza radicale nella formazione di classe, che si verificava attraverso la pratica politica e l’ideologia di cui il marxismo era una singola espressione[39]. Qui Erik esemplifica una visione gramsciana dell’ideologia politica: «che si presenta non come fredda utopia né come dottrinario raziocinio, ma come “fantasia” concreta operante su un popolo disperso e polverizzato per suscitarne e organizzarne la volontà collettiva»[40]. Erik abbandonava la “teorizzazione colta” delle aule accademiche. Non stava sognando qualche “fredda utopia” staccata dal mondo reale, ma creava una “fantasia concreta” sviluppata in stretta connessione con gli attori delle utopie reali che lavoravano nelle trincee della società civile. Passò del tempo con gli organizzatori del bilancio partecipativo di Porto Alegre, le cooperative di Mondragon, l’economia sociale del Quebec[41]. Da analista di dati quantitativi, Erik divenne un etnografo, co-producendo una comprensione dei principi delle utopie reali, le condizioni della loro esistenza e della loro diffusione.

Quindi, negli ultimi due decenni il pubblico principale di Erik divennero sempre più in tutto il mondo gli attivisti politici. Dando voce alle loro aspirazioni latenti, le legò una all’altra, immaginando e articolando gli elementi di un progetto collettivo socialista. Nel rendere visibile e dando una direzione agli esperimenti quotidiani degli organizzatori nelle trincee, divenne effettivamente un Moderno Principe, persuasore permanente che un altro mondo era possibile.

4. La riconvergenza tra scienza e critica

Tornando al lavoro professionale, Erik venne eletto presidente dell’Associazione Americana di Sociologia. Per il suo congresso annuale del 2011 a Denver venimmo deliziati da una cornucopia di utopie reali – tre sessioni plenarie e settanta panel tematici! La sociologia divenne essa stessa un’utopia reale visto che Erik la trasformò – forse solo temporaneamente – da una scienza avalutativa, oggettivistica, tecnocratica in una scienza dell’emancipazione. Nonostante non si fosse sempre curato di creare una connessione, Erik stava recuperando una sociologia classica fondata sull’impegno e i valori.

I fondamenti valoriali di Erik – eguaglianza, libertà e solidarietà – richiamano l’opera di Emile Durkheim[42], e la sua visione del socialismo: un socialismo delle gilde basato sui gruppi professionali che avrebbero assunto la proprietà dei mezzi di produzione e la direzione della società. Il suo socialismo richiedeva uguaglianza di opportunità, così che ognuno avesse la libertà di trovare il suo autentico posto nella divisione del lavoro che, a sua volta, richiedeva l’abolizione dell’ereditarietà della ricchezza e l’uguaglianza tra gruppi funzionali. Durkheim considerava la perfezione della divisione del lavoro e la realizzazione della solidarietà organica come immanenti alla società moderna. Non pensava in termini di ostacoli posti dal capitalismo. Il capitalismo non era nemmeno una categoria, nelle sue analisi.

Se questo era Durkheim, Weber era l’opposto. Weber vedeva il capitalismo assieme alla burocrazia come insuperabili ostacoli al socialismo, ma ciò non significa che la sua sociologia fosse priva di valori. È stato ampiamente frainteso come il profeta della sociologia libera da valori, ma non era affatto questo. Anche lui vedeva la pretesa di neutralità del sociologo come una pretesa fittizia. Non ci può essere scienza sociale senza fondamenti valoriali che guidino e focalizzino la nostra attenzione su alcuni aspetti della infinita molteplicità della realtà. Weber considerava l’unità metodologica fondamentale, l’idealtipo, come un’utopia, una costruzione univoca, fondata su valori, del mondo reale[43]. Nonostante fosse un conservatore, anche Weber fondò la sua sociologia sull’idea di libertà individuale e di autonomia, lottando contro la forza inesorabile della razionalizzazione. Questo lo rese sospettoso rispetto ai progetti socialisti, prevedendo che una dittatura del proletariato sarebbe divenuta una dittatura dei funzionari. Nella misura in cui anche lui insiste sui fondamenti valoriali, le utopie reali di Erik si ricollegano ai fondatori della sociologia.

Mentre l’analisi di classe di Erik venne assorbita dentro la sociologia mainstream, seguendo una metodologia realista e oggettivista, le sue utopie reali recuperarono una dimensione perduta della tradizione sociologica, l’idea di una scienza normativa fondata, nel suo caso, sulla realizzazione istituzionale di impegni valoriali dichiarati. Ancor più, Erik era impegnato in un dialogo con i realizzatori delle utopie reali. I soggetti della sua scienza non erano più anonimi che rispondevano a domande preconfezionate per indagini quantitative, ma attivisti con un estremo bisogno di supporto ideologico.

Se le utopie reali si fondano sul potenziale critico della tradizione sociologica, che cosa è successo al marxismo di Erik? Il suo Progetto di utopie reali si allea con una visione di socialismo ma, come nella sua osservazione dei mutamenti nella struttura di classe, in esso vi è una strana assenza di considerazioni circa le dinamiche del capitalismo. In Envisioning Real Utopias Erik elenca i limiti del capitalismo. In How to be Anticapitalist in the Twenty-First Century, la lista dei difetti scivola in un insieme di valori “socialisti” che non possono essere pienamente realizzati sotto il capitalismo. Eppure le utopie reali non sono guidate solo da un’immaginazione del futuro, sono guidate dallo scontento per il presente, e tale scontento è generato dal capitalismo. Ma come?

Dove dovremo guardare per una teoria del capitalismo che colleghi le utopie reali al capitalismo? Proporrei di cominciare con La grande trasformazione di Karl Polanyi[44] che parla al nostro presente con la sua analisi delle conseguenze catastrofiche della mercificazione.

Polanyi non credeva che l’umanità avrebbe mai condotto un esperimento all’insegna del fondamentalismo di mercato. Si sbagliava, perché pensava che il fondamentalismo di mercato fosse una politica irrazionale sotto il controllo umano. Non vide che l’espansione dei mercati è una riparazione temporanea alle crisi del capitalismo: i mercati contrastano le crisi di sovrapproduzione forzando le persone ad acquistare merci o estendendo il credito; i mercati contrastano le crisi di redditività reperendo fattori produttivi a più basso costo, siano esse materie prime o lavoro umano.

Polanyi vide un’onda lunga di mercificazione dalla fine del xviii secolo fino agli anni Trenta, quando arrivò la reazione, che avesse la forma dello stalinismo, della socialdemocrazia, del New Deal o quello che più lo spaventava, del fascismo. Una volta che si riconosce un’altra ondata di mercificazione che inizia negli anni Settanta, si può anche distinguere non una ma almeno due altre ondate di mercificazione nella storia di Polanyi, una nel xix secolo e l’altra nel xx secolo. Ogni ondata si distingue nell’importanza relativa della mercificazione dei fattori di produzione – natura, forza lavoro, denaro e, oggi, conoscenza. Ognuna delle tre ondate genera un contro-movimento di scala particolare: la prima portò a movimenti di carattere locale; la seconda portò agli stati regolatori; la terza ondata, il cosiddetto neoliberismo, ha generato contro-movimenti a livelli locale e nazionale, includendo regimi nazionalisti sia di sinistra, sia di destra. Finora ci sono stati solo deboli tentativi di regolare la mercificazione laddove essi sono più necessari, cioè a livello globale: specificamente, finanza internazionale, mutamento climatico, movimento transnazionale del lavoro e flussi globali di conoscenza[45]. Oggi un contro-movimento può includere reazioni locali e nazionali, ma i modelli di mercificazione chiamano ora a un contro-movimento globale che Polanyi non ha mai seriamente considerato.

Ma non mettiamo il carro davanti ai buoi. Come può la mercificazione distruggere la società? Quando natura, lavoro, denaro e conoscenza sono soggetti a uno scambio di mercato senza regole, queste entità perdono il loro valore d’uso, al punto da risultare inutilizzabili, divenire rifiuti, vale a dire fuori dalla forma merce. Non sono solo le conseguenze della mercificazione a essere disumanizzanti, ma anche le condizioni di mercificazione, ovvero il processo di sradicare natura, lavoro, denaro e conoscenza dai loro fondamenti sociali, un processo che altri, come David Harvey[46], Mike Levien[47] e Klaus Dörre[48] chiamano espropriazione. Qui risiede la significatività delle utopie reali – un indice del polanyiano contro-movimento che si oppone alla mercificazione, o, messo più positivamente, un indice dei processi di de-mercificazione.

Il reddito di base universale o meglio l’erogazione universale di servizi sociali che rispondano a bisogni fondamentali sono una risposta alla mercificazione della forza lavoro che, come Nancy Fraser[49] e Silvia Federici[50] hanno sostenuto, riguarda l’assoggettamento delle donne e la crisi della cura, così come la mercificazione sregolata genera alti livelli di precarietà. Le banche pubbliche e il bilancio partecipativo sono reazioni contro la mercificazione del denaro, il ricavo di denaro dal denaro, il capitale finanziario. Le cooperative agricole e immobiliari sono una risposta alla mercificazione di terra e acqua, mentre i gruppi per la giustizia ambientale si organizzano contro il saccheggio dell’atmosfera sulla via della mercificazione attraverso lo scambio di quote di emissioni carbonifere.

Il Progetto di utopie reali reclama una base scientifica per identificare le opportunità e possibilità per un impegno politico che abbia successo

Wikipedia e la collaborazione tra pari sono un contrappunto alla mercificazione della conoscenza a opera del capitalismo della sorveglianza[51]. L’istituto che Erik costruì in un arco di trent’anni – il Havens Wright Center for Social Justice – con la sua organizzazione collettiva può essere visto come un contrappunto alla mercificazione della conoscenza nell’università. Questa appropriazione e ricostruzione de La grande trasformazione è un modo per recuperare l’unità contraddittoria tra marxismo critico e scientifico che apparve così spontaneamente all’inizio della carriera di Erik, nei formidabili anni di mezzo secolo fa.

Le utopie reali non possono fermare l’espansione e l’allargamento del mercato, ma possono fornire le basi di un contro-movimento che reagisca alla mercificazione di tutto; mercificazione che non è un momento congiunturale o contingente, bensì sistematicamente generata dal capitalismo per contenere le crisi dell’accumulazione capitalistica. Siccome il capitalismo dipende dalla mercificazione, un movimento verso la de-mercificazione condotto attraverso tutte le merci “fittizie” ha il potenziale per essere anticapitalista ma anche per salvare il capitalismo da se stesso. Questo è il problema, che la de-mercificazione può portare oltre il capitalismo solo se è accompagnata da un movimento socialista. Da lì l’importanza dell’impegno di Erik con utopie reali particolari e con i loro attivisti, nel tentativo di unirli assieme in un movimento anticapitalista che dia energia a un progetto socialista democratico.

Questa deve essere la replica ai critici di Erik che hanno etichettato il suo progetto come un “socialismo neoliberista” o un “marxismo neo-tocquevilliano”: le utopie reali devono divenire parte di una gramsciana “guerra di posizione” nella società civile. Chi saranno i soggetti di queste lotte? Chiaramente la classe è una probabile candidata in termini di interessi materiali, in virtù del fatto che gli effetti della mercificazione sono diretti contro le classi più basse, siano essi contadini o salariati. Sono possibili alleanze tra le classi perché la mercificazione della natura e del denaro tocca tutti. Non meno importanti sono gli effetti diseguali legati a razza e genere. Ci sono quindi potenziali alleanze di tutti i tipi, così come è probabile che le lotte contro la mercificazione saranno sempre più frammentate e localizzate. Solo una potente ideologia può rendere il mercato un oggetto di ostilità, vista la sua capacità di naturalizzare il suo stesso modo di funzionamento. Erik ha fornito i fondamenti di questa ideologia, ma non si è mai seriamente posto il problema se questo richiedesse un partito politico.

Il Progetto di utopie reali rievoca il marxismo giovanile di Erik, dove scienza e critica erano unite. Ma ancora reclama una base scientifica per identificare le opportunità e possibilità per un impegno politico che abbia successo. La traiettoria di Erik è andata dal marxismo scientifico a quello critico, ma adesso quest’ultimo non può adempiere alla sua missione anticapitalista senza un’iniezione di scienza – una teoria delle dinamiche del capitalismo e di come vengono esperite – e una più elaborata ideologia che unifichi lotte frammentate.

5. Coda: il marxismo sociologico

In Reconstructing Marxism[52][La ricostruzione del marxismo] Erik e i suoi coautori, Andrew Levine e Elliott Sober, esposero i fondamenti del marxismo – affrontando la sua teoria della storia e le questioni legate alla sua filosofia della scienza. La loro idea di “ricostruzione” era analitica più che storica. Applicando le prospettive positiviste convenzionali della scienza oggettiva, abbandonarono la storia del marxismo, lo studio dei testi canonici e il contesto economico e politico dei loro autori[53].

A Erik una visione così sapeva di religione e dogma. Svincolato dal peso della tradizione marxista, il marxismo analitico offrì un nuovo inizio. Però minacciò anche di segnare la fine del marxismo. Erik era infatti l’unico marxista analitico a mantenere un’identificazione con il marxismo. Perché? Senza alcun dubbio ci sono diverse risposte a questa domanda; qui ne sottolineo una: il suo legame con la sociologia.

Il marxismo analitico era dominato da filosofi, economisti e scienziati politici. Erik era l’unico rappresentante della sociologia che, io credo, sostenesse il suo impegno al marxismo. A dire il vero, Erik diceva spesso che non era particolarmente interessato alla sociologia, ma passando quarant’anni in uno dei principali dipartimenti di sociologia, leggendo sempre il lavoro di studenti e colleghi e discutendo con i sociologi, l’ha assorbita per osmosi. Come il marxismo svanì, così il suo prestito divenne più consapevole. Nell’ultimo decennio della sua vita il suo impegno nella sociologia crebbe, specialmente dopo l’elezione a presidente dell’Associazione Americana di Sociologia. Potrà forse non aver sposato l’analisi di classe e le utopie reali, ma alla fine riuscì a sposare sociologia e marxismo – un matrimonio ineguale dominato dal marxismo. In ultima analisi, questo perché il suo lascito è un marxismo sociologico più che una sociologia marxista.

Come abbiamo visto, ci furono tre prestiti dalla sociologia. Il primo era metodologico, convertendo gli strumenti dell’indagine campionaria e la statistica contro il quadro teorico della sociologia. Dovette incontrare la sfida, definita in modo celebre da Audre Lorde, che gli strumenti del maestro «possono permetterci temporaneamente di batterlo al suo gioco, ma non ci permetteranno di portare a un genuino cambiamento»[54]. Ponendo questa importante questione, scrisse nella mia copia di Class counts – il compimento della sua analisi di classe comparativa – «Ahimè, vedi che cosa ne è divenuto della dialettica rivoluzionaria».

Il secondo prestito di Erik era dal punto di vista della sociologia della società civile. Le utopie reali dovevano potenziare il sociale, ripristinare il sociale nel socialismo.

Il terzo prestito di Erik era dai fondamenti morali della sociologia, il suo impegno ai valori universali: eguaglianza/giustizia, democrazia/libertà, solidarietà/comunità. Già presenti in Envisioning Real Utopias, divennero centrali in How to be an Anticapitalist. Le utopie reali non riguardavano solo il potenziamento del sociale ma la realizzazione istituzionale dei valori condivisi che non avrebbero mai potuto essere realizzati pienamente sotto il capitalismo. Era un curioso, critico ma inconscio ritorno a dove Erik aveva iniziato, con il lavoro di Talcott Parsons; solo ora l’euforia di Parsons circa la società statunitense fu proiettata verso un futuro socialismo irrealizzato.

A costituire un filo conduttore della sua opera, quindi, non è solo una biforcazione tra il marxismo scientifico e quello critico, ma una tensione produttiva tra marxismo e sociologia. Come Alvin Gouldner[55] scrisse, nonostante le tante polemiche che li contrapponevano, marxismo e sociologia sono come due gemelli siamesi: «Il crollo dell’uno presagisce al crollo dell’altro. Entrambi hanno un destino comune non nonostante il fatto di avere sviluppato un’opposizione dialettica, ma precisamente a causa di questo». I sociologi hanno tutte le ragioni per tenere accesa la fiamma del marxismo, dal momento che l’opposizione al marxismo è sempre stata parte della loro ragion d’essere. E in modo simile, come dimostra Erik, i marxisti possono anche prendere prestiti, fruttuosamente, dalla sociologia. Il marxismo ha un posto speciale nella storia della sociologia e scommetto nel suo futuro[56].

L’equilibrio tra sociologia e marxismo muta con il contesto politico, riflesso nel fluire e rifluire degli accademici dentro e fuori il marxismo. Lungo tutti i flussi e riflussi il marxista Erik rimase saldo. Anche quando il marxismo batteva in ritirata, Erik non venne mai meno al suo impegno. Non lo fece solo passivamente attendendo una sua ripresa, bensì ricostruendo attivamente il marxismo, passando dalla sua analisi di classe al suo Progetto di utopie reali, e entusiasticamente attraendo tanto una nuova generazione di socialisti che entravano in accademia, quanto una crescente comunità di attivisti in tutto il pianeta. Dietro la ricostruzione del marxismo che fece Erik ci fu un costante impegno alla verità, alla chiarezza, al dialogo, alla comunione e alla giustizia sociale.

Nei suoi ultimi giorni portò una quarta dimensione di prosperità umana: all’eguaglianza, democrazia e solidarietà aggiunse l’amore, un’emozione intensa di mutuo riconoscimento e interdipendenza.

Erik non era solo un architetto della teoria delle utopie reali; egli mise quella teoria in pratica. Dotato di ricche e varie abilità egli stesso, organizzò comunità partecipative ovunque egli andasse, che fosse con bambini, famiglie, studenti o colleghi, rendendo capaci così gli altri di realizzare le loro proprie distinte potenzialità. In pratica come nella teoria, fu impegnato nella costruzione di un futuro nel quale ognuno avrebbe avuto accesso alle condizioni della propria prosperità, condizioni che la sua esistenza privilegiata gli permise di godere. Visse sotto il capitalismo come se fosse sotto il socialismo, dando un esempio spesso impossibile da seguire, ma sempre instillando un’immaginazione di quello che potrebbe essere. Due marxismi, sì; ma solo un Erik Wright.


[1]  Nota autobiografica. Questo articolo è stato preparato per un Festschrift all’Università del Wisconsin a Madison, svoltosi l’1-2 novembre 2019. Per diverse ragioni non è stato facile scriverlo. Per più di quarant’anni Erik è stato un grande amico e regolarmente uno leggeva e commentava il lavoro dell’altro. Abbiamo trascorso molto tempo assieme a Berkeley, a Madison e in tanti altri luoghi. Nel tentativo di cogliere il percorso intellettuale di Erik lungo il mezzo secolo appena trascorso, ho inevitabilmente espresso la parzialità di chi gli è stato uno stretto amico e collega. Abbiamo sempre avuto delle differenze che in alcune occasioni sono emerse pubblicamente, ma che non credo abbiano mai compromesso il rapporto. Al contrario, le nostre differenze hanno intensificato lo scambio reciproco, principalmente perché avevamo un progetto comune e presumo fossimo piuttosto affezionati l’uno all’altro nei nostri diversi modi. Erik era sempre il più razionale e desideroso di giungere a compromesso, mentre io ero il più irrazionale e inflessibile. Ha sempre dato del suo meglio per trovare un fondamento logico alle mie obiezioni, ma in alcuni casi questo non c’era. Io, d’altro canto, facevo notare i fondamenti non razionali del suo razionalismo trascendentale. Nell’affrontare il suo lavoro, sono sicuro che Erik non avrebbe voluto che io mi risparmiassi, ma avrebbe voluto partecipare e dissentire. Ho dovuto qui essere più cauto che in passato in quanto tristemente, per la prima volta, lui non è qui a rispondere. Chiamarlo per nome, cosa eterodossa in un tal articolo, mi permette di focalizzarmi su di lui così come sulla sua opera, mi aiuta a tenere vivo il suo spirito, portando avanti le sue idee, per le quali era sempre orientato al futuro.Per quelli che sono interessati a un più distaccato ma sempre simpatetico giudizio sull’opera di Erik all’interno della rinascita del marxismo nella sociologia statunitense tra gli anni Settanta e Ottanta, si veda J. Manza e M. A. McCarthy, «The Neo Marxist Legacy in American Sociology» in: Annual Review of Sociology, n. 37, 2011, p.155-83.

[2]  A. Gouldner, The Coming Crisis of Western Sociology, Basic Books, New York 1970.

[3]  E.O. Wright, Envisioning Real Utopias, Verso, London 2010, p. ix.

[4] E.O. Wright, The Politics of Punishment: A Critical Analysis of Prisons in America, Harper and Row and Harper Colophon Books, New York 1973.

[5]  Non solo a Berkeley e in altri dipartimenti degli Stati Uniti, ma anche in altri paesi la sociologia attrasse marxisti, specialmente dove si imponeva come nuova disciplina. Molti avevano una visione trionfalista riguardo alla possibilità di egemonizzare la disciplina. Scrivendo dalla Svezia, Göran Therborn, un altro marxista che aveva trovato casa in sociologia, dichiarò: «Quello che la ricerca contemporanea indica, quindi, non è né una convergenza, né una sintesi, bensì una trascendenza della sociologia, simile alla trascendenza dell’economia classica in Marx, e lo sviluppo del materialismo storico come la scienza della società. Indicare un compito, però, non significa compierlo. Il grado in cui queste possibilità si rivelino realizzabili non dipenderà da soli eventi intra-scientifici. L’avvento e la formazione delle scienze sociali vennero determinati dalla lotta di classe di particolari società storiche, e così, senza alcun dubbio, sarà il loro ulteriore sviluppo o il blocco del loro sviluppo. Perciò la questione di uno sviluppo futuro delle scienze sociali nella direzione di un materialismo storico rimane aperta – soprattutto per quelli di noi che sono impegnati a lavorare per questo» (G.Therborn, Science, Class and Society, New Left Books, London 1976, p.429, corsivi nell’originale). All’epoca ero in Zambia (1968-1972), studiando per diventare sociologo, e anche lì il marxismo era l’unica opzione in campo. Mentre l’antropologia e la scienza politica avevano le loro tradizioni, la sociologia era una disciplina nuova, vulnerabile rispetto a invasioni dall’esterno. In quei giorni, in Asia, in America Latina e in Africa, il marxismo sfidava e spesso sommergeva le scienze sociali importate dal Nord del mondo.

[6]  E.O. Wright, «Falling into Marxism, Choosing to Stay»,in: A. Sica e S.Turner, (ed.), The Disobedient Generation, University of Chicago Press, Chicago 2005.

[7] Charles Glock, che diresse il Dipartimento in quegli anni (1967-68 e 1969-71), scriveva: «Gli uffici esterni del Dipartimento somigliavano a delle stazioni di reclutamento per le cause politiche della sinistra. Un ritratto di Che Guevara era visibilmente esposto come lo erano altri poster rivoluzionari. I docenti che il personale considerava dalla parte sbagliata venivano trattati con il minimo di cortesia e rispetto necessario per non incorrere in sanzioni», in: M. Burawoy, J. Van Antwerpen, Berkeley Sociology: Past, Present and Future, Unpublished Manuscript, 2001, p.14.

[8] Il corso mutò nel tempo. Inizialmente tenuto a Madison nel secondo semestre, il semestre primaverile del 1977, era basato sul corso originale di Berkeley. Nel 1979-1980 diventò Sociologia 621-622, un corso di due semestri – il primo semestre era intitolato “Introduzione alla scienza sociale marxista” e il secondo semestre “Metodologia del materialismo storico”. I temi trattati erano: Classi sociali; Economia politica del modo di produzione capitalista; Imperialismo; Struttura e sovrastruttura; Ideologia e coscienza; Lo Stato; Socialismo; Metodologia del materialismo storico. Nel 1983-84 aggiunse due temi “Razza e classe” e “Marxismo e femminismo”, mentre “Struttura e sovrastruttura” e “Lo Stato” vennero uniti in “Teoria dello Stato e politica” e “Imperialismo” e “Socialismo” scomparvero come tematiche distinte. Il syllabus mutò da un impressionante formato di 38 pagine (interlinea uno) nel 1979-80 a uno ancora più impressionante di 46 pagine nel 1983-84. Nel 2017, il syllabus era un’enormità di 87 pagine ma ridotto a un semestre singolo, tenuto ogni due anni. A quel punto i temi divennero: Stabilire l’agenda (Marxismo come scienza sociale dell’emancipazione), Struttura di classe, Formazione di classe, Teoria dello Stato e politica, Ideologia e coscienza, Teoria della storia, Socialismo ed emancipazione. Considerando che nel 1979 non c’era alcun bisogno di giustificare un corso sul marxismo, la cui popolarità era svanita, Erik introdusse delle ragioni: il marxismo offre strumenti per un progetto radicalmente egualitario di mutamento sociale; è un quadro teorico esemplare; è un potente programma esplicativo di ricerca. Nei giorni euforici dei tardi anni Settanta, la scienza sociale “esplicativa” prevalse, ma nel 2017 Erik enfatizzò il marxismo come una scienza sociale “emancipatrice” e il titolo del corso cambiò da “Scienza sociale marxista” a “Marxismo sociologico”. Erik non gettò le vecchie letture ma ne aggiunse di nuove al mutare della sua prospettiva e da lì conseguì il carattere enciclopedico del syllabus. Anche se pose analisi di classe e utopie reali fianco a fianco, non credo le abbia sposate.

[9] E.O.Wright, Class, Crisis and the State, New Left Books, London 1978.

[10] Erik avrebbe citato queste due affermazioni in altre occasioni. Si veda, ad esempio, E.O. Wright, «Falling into Marxism, Choosing to Stay», in: Mid-America Review of Sociology, 1991, XV (2), p. 9; E.O. Wright, (ed.), Approaches to Class Analysis, Cambridge University Press, Cambridge 2005, p.338; E.O. Wright, Understanding Class, Verso, London 2015, p. 1. A quanto pare i suoi dibattiti con i sociologi mainstream furono meno frequenti di quelli con altri marxisti. Uno dei momenti conflittuali più interessanti avvenne a Mosca quando Erik presentò il suo nuovo modello di analisi di classe basato sulle risorse a un’affollata seduta dell’Accademia delle Scienze. Era l’estate del 1986, l’inizio della Perestroika. Il modello di Erik sosteneva che lo sfruttamento sulla base della proprietà privata poteva essere stato abolito in Unione Sovietica, ma lo sfruttamento basato su un accesso ineguale alle risorse organizzative rimaneva. La stanza era piena, il pubblico teso sino a che la sua critica dell’ordine sovietico divenne chiara. Le domande fioccarono da ogni lato, e improvvisamente, in modo inusuale, la conferenza venne interrotta. Erik era chiaramente entrato in conflitto con il potere costituito.

[11] N. Poulantzas, Classes in Contemporary Capitalism, New Left Books/Verso, London 1975.

[12] P.M. Blau e O.D. Duncan, The American Occupational Structure, Wiley, London 1967.

[13] Erik scrisse: «Come giovane studioso ero molto ambizioso – ambizioso nella mia ricerca per quello che consideravo la “verità”, ma anche ambizioso per lo status, il riconoscimento, l’influenza, i viaggi per il mondo. Imbarcarsi in una linea di ricerca ancorata alle indagini quantitative convenzionali offriva ricompense tangibili», in: E.O. Wright, «Falling into Marxism, Choosing to Stay», cit. p. 9. Sia detto comunque che Erik non ha mai avuto da parte dell’establishment accademico il riconoscimento che la sua reputazione internazionale, i suoi risultati scientifici straordinari e il suo brillante modo di insegnare meritavano. Non l’ho mai sentito lamentarsi di questo, e dubito anche che questo lo abbia mai preoccupato. Si considerava eccessivamente privilegiato e lo era, ma il suo marxismo dava fastidio a molti. Non fu mai pienamente assimilato.

[14] E.O. Wright, Reflections on Classes, op.cit., 1987, p.44-45.

[15] J. Roemer, A General Theory of Exploitation and Class, Harvard University Press, Cambridge Mass. 1982.

[16] E.O. Wright, Classes, Verso, London 1985

[17] Qui si assiste a un paradosso. Mentre ne La Distinzione Bourdieu definisce le classi sommando capitale culturale ed economico (P. Bourdieu, La Distinction. Critique sociale du jugement, Les Editions de Minuit, Paris1979), nel suo articolo «Spazio sociale e genesi della “classe”» (P. Bourdieu, «Espace Social et Genèse des “Classes”» in: P. Bourdieu, Langage et Pouvoir Symbolique, Points, Paris 2001) si scaglia contro l’idea delle “classi su carta”, categorie di classe inventate dal teorico, classi date solo in virtù di attributi oggettivi.

[18] E.O. Wright, Class Counts: Comparative Studies in Class Analysis, Cambridge University Press, Cambridge 1997.

[19] Nel 1987 scrisse: «Prevalentemente, l’analisi dei dati è servita ad attribuire un moderato sostegno a particolari argomenti teorici circa la struttura di classe e i suoi effetti, ma di frequente – come cronicamente accade in questo gioco – i risultati sono ambigui, disturbati da confusione e correlazioni deboli che quindi non riescono a fornire giudizi dirimenti tra argomentazioni rivali. Ci sono state, ovviamente, delle sorprese interessanti. Non era così scontato, ad esempio, trovare così pervasive e spesso drammatiche interazioni tra classe e genere. La mia aspettativa era sempre stata che i meccanismi di classe avessero più o meno gli stessi effetti empirici per le donne come per gli uomini, ma questo semplicemente non è il caso. Complessivamente, resta il fatto che i risultati empirici diretti della ricerca non sono stati, per lo meno sino a ora, spettacolari», in: E.O. Wright, «Reflections on Classes», in: Berkeley Journal of Sociology 1987, p. 42. Non credo Erik abbia mai cambiato idea al riguardo.

[20] E.O. Wright, (ed.), Approaches to Class Analysis, op.cit., 2005.

[21] E.O. Wright, Understanding Class, op.cit., 2015, p.14.

[22] E.O. Wright, Understanding Class, op.cit., 2015, p. vii.

[23] Andrebbe detto che all’inizio Erik e io pensammo che i nostri approcci fossero complementari, lui focalizzandosi più sulle relazioni di produzione e io sulle relazioni nella produzione. Ma io diventai più critico dell’operazionalizzazione del suo schema concettuale attraverso i dati d’indagine campionaria piuttosto che l’analisi storica. È sempre stato onesto circa i limiti del percorso che aveva intrapreso, e tollerava le mie istanze critiche verso il suo “oggettivismo” e la mia distanza dal mondo che lui teorizzava. Ci confrontammo, provocati da Jeff Manza che organizzò un dibattito tra noi nel Berkeley Journal of Sociology: E.O. Wright, «Reply to Burawoy’s to Comments on “Reflections on Classes”» in: Berkeley Journal of  Sociology, 32, p. 73-8, 1987; M. Burawoy, «The Limits of Wright’s Analytical Marxism and an Alternative», in: Berkeley Journal of Sociology 32, p. 51-72, 1987.

[24] È interessante tracciare l’analisi che Erik fece dei cambiamenti della struttura di classe americana. Nel 1982, scrivendo con Joachim Singlemann e usando il suo primo schema sulle posizioni di classe contraddittorie, esaminando i dati del 1940-1970, Erik mostra come ci sia una “proletarizzazione” all’interno di certi settori, un mutamento che è oscurato dal movimento di persone in settori con livelli più bassi di proletarizzazione. E.O. Wright e J. Singelmann, «Proletarianization in the Changing American Class Structure» in: American Journal of Sociology,88 (Supplement), p. S176-S219, 1982. Poi però Erik passa dall’analisi di classe a uno studio dei lavori buoni e cattivi. Stimolati da un report ottimistico sulla creazione di lavoro scritto da Joseph Stiglitz nel 1997 quando era presidente del Council of Economic Advisors di Clinton, Erik e Rachel Dwyer riesaminarono ed estesero i dati per mostrare che c’erano molti nuovi “buoni” lavori ma anche molti più “cattivi” lavori, e inoltre, che i cattivi lavori erano in maniera sproporzionata occupati da afroamericani e ispanici – una storia di divisione del lavoro polarizzata e razzializzata in: E.O. Wright e R.Dwyer, «The American Jobs Machine: Is the New Economy Creating Good Jobs?»in: Boston Review 25 (6), p. 21-6, 2000. Continuarono a lavorare assieme sulla trasformazione della struttura lavorativa, estendendo l’analisi ad altri paesi. Sebbene fossero analisi molto importanti della trasformazione della struttura occupazionale e legate a un dibattito politico importante, questa ricerca rimpiazzò il concetto di classe oggi presente solo nozionisticamente.

[25] L. Althusser, Pour Marx, Maspero, Paris 1965.

[26] A. Przeworksi, «Capitalism, Democracy, and Science», in: G. Munck e R. Snyder, Passion, Craft, and Method in Comparative Politics, Johns Hopkins Press, Baltimore 2007, p. 456-503.

[27] Erik e io dissentivamo sull’importanza del marxismo analitico. L’interesse nei fondamenti morali era importante e alcuni dei primi lavori del gruppo come il classico di G.A. Cohen, Karl Marx’s Theory of History: A Defence [La teoria della storia di Karl Marx: Una difesa], Princeton University Press, Princeton 1978; e l’opera di Adam Przeworski, Capitalism and Social Democracy [Capitalismo e Socialdemocrazia], Cambridge University Press, Cambridge 1985, divennero classici del marxismo. Allo stesso tempo, io diventai sempre più scettico sulle sue ristrettezze metodologiche – l’individualismo metodologico e la teoria dell’attore razionale. In una serie di articoli ho attaccato i lavori di Jon Elster, Sam Bowles e Herb Gintis, e Adam Przeworski per aver ristretto il marxismo dentro una rigida metodologia basata su micro-fondamenti spuri e un individualismo mitologico. Sostenevo che questo non era il modo di ricostruire il marxismo, ma semmai di finirlo. Si veda di M. Burawoy, «Making Nonsense of Marx» in: Contemporary Sociology, 15 (5), pp. 704-707, 1989; «Should We Give up on Socialism? Reflections on Capitalism and Democracy» in: Socialist Review,89(1), pp. 59-76, 1989; «Marxism without Micro-Foundations: Przeworski’s Critique of Social Democracy» in: Socialist Review 89 (2), pp. 53-86, 1989; «Analytical Marxism – A Metaphysical Marxism», in Haften for Kritiska Studier 22 (2), pp. 47-58, 1989; «Mythological Individualism», in: T. Carver e P. Thomas (ed.), Rational Choice Marxism, MacMillan, London 1995, pp. 191-99.

[28] E.O. Wright e J.Rogers, American Society: How it Really Works, W.W. Norton, New York 2010.

[29] F. Engels, L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza, Editori Riuniti, Roma 1971 [1880].

[30] La distinzione tra utopie reali e utopie immaginarie è mirabilmente illustrata nel dibattito tra Erik e Robin Hahnel, propositore dell’“economia partecipata”, basata sulla partecipazione democratica in un’economia pianificata. Come sempre, Erik cerca il meglio nel progetto di Hahnel per un futuro socialista, ma la differenza è chiara: Erik inizia dalle istituzioni e organizzazioni esistenti ed esamina come potrebbero essere estese ed espanse, mentre Hahnel è intento a perfezionare un modello (R. Hahnel e E.O. Wright, Alternatives to Capitalism: Proposals for a Democratic Economy, Verso, London-New York 2016). Nonostante non sia così schietto, Erik si oppone al sogno di alternative che non hanno nessun radicamento nell’ordine esistente. Pensava alle utopie in modo molto simile a quello di Ruth Levitas (R. Levitas, Utopia as a Method: The Imaginary Reconstitution of Society, Palgrave Macmillan, London 2013) – flessibili, aperte, provvisorie, e soprattutto soggette al dibattito pubblico in un regime decisionale democratico. Ho in mente il manoscritto non pubblicato di Erik, Chess Perversions and Other Diversions [Perversioni negli scacchi e altre diversioni] (manoscritto non pubblicato del 1974), dove l’idea non è di immaginare un nuovo gioco, ma di dare un nuovo significato agli scacchi giocando con le sue regole.

[31] E. O. Wright, Envisioning Real Utopias, Verso, London/New York 2010.

[32] Fui entusiasta del Progetto di utopie reali di Erik e lo discutemmo a lungo per tutti gli anni Novanta dal momento in cui stavo riflettendo sulla caduta dell’Unione Sovietica e la distruzione della classe operaia sovietica. Così, in una delle visite di Erik a Berkeley programmammo di lavorare a un quadro teorico che mettesse assieme il suo lavoro sulle utopie reali e la mia visione della storia del marxismo alla luce del collasso del comunismo (M.Burawoy, «Marxism after Communism» in: Theory and Society, 29 (2), pp.151-174, 2000). Questa doveva essere la base di un libro in comune sul marxismo sociologico, ma io venni deviato verso un progetto sulla sociologia pubblica. Così Erik finì per sviluppare ed elaborare le nostre iniziali riflessioni in Envisioning Real Utopias mentre io mi intromettevo marginalmente.

[33] Uno dei nostri disaccordi più rilevanti riguardava lo status dell’Unione Sovietica. Erik tendeva a respingerla come una forma di “statalismo” poco rilevante per il progetto socialista, laddove io la vedevo, con tutti i suoi difetti, come una forma di socialismo – socialismo di Stato – di inevitabile rilevanza. La centralità della democrazia del Progetto di utopie reali fu un’implicita reazione al Behemoth sovietico, ma non portò mai Erik a esaminare la sua forma ultima o la sua origine. L’Unione Sovietica fu un grande e tragico esperimento che definì i contorni del xx secolo. Lo ignoriamo a nostro rischio. I marxisti hanno molto da imparare dai tentativi di messa in pratica del socialismo. Non possiamo nemmeno ignorare il marxismo sovietico, nonostante le degenerazioni, come se la storia del marxismo fosse un supermercato dal quale scegliere quello che ci piace. Dobbiamo vivere con il bene e il male – fortunatamente o sfortunatamente, l’uno dà forma all’altro. Erik non ha mai voluto veramente analizzare il lato oscuro dell’utopia. Si veda M. Burawoy e J. Lukács, The Radiant Past: Ideology and Reality in Hungary’s Road to Capitalism, Chicago University Press, Chicago1992.

[34] Io rintracciavo l’idea del socialismo come auto-organizzazione collettiva della società civile nella complementare convergenza di Polanyi e Gramsci, da un lato in reazione all’economia e dall’altro lato in reazione allo Stato (M. Burawoy, «For a Sociological Marxism: The Complementary Convergence of Antonio Gramsci and Karl Polanyi» in: Politics and Society 31 (2), pp.193-261, 2004. Erik, nel frattempo, era impegnato a elaborare e sistematizzare le relazioni tra Stato, economia e società civile o, in parole sue, a prendere sul serio il sociale nel socialismo (E.O. Wright, «Compass Points: Towards a Socialist Alternative», in New Left Review, 41, 2006, pp. 93-124).

[35] Mentre le idee di Erik venivano accolte da molti attivisti, sollevarono molte critiche tra gli accademici. Uno dei più feroci duelli si tenne al Forum di Sociologia di Berkeley, dove Envisioning Real Utopias incorse in robuste sfide con Cihan Tuğal, «Intermittent Revolution: The Road to a Hybrid Socialism» in: Socio-Economic Review, 10, 2012, pp. 381-86; Marion Fourcade, «On Erik Olin Wright, Envisioning Real Utopias» in: Socio-Economic Review 10, 2012,  pp. 369-375; e Dylan Riley, «Neo-Tocquevillian Marxism: Erik Olin Wright’s Real Utopias» in: Socio-Economic Review 10, 2012, pp. 375-381. Marion riteneva le utopie reali coerenti con il capitalismo. Si riferì persino al progetto come “socialismo neoliberista”. Cihan sostenne che senza la minaccia persistente di rivoluzione, cioè le strategie di rottura, le utopie reali non avrebbero mai potuto condurre alla trasformazione sociale. Dylan non riusciva a capire perché non ci fosse alcun riferimento alla classe, il pilastro fondamentale del capitalismo che ostruiva qualsiasi transizione al socialismo (un’obiezione curiosa, visto che Erik aveva speso circa vent’anni a studiare le classi). Alla fine, il progetto di Erik sembrava essere stato demolito. Erik era sull’orlo del pianto, non a causa delle critiche devastanti, nonostante lo fossero, ma perché venne emotivamente travolto dalla serietà con cui i commentatori avevano preso il suo lavoro. Ma il momento passò ed Erik si lanciò in una generosa quanto determinata e sistematica difesa, come sempre aveva fatto (E.O. Wright, «Taking the social in socialism seriously», in: Socio-Economic Review, 10, 2012, pp. 386- 402).

[36] E.O. Wright, How to be an Anticapitalist in the Twenty-First Century, Verso, New York 2019.

[37] E.O. Wright, How to be an Anticapitalist in the Twenty-First Century, op. cit., p. 119.

[38] P.Bourdieu, «Espace Social et Genèse des “Classes”» in: P. Bourdieu, Langage et Pouvoir Symbolique, Points, Paris 2001, pp. 231-2.

[39] Oltre a Bourdieu ci sono molti altri che vedono la classe come “classe per sé” non necessariamente legata alla “classe in sé”. Si veda, per esempio, E.P. Thompson, The Making of the English Working Class, Victor Gollancz London 1963, che vede la classe presente nel fare la propria storia, nonostante sia ancora radicata nelle condizioni oggettive dello sfruttamento. O Nicos Poulantzas, Political Power and Social Classes, New Left Books/Verso, London 1973, che vede la classe come un effetto invece che come causa, un’idea che viene elaborata da Adam Przeworksi, «Capitalism and Social Democracy», op. cit.,1985, per il quale le classi sono trattate, in parte, come il risultato di strategie elettorali dei partiti politici. Contro l’assunto della sociologia politica convenzionale che vede i gruppi possedere interessi precostituiti che dipendono dal loro posto nella struttura di classe e che ne determinano il voto, Przeworski mostra come il vero significato della classe è costituito nella e attraverso la politica. Come Bourdieu, le lotte per la classificazione delle classi precedono le lotte di classe. Nell’ultimo capitolo del suo ultimo libro, credo che Erik si stesse muovendo in quella direzione, lasciandosi dietro le sue vecchie idee di classe.

[40] A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 1975, p. 951.

[41] Questo ricorda Alain Touraine e la sua scuola dei nuovi movimenti sociali, dove il ruolo del sociologo è di “coscientizzare” i militanti nei movimenti sociali, ovvero di aiutarli a sviluppare una più vasta e profonda visione del loro progetto. Benché Touraine non abbia alcuna identificazione con il marxismo, e sia agnostico circa i fini dei movimenti sociali, egli crede nella coltivazione di movimenti sociali riflessivi e per esteso a una società autoregolantesi. Si veda A. Touraine, Production de la société, Seuil, Paris1973; Le Retour de l’Acteur. Essai de Sociologie, Fayard, Paris 1984; A. Touraine, F. Dubet, M. Wieviorka, J. Strzelecki. Solidarité: Analyse d’un mouvement social. Pologne 1980-82,Fayard, Paris 1982.

[42] E. Durkheim The Division of Labor in Society, Free Press, New York 1984 [1893].

[43] M. Weber, «“Objectivity” in Social Science and Social Policy», pp. 49-112 in: Max Weber, The Methodology of the Social Sciences (trad. di Edward Shils e Henry Finch), Free Press, New York, 1949 [1904].

[44] K. Polanyi, The Great Transformation: The Political and Economic Origins of Our Time, Beacon Press, Boston 1944.

[45] M. Burawoy, «Marxism after Polanyi», cap. 2 in: M.Williams, V. Satgar, Marxisms in the 21st century. Critiques, crisis and struggles, Wits University Press, Johannesburg2013.

[46] D. Harvey, The New Imperialism, Oxford University Press, New York 2003.

[47] M. Levien, Dispossession without Development, Oxford University Press, New York 2018.

[48] K. Dörre, S. Lessenich e H. Rosa, Sociology, Capitalism, Critique. Verso, London and New York 2015.

[49] N. Fraser, A Triple Movement? Parsing the Politics of Crisis after Polanyi in New Left Review 81, 2013 p. 119-132.

[50] S. Federici, Revolution at Point Zero: Housework, Reproduction, and Feminist Struggle, Common Notions, New York 2012.

[51] S. Zuboff, The Age of Surveillance Capitalism, Public Affairs, New York 2019.

[52] E.O. Wright, A. Levine, E. Sober, Reconstructing Marxism. Essays on Explanation and the Theory of History, Verso, London 1992.

[53] Il mio approccio alla “ricostruzione” fu piuttosto diverso. Lottando con il destino del marxismo nel periodo post-sovietico mi dovetti confrontare con la storia del marxismo esposta da Perry Anderson in Considerations on Western Marxism [Il dibattito nel marxismo occidentale](New Left Books, London 1976) che cercò di recuperare la teoria rivoluzionaria dal riflusso politico del marxismo occidentale; con Marxism. An Historical and Critical Study (Columbia University Press, New York 1961) di George Lichtheim, una storia pessimistica che vide il marxismo dissolversi con la rivoluzione russa e pietrificarsi al suo divenire accademicamente rispettabile; e con Main Currents of Marxism (Oxford University Press, Oxford 1978) [Nascita, sviluppo, dissoluzione del marxismo] di Leszek Kolakowski, una storia del marxismo in tre volumi che, nell’affrontare il periodo contemporaneo, degenera in un attacco alla Nuova Sinistra. Forse il contributo più significativo al marxismo del marxismo rimangono i Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, unico tra i classici marxisti volto a sviluppare una teoria degli intellettuali e al contesto politico ed economico per il fiorire del marxismo. Ispirato da Gramsci, ho provato a combinare approccio storico e scientifico considerando il marxismo un programma di ricerca scientifica, seguendo la filosofia della scienza “post-positivista” di Lakatos. Gli assunti inconfutabili dati per scontati sono radicati negli scritti di Marx ed Engels, dai quali evolvono successive cinghie di teorie ausiliarie, che rispondono alle contraddizioni e anomalie emerse in particolari congiunture storiche. Ho usato la metafora di un albero con le radici, un tronco e progressivi e degenerati rami. Si veda a riguardo, M. Burawoy, «Marxism as a Science: Historical Challenges and Theoretical Growth» in: American Sociological Review, vol. 55, 1990.

[54] A. Lorde, «The Master’s Tools Will Never Dismantle the Master’s House», in: Sister Outsider: Essay and Speeches, Ten Speed Press, Berkeley 1984.

[55] A.Gouldner, «A Reply to Martin Shaw: Whose Crisis?», in: New Left Review, 1/71, p. 95, 1972.

[56] Questa visione della sociologia non è la prospettiva marxista convenzionale. Scrivendo nel 1976, Perry Anderson lamentava la sostituzione del marxismo rivoluzionario con il riflusso politico del marxismo occidentale contaminato dal pensiero borghese, sociologia inclusa. Nell’interpretazione di Anderson la sociologia è un’ideologia che nasconde o giustifica la norma borghese. Non ha alcun momento emancipatore. Ironicamente, nonostante la sua sprezzante visione della sociologia, il libro di Anderson vinse il premio come miglior libro dell’Associazione Americana di Sociologia – indicando, forse, l’ambivalente attaccamento della sociologia al marxismo!