Internazionale,  Numero 5. Giugno-luglio 2022

Super-ricchi e super-poteri

La statunitense Freedom House, un’organizzazione che misura il “grado di democrazia” negli stati del mondo, ha pubblicato nel 2021 un rapporto speciale sugli Stati Uniti, che si trovano «in una acuta crisi di democrazia». Dal Rapporto risulta che nei dieci anni tra il 2010 e 2020 il paese è retrocesso di undici punti – da 90 a 83, in una scala da 1 a 100 in cui 62 è il livello minimo – in fatto di diritti politici e libertà civili. Il culmine della crisi americana attuale è stato raggiunto al termine della presidenza Trump, ma «la crisi non è germogliata improvvisamente in un ambiente politicamente sano» e i problemi che sono sfociati nel 6 gennaio 2021 «si sono accumulati per anni». Alla fine dello stesso anno, anche lo svedese International institute for democracy and electoral assistance, giudicava quella statunitense una «democrazia in arretramento». Che la democrazia negli Stati Uniti abbia «urgente bisogno di riparazioni», come ha scritto la Freedom house, è l’assunto da cui ha preso le mosse il New York Times nel marzo 2022, sottoponendo i contenuti dei documenti citati a sei esperti chiamati a discuterne in una tavola rotonda.

Dalla pur opportuna discussione del problema, di cui sono riconosciute centralità e urgenza, emerge un tratto ricorrente nella cultura politica statunitense: guardare la democrazia quasi soltanto in termini politico-elettorali e istituzionali. Nel caso specifico, mettendo in evidenza sia le deformazioni ideologiche secondo cui più della metà dei repubblicani continuano a ritenere che Trump sia stato derubato della vittoria elettorale nel 2020, sia i tentativi – sempre repubblicani – di attuare una pesante voter suppression, introducendo nei singoli stati leggi gravemente lesive del diritto di voto dei cittadini (in particolare poveri e appartenenti alle minoranze, tendenzialmente propensi a votare democratico) in vista delle prossime elezioni del novembre 2022. La disparità delle posizioni ideologico-politiche è reale; attraversa le appartenenze di classe e di genere (soprattutto tra i bianchi) e contribuisce a dividere il paese. Ma non si possono lasciare sullo sfondo le profonde disuguaglianze sociali che, in gran parte, le generano.

Nella sintesi dell’ex vice presidente della Banca mondiale Joseph Stiglitz, «la disuguaglianza economica determina una disuguaglianza politica». Stiglitz è una delle più recenti figure autorevoli che, a partire dal giudice Louis Brandeis nei primi anni Trenta del Novecento, hanno affermato sia con altrettanta brevità, sia con altre parole ed esempi, lo stesso concetto. Brandeis aveva detto: «Dobbiamo scegliere. Possiamo avere la democrazia, o possiamo avere la ricchezza concentrata nelle mani di pochi, ma non possiamo avere entrambe».

Le disuguaglianze sociali erano arrivate alla loro minore estensione alla fine del lungo secondo dopoguerra, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. Da allora, nei decenni del vangelo neoliberista, la “scelta” è stata di approfondirle costantemente, a scapito della democrazia. La crisi sociale è stata l’altra faccia della mutazione capitalistica dell’ultimo quarantennio. Già nel 1990, dopo gli anni di Reagan, lo storico Kevin Phillips denunciava il «trionfo dell’America più ricca» e la «glorificazione del capitalismo, dei mercati e della finanza». Nel 2002, lo stesso Phillips poteva ormai spingersi ad affermare che «gli Stati Uniti erano una plutocrazia […]. Le grandi fortune d’America dei primi anni Duemila si erano triplicate o quadruplicate rispetto al 1990, a riprova dell’esplosiva convergenza tra innovazione, speculazione e mania finanziaria e tecnologica.» Soprattutto, «la ricchezza» aveva acquisito la capacità di «trascendere i propri confini per arrivare a controllare anche la politica e il governo». E nel 2012, un anno dopo il piccolo terremoto delle denunce di Occupy Wall Street contro l’“1 per cento”, la giornalista Chrystia Freeland pubblicava un libro dal titolo altrettanto inequivoco, Plutocrati. L’affermazione dei nuovi super-ricchi globali e la caduta di tutti gli altri.

Oggi, la “monopolizzazione dell’America” è lo stato di fatto; poche enormi corporation economico-finanziarie esercitano il loro dominio in tutti i maggiori settori a proprio esclusivo vantaggio e condizionano la politica istituzionale e il resto della società.

Il mondo del lavoro e le sue organizzazioni, schiacciati, si stanno risollevando solo ora. Il vertice elitario delle forze economiche e politiche è riuscito a rilegittimare per sé privilegi che classismo, razzismo e sessismo garantivano ai loro omologhi tra fine Ottocento e anni Venti. I grandi capitalisti, che nel secondo dopoguerra avevano subito senza mai veramente accettare i compromessi del “capitalismo sociale” e il welfare state, hanno riconquistato – con la violenza economica e sociale e la collusione della politica – un dominio di classe che poi hanno esercitato senza mediazioni, né compromessi. Fino a ora. La loro supremazia non è un’anomalia nella democrazia, ma la prova materiale del degrado dell’idea stessa di democrazia, del suo concreto regresso a forme di dominio sistematico che sembrano rinverdire l’ottocentesca Gilded Age e il capitalismo dei robber barons: senza regole e senza organizzazioni dei lavoratori. Nella definizione di Wolfgang Streeck, quella odierna è la «de-democratizzazione del capitalismo».

Le pagine che seguono hanno una pretesa molto limitata; riguardano alcuni dei tratti e dei modi di funzionare dei super-ricchi e sono estratte da un più ampio lavoro di aggiornamento dei contenuti e delle analisi che in Dollari e no, uscito nel 2020, erano arrivate alle soglie della pandemia da Covid-19.

La presunzione di onnipotenza che ha caratterizzato quest’ultima fase di espansione del dominio economico-finanziario capitalistico, innescata dagli Stati Uniti e divenuta globale, si è alimentata sottraendo potere, reddito e condizione sociale ai lavoratori. Quando il finanziere Warren Buffett, una delle persone più ricche del mondo, ha detto e ripetuto che la «classe dei ricchi» ha combattuto la «guerra di classe» e l’ha vinta, diceva un’amara verità. Lo faceva anche quando diceva, con la signorilità del vincitore, che la “sua” classe dovrebbe pagare più tasse, perché era ingiusto che lui stesso ne pagasse meno della sua segretaria. Ma è un’amara verità anche il fatto che la generosità con la quale lui e altri come lui finanziano delle “buone cause” si accompagna al loro pagare meno tasse o anche niente tasse. Apriamo una parentesi su alcune delle mediazioni attraverso cui si articola la lotta di classe dei “signori”.

I grandi ricchi e le grandi corporation in cui investono il loro denaro hanno eserciti di esperti al loro servizio che gestiscono le loro strategie finanziarie, filantropiche e antisindacali e li aiutano a pagare meno tasse possibile. Oltre a fare ricorso alle scatole cinesi e ai paradisi fiscali fuori dei confini, sfruttano le leggi esistenti (o la loro assenza), oppure ottengono di cambiare le leggi a loro favore (o impediscono il possibile cambiamento a loro sfavore) grazie alle disponibilità finanziarie che hanno e che usano per la propria convenienza. In poche parole, realizzano quella che gli economisti Gabriel Zucman e Gus Wezerek hanno definito «evasione pura e semplice».

Il rapporto con le tasse dell’“1 per cento” è stato oggetto di molte analisi e denunce. Ne cito una sola. Nel 2021 ProPublica, un’organizzazione non-profit che fa giornalismo d’indagine, ha pubblicato uno studio puntiglioso sulle tasse sul reddito dei 25 maggiori super-ricchi. Le sue prime righe sono fulminanti:

Nel 2007, Jeff Bezos, allora un multimiliardario e ora l’uomo più ricco del mondo, non ha pagato un centesimo di tasse federali sul reddito. Ha realizzato di nuovo la stessa prodezza nel 2011. Nel 2018, anche Elon Musk, il fondatore di Tesla e il secondo più ricco al mondo, non ha pagato tasse federali sul reddito. Michael Bloomberg è riuscito a fare la stessa cosa in anni recenti. L’investitore miliardario Carl Icahn lo ha fatto per due volte. George Soros non ha pagato tasse federali sul reddito per tre anni di fila.

Nel caso di Jeff Bezos, scrivono i ricercatori di ProPublica, l’elusione fiscale risulta particolarmente eclatante «se si esaminano gli anni 2006-2018, per i quali ProPublica ha i dati completi. La sua ricchezza è cresciuta di 127 miliardi di dollari, secondo Forbes, ma Bezos ha dichiarato redditi per un totale di 6,5 miliardi. L’1,4 miliardo che ha pagato in tasse federali personali sono una somma imponente, che però ammonta a una tassa reale dell’1,1 per cento sull’incremento della sua ricchezza».

Nel loro insieme, i dati provenienti dagli schedari dell’Internal revenue service (Irs) analizzati da ProPublica «demoliscono il mito fondante del sistema fiscale statunitense, secondo cui ognuno paga la sua giusta quota e gli americani più ricchi pagano il massimo. I registri dell’Irs mostrano che i più ricchi riescono a pagare – in modo del tutto legale – tasse federali sul reddito che sono soltanto una piccola frazione delle centinaia di milioni, se non miliardi, che le loro fortune accumulano ogni anno». La ricchezza deriva dal valore delle proprietà e delle azioni possedute, che nel caso dei miliardari sono grandi e negli ultimi decenni hanno avuto crescite monumentali. Ma quella ricchezza non è tassabile: secondo la legge statunitense diventa reddito, quindi tassabile, soltanto quando è oggetto di compravendita.

I risultati dell’indagine sono lampanti: «Secondo Forbes, quelle 25 persone hanno visto aumentare la loro ricchezza complessiva di 401 miliardi di dollari tra il 2014 e il 2018. In quei cinque anni, i dati dell’Irs mostrano che esse hanno pagato un totale di 13,6 miliardi in tasse federali sul reddito. La somma appare enorme, ma corrisponde a un’aliquota reale solo del 3,4 per cento». Chi ha pagato di meno sembra sia stato Warren Buffett. Sempre secondo Forbes, in quel periodo le sue ricchezze sono aumentate di 24,3 miliardi e i dati mostrano che ha pagato tasse per 23,7 milioni, il che corrisponde a «un’aliquota reale dello 0,1 per cento, cioè meno di 10 centesimi per ogni 100 dollari che si sono aggiunti alla sua ricchezza». Alcuni dei super-ricchi a cui ProPublica ha sottoposto i risultati del suo studio – Buffett incluso – hanno risposto semplicemente che hanno pagato il dovuto. A titolo di confronto: il quadro è completamente diverso per gli statunitensi di classe media. Per esempio, «lavoratori quarantenni stipendiati» che nello stesso periodo hanno avuto incrementi di ricchezza medi di circa 65.000 dollari, legati soprattutto all’aumento di valore delle loro case, hanno pagato tasse per quasi 62.000 dollari.

L’altro strumento classico con cui i grandi ricchi fanno i loro interessi è il lobbying. Le corporation mantengono un esercito di lobbisti il cui compito è far sì che i legislatori “producano” leggi a favore o in difesa degli interessi delle stesse corporation. L’istituto del lobbismo è l’esplicito riconoscimento istituzionale del fatto che esistono rapporti di forza nella società e che chi ha più denaro ha il diritto di esercitare sulle leve del potere legislativo le pressioni ritenute necessarie e adeguate a raggiungere i propri fini: chi ha più soldi ha più potere e chi ha più potere lo esercita tramite il denaro che è in grado di spendere per difendere i propri interessi sul terreno istituzionale. «Money buys influence; big money buys big influence», ha scritto con esemplare semplicità l’economista Paul Krugman, che aggiungeva: «E le politiche che ci hanno portato dove ci troviamo non hanno mai fatto molto per la maggioranza della popolazione, mentre sono state, almeno per un certo periodo, assai buone per le poche persone al vertice». I mondi degli affari, della politica e delle istituzioni procedono di conserva, dopo la fine del Novecento come all’inizio dello stesso secolo. Raramente si rompe la formazione; normalmente ognuno svolge il suo ruolo per la difesa dei propri interessi settoriali, che però formano nel loro insieme un fronte comune.

I lobbyists ufficialmente operativi a Washington e regolarmente registrati in un apposito albo federale erano 12.137 nel 2021, vale a dire poco meno di 23 lobbisti per ognuno dei 535 membri del Congresso, e nel loro insieme le corporation hanno speso circa 3,73 miliardi di dollari per influenzare – o comprare – i comportamenti degli eletti dal popolo. Il loro lavoro non è la corruzione tradizionale; non è fatto sottobanco (benché, naturalmente, ci sia anche quello), ma alla luce del sole, sotto forma di regalie, sovvenzioni e contributi per le campagne elettorali dei singoli. Secondo OpenSecrets, al primo posto tra chi spende di più in lobbying si trovava nel 2021 l’industria farmaceutica e della salute, che ha speso oltre 677 milioni di dollari, facendo lavorare 3.130 lobbisti, il 47,83 per cento dei quali – a proposito di interazione tra macchine statale e industriale-finanziaria – erano ex dipendenti del governo. Seguivano a distanza: il settore finanziario, assicurativo e immobiliare (514 milioni), le associazioni imprenditoriali (508), il settore dell’elettronica e delle comunicazioni (491), il settore del petrolio e delle risorse naturali (316). Anche sindacati, associazioni e organizzazioni di varia natura hanno i loro gruppi di pressione nella capitale, ma la quantità di denaro che investono, e quindi l’“influenza” che sono in grado di esercitare sulle decisioni politiche, è incomparabilmente inferiore rispetto a quella di cui è capace il mondo degli affari. Nel 2021, il mondo del lavoro per i suoi lobbisti ha speso 49 milioni di dollari. Sul terreno su cui si gioca la partita le proporzioni e dotazioni delle squadre contano.

Inoltre, spostando l’attenzione sugli eletti che dei lobbisti sono gli interlocutori, ognuno dei concorrenti nelle campagne elettorali sia per la House of Representatives, sia per il Senato è disposto a spendere grandi quantità di denaro, proprio e donato da sostenitori interessati alla sua vittoria. Un dato di OpenSecrets vecchio di qualche anno resta rappresentativo: «Nel 2010, i vincitori nelle elezioni per la Camera hanno speso in media 1,4 milioni di dollari ciascuno nella loro campagna. E per il Senato? Quasi sette volte di più» . Questo non può non fare pensare che la carica porti con sé cospicue ricompense collaterali. Russ Choma del Center for responsive politics, scriveva nel 2014 che «per la prima volta nella storia la maggioranza dei membri del Congresso sono milionari». Alle soglie della pandemia quella constatazione veniva riconfermata, e veniva sottolineato che il “valore” finanziario mediano dei singoli membri del Congresso era «di poco superiore al milione di dollari», con punte significative verso l’alto. A titolo di esempio, Karl Evers-Hillstrom scriveva che la ricchezza di Nancy Pelosi, la presidente democratica della House, era salita da 41 milioni di dollari nel 2004 a 115 milioni nel 2018 e che quella di Mitch McConnell, l’ex leader della maggioranza repubblicana al Senato, era passata nello stesso periodo da 3 milioni a oltre 34 milioni.

In sostanza, quello che aveva scritto Larry Bartels riferendosi ai membri del Senato – che la loro condizione economica privilegiata è da tenere in conto «se si vuole comprendere il forte legame che esiste […] tra il voto che essi esprimono in aula e le preferenze dei loro elettori ricchi» – è stato confermato anche nelle presidenziali del 2020. Come sempre, la componente sociale che nell’intero corpo elettorale ha partecipato di più al voto è stata quella dei ricchi e dei benestanti: il loro tasso di partecipazione nel 2020 è stato dell’88 per cento, contro il 65 per cento – peraltro, una percentuale insolitamente alta – di chi aveva redditi inferiori ai 40.000 dollari annui e al 78 per cento degli elettori con redditi fino a 75.000 dollari annui. Questo fa sì che «siano gli elettori bianchi più ricchi a prevalere nelle decisioni relative a quali leggi approvare, piegando la legislazione in materia economica a favore dei ricchi e potenti».

Torniamo a Buffett e ai suoi soldi. Ma prima alla notizia secondo cui all’inizio del 2022 il valore di mercato di Apple ha superato i 3.000 miliardi di dollari. Per dare un’identità in qualche modo tangibile a quel valore così astratto, l’articolista Jack Nicas esordiva con due frasi altamente esplicative: «Mettete insieme Walmart, Disney, Netflix, Nike, Exxon Mobil, Coca-Cola, Comcast, Morgan Stanley, McDonald’s, AT&T, Goldman Sachs, Boeing, Ibm e Ford. Apple vale ancora di più». Subito dopo specificava che il tempo necessario per incrementare il proprio valore da 2.000 a 3.000 miliardi di dollari è stato di 16 mesi e mezzo (i mesi della pandemia da Covid-19). In quell’arco di tempo, Buffett – che è uno dei maggiori azionisti di Apple, con una quota del 5,5 per cento – ha guadagnato 120 miliardi di dollari. E la Berkshire Hathaway, la conglomerata che Buffett controlla, ha guadagnato poco meno di 90 miliardi di dollari nel 2021, più del doppio rispetto al 2020. Secondo Forbes, nel 2021 Buffett – il maggior “donatore” statunitense – ha destinato 4,1 miliardi in opere filantropiche (ne aveva donati 2,9 nel 2020).

Ma Buffett non è solo. Che la filantropia sia parte di una generale strategia finanziaria è universalmente noto. Secondo ProPublicail super-ricco ex sindaco di New York Michael Bloomberg, per esempio, nel 2018 ha dichiarato un reddito di 1,9 miliardi e ha tagliato le sue tasse sfruttando «le deduzioni rese possibili dalle leggi volute da Trump, le donazioni caritatevoli per 968,3 milioni e i crediti su tasse pagate all’estero», con il risultato finale «che su quei quasi 2 miliardi di reddito ha pagato 70,7 milioni di tasse. Il che ammonta ad appena il 3,7 per cento. E tra il 2014 e il 2018 la tassa reale di Bloomberg è stata dell’1,30 per cento». Nel corso della loro vita, stando sempre ai conti di Forbes, «i 25 “maggiori filantropi” tra i miliardari americani hanno donato un totale di 169 miliardi di dollari. […Questa somma] stimata a tutto il 2021 è considerevolmente maggiore dei 149 miliardi raggiunti nell’anno precedente, grazie in parte al fatto che quei miliardari nel loro insieme sono più ricchi per 150 miliardi – in media: +18 per cento – rispetto al 2020».

All’inizio di un libro denso di informazioni, Nicoletta Dentico ne fa il ritratto di gruppo:

È l’élite più socialmente impegnata ma anche la più predatoria della storia quella che ha sapientemente concettualizzato e architettato il filantrocapitalismo. Perlopiù sono uomini, uomini bianchi (le poche protagoniste donne sono “mogli di”). Sono americani, perlopiù. Monopolisti nel settore economico di riferimento, hanno congegnato con le loro fondazioni la grande trasformazione della governance mondiale per arrivare a monopolizzare le leve della politica internazionale..

Con i miliardi delle loro donazioni i super-ricchi tengono in piedi fondazioni che finanziano istituzioni benefiche, culturali, artistiche e sportive, ma anche centri di ricerca e di iniziativa esplicitamente rivolti all’acquisizione o conservazione del controllo politico delle istituzioni..

Sul terreno delle opere benefiche, finanziano campagne contro la povertà, per lo sviluppo agricolo e per la protezione sanitaria negli Stati Uniti e nel mondo, devolvendo grandi somme a favore di progetti e soggetti che loro stessi selezionano. Spesso coinvolgono come co-finanziatrici strutture pubbliche nazionali e sovranazionali, indirizzandone le scelte grazie ai finanziamenti iniziali con cui lanciano i propri progetti. Per la legislazione degli Stati Uniti, scrive Dentico,

Chi fa filantropia gode di agevolazioni fiscali enormi, e fare donazioni è tanto più premiante quanto più ricco sei (mentre le piccole associazioni con piccoli donatori non sono riconosciute). Quindi, chi ha una grande fondazione come quella di Gates o Zuckerberg si ritrova con almeno un terzo dei proventi totalmente defiscalizzati. Se pensiamo che la Fondazione Gates è partita con un gruzzolo di 15,5 miliardi di dollari nel 2000 e che la Microsoft e la Fondazione Gates hanno avuto per oltre quindici anni vite parallele [a marzo 2020 Bill Gates è uscito da Microsoft; nel 2021 Buffett ha abbandonato la Fondazione di Bill e Melinda Gates, N.d.A.], vediamo che privato profit e privato non-profit interagiscono in maniera complementare, con grandi benefici sui due fronti. 

Ma i “benefattori” sfruttano anche le norme «stabilite dai governi in seno all’Organizzazione mondiale del commercio (Omc), che permettono alla produzione di conoscenza di essere privatizzata e all’innovazione di essere costruita intorno a monopoli – e quindi ad abusi di posizione dominante – che durano vent’anni». Non pagano le tasse (e quindi non contribuiscono alla fiscalità generale e al bilancio dello Stato), ma aiutano i poveri, i malati e i bisognosi – anche finanziando la ricerca farmaceutica – rendendo meno pericolose le loro malattie e disagevoli i luoghi in cui vivono. Purché in quei luoghi essi rimangano e non cerchino di cambiare né il mondo, né la loro posizione nel mondo. E purché nei propri feudi produttivi nessuna area del loro dominio assoluto sia terreno di contrattazione o messo in discussione in alcun modo.

Un po’ più di cent’anni fa, il padrone delle ferriere e filantropo Andrew Carnegie faceva costruire biblioteche pubbliche in tutti gli Stati Uniti per l’elevazione del popolo, ma faceva sparare addosso ai suoi operai che chiedevano salari più alti e la possibilità di organizzarsi in sindacato. E l’altro benefattore John D. Rockefeller, finanziatore delle scuole per gli afroamericani nel Sud, faceva massacrare dalle sue squadracce armate decine di minatori in sciopero a Ludlow, in Colorado. I tycoons e filantropi di oggi non sparano sui loro operai, ma come i loro precursori sono assolutisti che non accettano compromessi. Non ne accettava Bill Gates, fino a quando è stato a capo della Microsoft, né li hanno mai accettati nei loro stabilimenti gli amministratori delegati che hanno guidato Google. A fine 2021, con Sundar Pichai amministratore delegato, alcune centinaia di lavoratori, dopo avere messo in atto piccole forme di resistenza interna e avere “tramato” in segreto per non essere licenziati, hanno formato la loro Alphabet workers’ union e aderito alla Communications workers of America [ne abbiamo parlato con la Tech workers coalition nel numero 3 di OPM N.d.R.]. All’inizio di aprile del 2022, dice la Awu, gli iscritti sono più di 900, sui 260.000 dipendenti di Google. Il loro è un sindacato anomalo e non riconosciuto, che esiste soltanto in quanto iniziativa solidale autonoma e attiva soltanto fuori dalle mura aziendali, senza nessuna capacità contrattuale e di rappresentanza interna. Per ora. Negli ultimi sei mesi, l’altro filantropo Howard Schultz, l’amministratore delegato di Starbucks, ha subito la sindacalizzazione di dieci suoi negozi e dovrà affrontare l’«assalto della sindacalizzazione» – parole sue – in altri 150. Neppure Jeff Bezos spara, ma anche lui ha fatto di tutto, finora, per non doversi trovare a discutere con un sindacato delle linee, dei tempi, degli orari e dei carichi di lavoro dentro Amazon. Aveva fatto notizia il tentativo – poi sconfitto nel voto – di portare il sindacato nello stabilimento di Bessemer, in Alabama, nell’aprile 2021. Ma tre mesi dopo, il National labor relations board (Nlrb) ha annullato quelle elezioni, perché la dirigenza Amazon aveva intimidito i dipendenti, aveva impedito la segretezza all’atto del voto e aveva in vario modo interferito con il procedimento elettorale, falsandone l’esito a proprio favore. Ma dopo la piccola Bessemer, in uno stato in cui la percentuale di sindacalizzati nel settore privato è all’8,5 per cento, è venuta New York City, nel cui stato omonimo è invece al 21 per cento. E con un’altra differenza: nello stabilimento di Staten Island sono stati i lavoratori a sfidare repressioni e licenziamenti, a “vedersi” tra loro, a mobilitarsi, mettere in piedi la loro Amazon workers union e ottenere infine dal Nlrb il diritto di votare. Hanno impiegato quasi due anni per raggiungere quell’obiettivo e all’inizio di aprile – mentre a Bessemer la nuova votazione ridava la vittoria ad Amazon, anche se stavolta di stretta misura – hanno votato in maggioranza a favore dell’introduzione del sindacato in azienda. È difficile dire se sarà «una delle maggiori vittorie per il lavoro organizzato di questa generazione», come ha scritto il New York Times, o se invece le reazioni di Amazon allo smacco subito riavranno la meglio, oppure ancora, se le diffuse mobilitazioni di questi ultimi mesi avranno la forza per continuare e portare altre vittorie.

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