Soggetti in lotta. La Resistenza delle donne raccontata da Benedetta Tobagi
Se dovessi definire in poche parole il libro di Benedetta Tobagi La Resistenza delle donne (Einaudi 2022), vincitore del Premio Campiello edizione 2023, lo definirei un’immersione nella soggettività femminile. Immersione resa possibile dalla centralità attribuita dall’autrice alle memorie individuali delle donne che hanno lottato nella guerra di Liberazione. In queste Tobagi affonda le mani per scavare nelle loro esistenze, per illuminare molteplici soggettività, per affrontare sentimenti e emozioni, sogni e progetti, paure e contraddizioni, desideri e delusioni che le hanno animate. Apertamente, e fin da subito, dichiara ai lettori in quale relazione si trovi con le donne oggetto della sua indagine, riconoscendole, secondo quella “categoria delle genealogie” a lei particolarmente cara, come “antenate”. L’empatia che lega l’autrice alle loro vicende esistenziali è sempre forte e presente, senza che ciò vada tuttavia a inficiare l’approccio critico alle fonti autonarrative prese in esame, approccio che è sempre mantenuto. La risonanza emotiva che viene a instaurarsi tra l’autrice e il suo oggetto di studio contribuisce semmai a dare corpo e forza comunicativa alla sua operazione culturale. Pagina dopo pagina, Tobagi crea tensione, vicinanza, empatia con le storie narrate, permettendo anche a noi di entrare nelle vite di quelle donne, di immergerci nelle loro soggettività, di provare a metterci nei loro panni e nelle loro teste. Leggere questo libro mi ha fatto più volte ripensare all’invito – rimasto tutto sommato disatteso – che Giovanni De Luna nel suo Donne in oggetto. L’antifascismo nella società italiana 1922-1939 (Bollati Boringhieri, 1995), rivolgeva agli storici esortandoli non solo a “frequentare con più disinvoltura le fonti letterarie”, ma specialmente “ad accettare la sfida sullo stesso piano della narrazione come modello espositivo e interpretativo”. Una sfida che Tobagi, storica e scrittrice, sembra aver pienamente accolto.
Nel costruire un racconto che prende forma e forza dalle parole delle donne, Tobagi ci offre una rappresentazione della Resistenza che esce dall’ambito cronologico 1943-1945, per dilatarsi temporalmente nel lungo percorso di lotta combattuto dalle donne per la loro emancipazione e liberazione. La produzione memorialistica non è, infatti, essa stessa atto di resistenza? Resistenza, in questo caso, alla loro cancellazione dalla storia della guerra contro il nazifascismo. All’indomani della sua conclusione, nel contesto, come scrive Tobagi, di «epurazione delle donne dalla memoria pubblica della guerra partigiana», saranno in poche a scegliere l’atto autobiografico. Salvo alcune eccezioni, e tra queste Ada Gobetti al cui Diario partigiano (Einaudi, 1956) Tobagi ricorre molto spesso, quasi a farne una sorta di impalcatura nella costruzione della sua narrazione storica – la maggior parte sceglie di restare in silenzio. La storia di quel dopo narrata da Tobagi è una storia che lascia con l’amaro in bocca. Almeno, così è se proviamo a comprendere, come l’autrice ci sollecita a fare, le ragioni di quel silenzio. A spingerle non è solo e non tanto la delusione per essere state escluse nel momento delle legittimazioni e dei riconoscimenti, quanto per essere state ricacciate indietro, per ritrovarsi nuovamente a vivere impigliate nelle maglie di una cultura patriarcale che chiede loro passività. Ancora una volta “con la guerra dentro”, per usare un’espressione cara a Tobagi, a combattere contro le paure, i vincoli, le lacerazioni, le contraddizioni che quella cultura continua a generare in loro.
Il percorso per guadagnarsi l’accesso alla memoria della Resistenza sarà lungo e difficile. Il tempo per farlo arriva soltanto negli anni Settanta, quando l’esplosione del femminismo apre loro spazi di narrazione del tutto inediti. È un’apertura che si accompagna alla messa in discussione di una storiografia tradizionale accusata di essere essa stessa responsabile della svalutazione, se non dell’omissione, dell’impegno femminile nella lotta contro il nazifascismo. Una storiografia “cieca”, per dirlo con le parole di Anna Bravo. L’uscita nel 1976 di La Resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi di Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina, seguita a distanza di un solo anno da quella di Compagne di Bianca Guidetti Serra, segna un momento di vera e propria svolta. E non solo in ambito storiografico: La Resistenza taciuta, scrive Tobagi, «irrompe nel discorso pubblico e cambia tutto».
Nel costruire il suo progetto di studio e di ricerca, Tobagi sa esserci molto dietro di lei, e di quel molto ne fa tesoro. Se guardato da questa prospettiva, è un progetto che muove da una duplice volontà di valorizzazione: del patrimonio di memorie femminili sedimentatosi nel tempo, del complesso di suggestioni, riflessioni, interpretazioni, concettualizzazioni disseminate negli scritti di studiose di più generazioni accomunate dall’aver guardato alla storia della Resistenza con un approccio di genere.
L’immersione nella dimensione memorialistica permette a Tobagi di focalizzare l’attenzione su una pluralità di soggetti e di modi di essere. Attraverso la ricostruzione di singoli percorsi individuali ci restituisce molteplici traiettorie esistenziali, ma anche il filo che le unisce e le accomuna. L’organicità del racconto deriva dalla capacità di intrecciare e connettere le storie narrate proiettandole in uno scenario resistenziale inteso come spazio pubblico in cui le donne possono sperimentarsi tanto come individui che come soggetto collettivo. «Dentro la Resistenza delle donne – scrive Tobagi –, che è insieme civile e armata, c’è spazio per tutte, ciascuna con il proprio sentire». Nella lotta contro il nazifascismo le donne «crescono, scoprono talenti e risorse che non sapevano di avere», cominciano a prendere la parola, imparano molto, guardano verso nuovi orizzonti di giustizia e di libertà, si immaginano in futuro diverso. E tutto questo, sottolinea Tobagi, lo fanno insieme, armate o disarmate. Significativamente uno dei pochi documenti riprodotti nel libro è il Manifesto Compiti dei Gruppi di Difesa della donna. Documento sul quale l’autrice tiene a richiamare la nostra attenzione per evidenziare, oltre che con le memorie, l’importante passaggio che si realizza nella partecipazione femminile alla Resistenza con la nascita e l’organizzazione dei Gruppi di Difesa della donna. Ad acquistare centralità sono esigenze e intenti di tipo pedagogico, a cominciare, come recita il primo punto del documento citato, dall’obiettivo di coinvolgere le donne attivamente e coscientemente nella lotta. E ciò, come rimarca l’autrice, muovendo da quello che sono abituate a fare e a pensare di essere: «madri e mogli o comunque creature destinate alla cura degli altri». Al riguardo si potrebbe aggiungere che con la nascita dei GDD il profilo del maternage assume i contorni di un attivismo che segna, almeno potenzialmente, un momento di forte rottura con una concezione della politica da sempre fondata proprio sull’esclusione dell’agire e del pensare materno. Nei Gruppi di Difesa le donne si riconoscono per quello che sono sempre state, ma anche per ciò che potrebbero diventare: «imparano quali sono i loro diritti – scrive Tobagi – e acquisiscono strumenti nuovi per leggere la realtà, perché il loro obiettivo finale trascende la guerra in corso: vogliono costruire una società più giusta – anche per se stesse». Che si tratti di vocazione alla cura, di slanci di ribellione, di sentimenti di solidarietà, di desideri di libertà e trasgressione, ciò che interessa a Tobagi è rintracciare i risvolti esistenziali di quel partecipare coscientemente, è ricostruire la storia di soggetti in lotta per la soggettivazione in un momento davvero speciale e irripetibile quale è stato appunto la Resistenza. In questa le donne sanno di svolgere funzioni fondamentali, e cosa ancora più importante sentono di poter essere qualcuno, di poter essere finalmente individui.
Oltre alla memorialistica, l’altro corpo di documentazione al quale l’autrice fa ampio ricorso sono le fotografie. Nel volume sono riprodotte circa centocinquanta immagini, per lo più provenienti da Istituti della Resistenza, raccolte con il prezioso e fondamentale contributo di Barbara Berruti, direttrice dell’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea “Giorgio Agosti” – Istoreto. L’uso di questa tipologia documentaria è a mio avviso sostanzialmente riconducibile a un duplice intento, uno più immediato, l’altro più interpretativo. Da un lato si tratta di dare, laddove è possibile, un volto e un corpo alle donne che hanno partecipato alla Resistenza. Il racconto di Tobagi ci restituisce soggetti che hanno un nome e un cognome, storie da raccontare e da tramandare, tutti elementi che possono meglio imprimersi nella nostra memoria se quei soggetti possiamo anche guardarli, conoscerli nella loro fisicità. E tanto più se lo facciamo con tutta la cura che ci mette l’autrice. L’altro intento è quello di indurci a fare attenzione a ciò che la foto racconta: l’immagine è un documento potente, ma che, come avverte Tobagi, spesso «rischia di trarci in inganno». Il documento fotografico necessita infatti di una adeguata mediazione qualora venga, ad esempio, usato per raccontare, come fa l’autrice, il modo in cui il corpo delle donne entra nella guerra di Liberazione. Anche in questo caso Tobagi fa tesoro di ciò che sta dietro di lei, di quel lavoro di analisi e di ricerca storica che nell’indagare i meccanismi di esclusione/inclusione delle donne dalla/nella sfera pubblica e politica ha focalizzato l’attenzione sulla corporeità femminile. L’esperienza partigiana insegna alle donne a esplorare il femminile come “forza manipolabile”, per usare un’espressione di Laura Mariani, una forza che consente loro di mascherarsi ma anche di sperimentare altre immagini di sé, rimanendo sia dentro che fuori norme e categorie tradizionali. Le immagini stereotipate della donna o moglie e madre o prostituta a cui il regime ha voluto ancora più rigidamente inchiodarle, diventano, nella ricostruzione di Tobagi, strumenti da usare ai fini della lotta, per mimetizzarsi, per ingannare controlli, per passare inosservate nello svolgimento di compiti pericolosi. Così, ad esempio, che si tratti di trasportare in bicicletta armi e dinamite, capelli al vento, abito a fiori, o di piazzare ordigni esplosivi in tacchi alti, rossetto sgargiante, abbigliamento seduttivo. Perché chi può immaginare che a svolgere queste azioni di guerriglia sia una fanciulla semplice e dimessa o una ragazza oltremodo provocante e appariscente? Ma il “gioco” con l’immagine di sé può andare ben oltre. È quanto avviene nel protagonismo femminile armato, quando il mascheramento si spinge tanto in là da trasgredire completamente la norma. Così, nel commentare una foto che ritrae un gruppo di partigiane armate, l’autrice tiene a richiamare la nostra attenzione, in particolare, su una di loro, una partigiana intenta a fumarsi una sigaretta, dall’aria piuttosto mascolina che, proiettandola nel nostro tempo, potremmo oggi dire, afferma Tobagi, sembrarci una butch.
Oltre alla memorialistica e alle fotografie, altre fonti a cui fa ricorso l’autrice, sebbene in modo assai meno ampio rispetto alla memorialistica e alle fotografie, sono le fonti letterarie. Espressioni, pensieri, visioni di scrittrici e poetesse sull’universo femminile – da Virginia Woolf a Natalia Ginzburg, da Wislawa Szymborska a Renata Viganò e altre – sono usati dall’autrice per dare maggior forza e incisività alla sua narrazione, specialmente quando si tratta di affrontare nodi di particolare rilievo dell’impegno resistenziale femminile. Il ricorso a Virginia Woolf è forse più di tutti quello che permette a Tobagi di problematizzare l’entrata in massa delle donne nella scena pubblica, di evidenziare specificità e complessità di un esserci che se da un lato è tanto performante, gratificante e pure capace di forti rotture, dall’altro, è anche irto di conflitti laceranti e duri a morire. Come Virginia Woolf deve uccidere l’angelo del focolare per fare la scrittrice, così «anche le partigiane – scrive Tobagi–, per poter combattere a mano armata i nazifascisti, devono sbarazzarsene subito con una sventagliata di mitra». Ma uccidere il solo modo di essere che per secoli la società patriarcale ha imposto alle donne è un percorso lungo e pieno di ostacoli, che stanno dentro e fuori di loro. E quando arriva il momento dei riconoscimenti diventa difficile mettersi in luce a discapito degli uomini. Privarli, per dirlo, come fa l’autrice, con la Virginia Woolf di Una stanza tutta per sé, di ciò di cui hanno sempre avuto un disperato bisogno: lo specchio dello sguardo femminile in cui ammirarsi.
Dire che La Resistenza delle donne è un libro “scritto bene” è forse piuttosto banale. Lo è però di meno se proviamo a chiederci quale sia il progetto intellettuale che ha dato vita e forma alla scrittura dell’autrice. Un progetto di cui, a mio avviso, va anzitutto evidenziata la tensione a raccontare la storia con un approccio “interrogante”, un approccio anche esso, come per quel “a tutte le antenate” posto in apertura, dichiarato fin da subito al lettore. “Sai chi sei? Per cosa vale la pena vivere e morire? Cosa farai nei conflitti là fuori?” sono alcune delle domande, tuttora drammaticamente attuali, che l’autrice formula ancor prima di cominciare a raccontare la storia della Resistenza delle donne. Pagina dopo pagina, questi interrogativi continuano a risuonare, ad accompagnarci nella lettura sollecitandoci a rivolgerli anche a noi stessi, a farli nostri. Nell’affrontare il rapporto tra lotte del passato e loro eredità successive Tobagi sembra muovere da una duplice aspirazione, quella di abbracciare un modo di fare e raccontare la storia che possa coincidere anche con forme di impegno civile, e quella di rivolgersi ad un pubblico il più possibile ampio. Per quanto riguarda quest’ultima, credo che “parlare per farsi capire” rappresenti per Tobagi un vero e proprio imperativo. Nel perseguirlo l’autrice sfrutta appieno le diverse competenze possedute, di scrittrice, di storica, di giornalista, comprese si direbbe anche quelle acquisite nella produzione audiovisiva, in particolare nel campo dei documentari. Esperienza quest’ultima durata solo pochi anni, ma di cui sembra aver fatto anche tesoro, a giudicare dalla particolare abilità con cui riesce a montare pezzi di memorie e frammenti di vita individuali. Il risultato di tutto ciò è una narrazione sempre fluida, sempre scorrevole, alla quale l’autrice riesce a dare leggerezza. Una leggerezza che tocca forse il suo punto massimo nel raccontare il senso di pienezza e di benessere generato dall’impegno resistenziale, come fa in Carnevale, pagine esplicite fin dalle prime parole, quelle pronunciate da Italo Calvino dopo aver letto il diario di Ada Gobetti: “Dio, ma quanto vi siete divertiti!”. Certo non sempre questa leggerezza è possibile, non quando, ad esempio, si tratta di raccontare le atrocità vissute dalle partigiane finite nelle mani del nemico, tema che Tobagi affronta focalizzando in particolare l’attenzione sullo specifico trattamento che veniva loro riservato per il fatto di essere donne. Per le partigiane sopravvissute, i traumi lasciati da quella terribile esperienza sono forti al punto da impedire loro di tornare alla vita, specialmente quando si è state vittime di violenze sessuali, come l’autrice ci spiega in Morire da vive, tra le pagine forse più intese e drammatiche del libro. Molte sono a mio avviso le strategie usate dall’autrice per creare nel lettore vicinanza con le storie narrate, tra queste, ad esempio, quella di raccontarle attingendo da immaginari, espressioni, modi di dire del nostro tempo, oppure quella di proiettare figure, lotte e rivendicazioni del passato in scenari contemporanei. Così fa, ad esempio, con le mondine socialiste di fine secolo, soggetti in lotta in cui rintracciare, secondo quella “categoria delle genealogie” a lei cara, un importante precedente dell’impegno resistenziale femminile. “E voialtri signoroni che ci avete tanto orgoglio, abbassate la superbia e aprite il portafoglio” cantavano queste lavoratrici. Nel ricordarcelo, Tobagi scrive: «Era il 1890 ma non farebbe male trasmetterlo con gli altoparlanti negli spettrali magazzini-cattedrale della logistica globale di oggi, nei soffocanti laboratori dei subappalti, tra le cassiere e centraliniste precarie che non possono alzarsi nemmeno per far pipì, – e ringrazia pure, che se ti lamenti c’è la fila per sostituirti».