Se il capitalismo verde è l’ultima speranza
Nell’architettura dei finanziamenti Ue per far ripartire la crescita economica del continente, la mitigazione dei cambiamenti climatici e la preservazione e rigenerazione degli ecosistemi rappresentano in teoria lo scheletro dell’intero edificio di aiuti. Ogni progetto presentato dagli Stati nei piani di ripresa e resilienza per accedere ai fondi di Next Generation Eu è tenuto a esercitare un impatto positivo su decarbonizzazione, sostenibilità e salvaguardia della biodiversità, o almeno a non contribuirvi negativamente.
Alla missione della cosiddetta transizione ecologica devono essere destinati almeno il 37% dei fondi per i singoli Paesi, che per l’Italia ammontano a oltre 200 miliardi di euro. Il Recovery italiano dovrà anche essere complementare alla Strategia di lungo termine per la decarbonizzazione e al Piano nazionale energia e clima, il quale proietta la fine del carbone entro il 2025 e prefigura aumenti in capacità di energia rinnovabile ed efficienza energetica del 32% entro il 2030, entrambi da aggiornare in base alla più stringente climate law recentemente approvata dall’Ue.
Le proposte di piano saranno vagliate e monitorate dalla Commissione europea sulla base dei target proposti, degli indicatori quantitativi, del cronoprogramma, e della fattibilità e coincidenza con gli obiettivi climatici ed ecologici continentali. Quali progetti nello specifico saranno considerati in linea con questi ultimi obiettivi dipenderà anche dai criteri stabiliti nella tassonomia degli investimenti sostenibili dell’Ue, un documento in discussione e aggiornato a scadenze fisse sul quale si giocano battaglie politiche e scientifiche senza esclusione di colpi, soprattutto in relazione ai progetti legati al gas fossile, al nucleare e all’energia da biomasse.
Il tema della transizione ecologica è dunque trasversale e dominante, una formula magica che sembra promettere crescita economica, preservazione delle risorse, difesa della biodiversità e stabilizzazione del clima. Ma a un più attento scrutinio, questa coppia semantica si rivela ambigua e proteiforme, un significante evocativo eppure vuoto. In altre parole, la direzione di questa “transizione” e il contenuto di ciò che verrà considerato “ecologico”, sono un terreno di conflitto dagli esiti tutt’altro che scontati.
Qualche punto fermo lo abbiamo. La recente legge climatica europea pone come obiettivo al 2030 una riduzione delle emissioni di gas serra di almeno il 55% rispetto ai livelli del 1990, e al 2050 il raggiungimento dello zero netto di emissioni. Al di là delle retoriche celebrative, ci sono ragioni fisiche e storiche per le quali gli entusiasmi sono del tutto malposti. In prima battuta, l’atmosfera se ne frega dell’ambizione, conta l’azione. Considerando l’urgenza di mitigazione che intimano i modelli climatici più recenti, i target sono troppo lontani e insufficienti per avere buone probabilità di restare al di sotto di 1,5°C di riscaldamento, come da accordi di Parigi, e per limitare sconvolgimenti estremi. In secondo luogo, l’insistenza sul “netto” costituisce una scappatoia per ritardare i tagli diretti e immediati alle emissioni, cosí da contenere la CO2 nell’atmosfera e rallentare il riscaldamento globale.
L’enfasi su zero “netto” fornisce la licenza per continuare a bruciare combustibili fossili sulla base di forme di compensazione contraddittorie e insufficienti, e di dispiegamenti irrealistici di tecniche per la rimozione di carbonio su larga scala, naturali e artificiali. Infine, gli obiettivi non fanno i conti con le responsabilità storiche: le emissioni cumulative dagli albori dello sviluppo industriale causate da Europa e Stati Uniti per raggiungere i loro alti standard di benessere rappresentano più del 50% della CO2 antropogenica totale in atmosfera, molto più della quota di emissioni permissibili per Paese dividendo equamente lo spazio atmosferico. Questo overshoot impone che, in un’ottica di giustizia, le riduzioni dei Paesi maggiormente responsabili debbano essere largamente superiori rispetto agli altri – inclusi gli attuali grandi emettitori come India e Cina – e contestualmente che i Paesi ricchi forniscano risorse a fondo perduto per lo sviluppo economico, l’adattamento climatico e la compensazione di danni e perdite inevitabili nei Paesi meno responsabili, più impoveriti e più esposti, onorando il proprio debito climatico ed ecologico.
Scienza e giustizia, tuttavia, non guidano i piani di Recovery. Questi sono primariamente strumenti di ripresa economica entro gli assetti dominanti, nominalmente verdi, soggetti a limitata influenza da parte dei cittadini, e convenientemente nazionalisti. Secondo un calcolo di Green Recovery Tracker basato sui piani già disponibili, solo attorno al 36% dei progetti presentati avrà un effetto positivo su clima e ambiente, mentre la parte restante avrà implicazioni da neutre a molto negative. Anche nelle bozze di piano italiano (al 25 aprile 2021) sono riscontrabili contraddizioni profonde, sia complessive che nello specifico della missione della transizione ecologica. Mentre si intende mantenere in vita artificialmente interi settori ormai fuori tempo massimo e puntare su infrastrutture obsolete, entrambi incompatibili con la decarbonizzazione quindi destinati presto a essere fuori mercato e inutili, si pianifica anche un’accelerazione sugli investimenti in progetti futuribili ma al momento marginali, sottraendo cosí risorse, attenzione e incentivi ad aree e interventi la cui utilità è provata, le cui tecnologie necessarie sono disponibili già ora, e che creano valore sociale ed ecologico piuttosto che immediato valore monetario.
Il passato duro a morire si riscontra dal lato di opere pubbliche già in corso o pianificate per un valore complessivo di 82,7 miliardi di euro, finanziate parzialmente da recenti Dpcm e completate dal Pnrr. Autostrade, alta velocità ferroviaria capillare, porti per accomodare navi sempre più grandi, progetti invasivi dati in mano ai famigerati commissari che agiranno in deroga alle leggi, e con i sindacati confederali già messi in riga dal miraggio di decine di migliaia di posti di lavoro. Gli stessi posti di lavoro che si sarebbero potuti creare spingendo radicalmente verso altre infrastrutture e aree d’intervento. Nella bozza di piano Draghi, secondo un’analisi di Eccø, è riscontrabile un taglio netto complessivo di 7 miliardi rispetto al piano Conte nel settore dell’efficienza energetica per l’edilizia pubblica, risorse mancanti che avrebbero beneficiato direttamente la collettività. Per esempio, sulle circa 32.000 scuole in attesa di interventi in tal senso, il Pnrr identifica risorse per soli 195 edifici.
Rispetto alla produzione di energia, in Italia sono pianificati entro questa decade impianti termoelettrici a ciclo combinato alimentati a gas per 14 gigawatt, collegati a una ragnatela di gasdotti in costruzione per le importazioni, come da strategia del Piano nazionale clima e energia per superare le centrali a carbone. Ma secondo Carbon tracker, un think tank indipendente, ciò comporterebbe la perdita di 11 miliardi di investimenti: gli impianti a gas diventeranno presto capitale svalutato poiché nel contesto normativo ed economico della decarbonizzazione il loro valore sarà bruciato in breve tempo, conducendo gli operatori a rifarsi delle perdite sugli utenti finali attraverso aumenti dei prezzi. Più sensato sarebbe investire da subito in una combinazione di fonti energetiche rinnovabili che offrirebbero gli stessi livelli di energia a un costo inferiore: eolico, solare, efficientamento, accumuli, e sistemi di risposta e redistribuzione in base alla domanda.
Ma nelle bozze del Pnrr le misure per le energie rinnovabili proposte porterebbero alla realizzazione di soli 4,2 gigawatt di nuova capacità, meno di quanto l’Italia dovrebbe installare in un solo anno per entrare in una traiettoria di crescita delle fonti rinnovabili in linea con gli obiettivi europei. Eppure, nel 2019 i costi per produrre un megawatt di energia da fonti rinnovabili e da fonti fossili si sono equalizzati; nel futuro continueranno a scendere per le rinnovabili mentre saliranno e saranno oggetto della volatilità geopolitica quelli per le fonti fossili. Investire nel gas non ha senso, sia dal punto di vista climatico che economico. Ma gas e rinnovabili in Italia non competono equamente. Qui la corsa a costruire nuove centrali si spiega con i pagamenti del capacity market (il meccanismo che assegna contratti su basi competitive per assicurare la medesima capacità di energia fornita attualmente dal carbone nel passaggio ad altre fonti) che ricompensano in modo sproporzionato il gas. In più, lo sviluppo delle rinnovabili sul mercato italiano è bloccato dall’impossibilità di ottenere autorizzazioni in tempi ragionevoli e da un mancato completamento delle policy nazionali. Il bivio in cui si trova la Sardegna tra possibilità di elettrificazione o di gassificazione, e la spinta delle aziende fossili italiane verso la seconda, è paradigmatico dello stallo artificiale in cui si trova il Paese, preda della mancanza di coraggio e di visione di una classe politica che neppure davanti alle implicazioni gigantesche e a lungo termine delle scelte che si faranno ora riesce a essere all’altezza del compito.
Queste contraddizioni sono soprattutto il risultato del potere d’influenza di lobby internazionali e aziende para-pubbliche come Eni, Snam ed Enel. È palese che l’industria fossile intenda mantenere la sua centralità, riprodurre la dipendenza dai combustibili che estrae e fa circolare, e presentarsi come protagonista della transizione. L’alternativa della de-centralizzazione energetica la spaventa perché significherebbe una diminuzione del suo potere, economico e politico. Ritardando il passaggio alle rinnovabili decentralizzate, mantiene una supremazia di fatto e riproduce la dipendenza dello Stato dai suoi prodotti e la dipendenza del Paese nei confronti di una infrastruttura inquinante e vulnerabile. Passare da carbone o petrolio al gas era uno switch già vecchio negli anni Novanta eppure è una delle colonne sia del Piano energia e clima che del Recovery, anche in relazione all’anelata “rivoluzione dell’idrogeno”. Inoltre, bisogna tenere a mente che le stesse aziende esercitano da anni pressioni affinché le proteste civiche contro infrastrutture e siti del fossile vengano inquadrate nell’ambito del terrorismo, dell’eversione se non del crimine organizzato. E tra decreti e sospensione dei diritti sotto pandemia, protestare sta effettivamente diventando sempre più rischioso per i singoli e per le comunità.
La presa del mercato sull’immaginazione politica impedisce di concepire una transizione al di fuori della logica dell’accumulazione e quindi del dogma della crescita illimitata. Se transizione ci deve essere, le élite devono farci soldi: bisogna vendere la crisi climatica ai mercati finanziari e agli investitori come grande opportunità di crescita. Milioni di posti di lavoro e innovazione tecnologica fantascientifica conditi di aiuti di Stato sono lo specchietto per attirare il settore privato. Nei circoli giusti salvare il clima è presentato soprattutto come un affare di transizione economica, cioè un’ennesima rivoluzione del capitalismo verde che non alteri significativamente le strutture dominanti. Sembra che questo sia rimasto l’unico linguaggio possibile della politica. La crescita deve continuare: ci sarà il disaccoppiamento (crescita economica slegata dalle emissioni e dalla pressione sulle risorse) e poco importa che un approccio sensato alla tanto sbandierata economia circolare inizia da una riduzione dell’impronta materiale dell’economia. L’estrazione di combustibili fossili deve continuare: cattureremo il carbonio in eccesso (a cominciare dall’impianto di cattura e stoccaggio di carbonio pianificato nel mare di fronte a Ravenna da Eni e benedetto da Cingolani) e compenseremo le emissioni. Il treno in corsa verso il disastro non altera la traiettoria – stesso treno, stesso motore, stesse divisioni di classe – ma si suppone possa arrivare alla stazione sicura dell’equilibrio ecologico.
Il piano di transizione dunque funziona come catalizzatore di speranze nel mezzo della perdita totale di speranza. Serve a riesumare lo slancio utopico dell’ideologia del progresso come autogiustificazione del capitalismo. Finalmente una direzione! Certo, una direzione fittizia nell’assenza di un progetto reale di futuro, finanche di una possibilità di futuro a queste condizioni nel quadro della crisi climatica, ma la sua funzione è proprio quella di conferire una patina di senso al movimento insensato della macchina dell’accumulazione, giustificando i sacrifici passati, presenti e futuri dei lavoratori in nome di un’utopia ecologica da realizzare a botta di infusioni di denaro – pubblico e/o a debito – che a quei lavoratori daranno lavoro verde, ai cittadini una città ecologica, agli agricoltori un’agricoltura biologica. Il neo-ambientalismo dei mercati, della crescita e della sosteniblità.
Se i movimenti non elaborano un’agenda climatica che sia all’altezza dei bisogni reali degli esclusi, che tenga insieme la necessità di assicurare a tutti condizioni dignitose di vita con l’imperativo della decarbonizzazione, che metta in primo piano la mitigazione delle emissioni e l’adattamento della società, la preparazione dei territori, l’agroecologia e la rigenerazione degli ecosistemi, nessun altro lo farà. Ispra calcola che ci sarebbe bisogno di almeno 26 miliardi di euro per affrontare il dissesto idrogeologico e ridurre il rischio di alluvioni in tutto il Paese; il Pnrr assegna alla messa in sicurezza del territorio solo 2,49 miliardi in sei anni. Il ministero della Transizione guidato da Cingolani ha già manifestato il tenore del suo ecologismo autorizzando permessi estrattivi in Adriatico e Val d’Agri nel mese di marzo, ed esprimendo rammarico per lo stop all’ex Ilva di Taranto da parte del Tar pugliese. Le banche italiane Unicredit e Intesa San Paolo hanno finanziato con, rispettivamente, 26 e 12 miliardi di euro il settore dei combustibili dei fossili tra il 2016 e il 2020. Nello stesso periodo, ben lontano dai riflettori, Sace, l’agenzia di credito all’esportazione italiana, ha fornito garanzie per 8,6 miliardi di euro ai comparti del petrolio e del gas. Se questa è la loro transizione, preferiamo la rivoluzione.
Nel momento in cui tutti i piani saranno consegnati, ci si renderà conto che i governi europei non riescono ad andare al di là del ventesimo secolo per affrontare una sfida che in quest’inizio di ventunesimo non è neppure entrata nel pieno dei suoi effetti. Difficile prevedere se la Commissione europea terrà fede ai propri proclami premiando solo i progetti realmente sostenibili e solidali. Di certo, ogni progetto, cantiere, finanziamento andrà vagliato e il più possibile influenzato dalle forze sociali che sono già organizzate sui territori e sui posti di lavoro, e da quelle che per forza di cose dovranno emergere. L’evidenza che questa decade è “l’ultima chance” che rimane prima di superare le soglie di abitabilità in diverse zone del pianeta e di assistere a reazioni a catena devastanti, è forse l’unica verità affiorata dalla retorica senza limiti dei governanti. Ma loro saranno protetti. A noi spetta il compito di coordinare gli sforzi per non lasciare indietro nessuno e non far spostare il problema altrove (il metodo primario attraverso cui il capitalismo ha risolto le sue crisi nella storia). Perché un altrove non esiste più.