Salario e diritti nei campi italiani
Quello che in molti si aspettavano da mesi è stato puntualmente confermato dopo il 15 di agosto, ossia allo scadere dei termini per usufruire della procedura straordinaria di regolarizzazione dei migranti: sulle oltre 200.000 istanze di regolarizzazione presentate, solamente poco più di 30.000 riguardavano lavoratori del settore agricolo. Ciò significa che i braccianti – i quali nei mesi primaverili erano stati figure assai presenti nel dibattito pubblico e avrebbero dovuto fare la parte del leone nella fase di attuazione del decreto, e per i quali la Ministra Bellanova si era commossa fino alle lacrime – a giochi fatti sono risultati figure di sfondo. Ma se anche il provvedimento avesse funzionato come previsto da alcuni, portando alla regolarizzazione di alcune centinaia di migliaia di migranti, il risultato sarebbe stato sì notevole, e per certi versi necessario, ma non avrebbe comunque risolto i molti i problemi e le criticità del settore del lavoro agricolo a partire dal quale, nelle convulse settimane di marzo 2020, aveva preso il via il dibattito poi precipitato concretamente nell’approvazione del decreto.
Nel corso di quest’anno, infatti, abbiamo potuto assistere a un generale processo di messa a nudo delle contraddizioni delle nostre società, che in molti casi ha assunto una forma peculiare: per effetto delle misure di confinamento adottate tra la fine dell’inverno e l’inizio dell’estate, il funzionamento consueto di intere filiere produttive è stato stravolto – l’arresto improvviso della macchina ha permesso di osservarne il funzionamento più da vicino, e con maggiore chiarezza; da qui l’emergere di una inedita attenzione per il funzionamento dell’agricoltura in Italia, in tutta Europa, e in generale nel mondo intero. A titolo di esempio: in un’intervista rilasciata il 10 aprile a Isoradio, Massimiliano Giansanti, presidente di Confagricoltura, ha affermato: «Oggi ci accorgiamo quanto è importante per il paese avere un’agricoltura forte». Pochi giorni, dopo, il 13 aprile, è stato addirittura Emmanuel Macron che, nel corso del messaggio alla nazione in cui annunciava quattro ulteriori settimane di confinamento, ha detto «bisognerà ricostruire un’indipendenza agricola» per la Francia. Dall’altra parte del mondo, e in una regione che, rispetto alla Francia e all’Italia, occupa una posizione completamente differente all’interno dell’economia globale, il 21 aprile Shri Pinarayi Vijayan, primo ministro dello stato indiano del Kerala e membro del Partito comunista indiano (marxista), ha esortato i suoi cittadini a rendersi autosufficienti per quanto riguarda la produzione del cibo, in modo da essere in grado di fare fronte a qualsiasi scenario in futuro, senza il fardello di una dipendenza da altri stati indiani o “esteri”.
In tutti e tre i casi, però, a essere fonte di preoccupazione non era tanto l’agricoltura in sé, quanto la situazione di chi in essa lavora: la filiera grazie a cui il cibo raccolto nei campi si trasforma nel prodotto alimentare acquistabile nei punti vendita della distribuzione rischiava di interrompersi nel primo dei suoi tanti passaggi, a causa della carenza di lavoratori agricoli. «Rischiamo di rimanere senza cibo», hanno titolato giornali e telegiornali nei principali Stati europei, «perché mancano i lavoratori stagionali». Per effetto di quarantene, confinamenti e chiusure delle frontiere, rischiava di saltare la stagione dei raccolti, poiché oltre un milione di lavoratori stagionali, che normalmente affluiscono nell’Europa occidentale da quella orientale o da molti paesi africani e asiatici, non ha potuto o voluto farlo a causa del Coronavirus. Niente di nuovo: il processo che ha portato i lavoratori e le lavoratrici migranti a essere fondamentali per il funzionamento dell’economia europea, e particolarmente per un settore chiave come quello primario, va avanti da decenni, e ora si è reso visibile in tutta la sua portata.
Se guardiamo al caso italiano, le cifre ufficiali ci dicono che, nel 2017, quasi il 17% degli occupati nel settore agricolo era di provenienza straniera (147.122 persone, tra comunitari ed extracomunitari), impiegati per quasi il 90% con contratti a tempo determinato e in netta crescita rispetto agli anni precedenti. A marzo però la Coldiretti lamentava l’assenza di addirittura 370.000 stagionali che normalmente arrivano dall’estero e che coprono oltre un quarto della produzione agricola nazionale; ai primi di ottobre calcolava una riduzione di circa un terzo del numero di lavoratori stranieri presenti nelle campagne italiane. La difficoltà di una stima certa è strettamente legata alla irregolarità strutturale che caratterizza il settore: secondo l’ultimo rapporto dell’Inl-Ispettorato nazionale del lavoro (2019), le 5.806 ispezioni effettuate in aziende agricole hanno fatto registrare un tasso di irregolarità del 59,3%. Dei 5.340 lavoratori soggetti alle violazioni riscontrate, ne sono risultati 2.719 (51%) in nero, 229 dei quali cittadini extracomunitari senza permesso di soggiorno.
Al di là di una stima precisa del fenomeno, alla cui entità non rendono del tutto giustizia i numeri rilevati dall’Inl, sono particolarmente interessanti le soluzioni avanzate per risolvere questa specifica emergenza, in cui il dibattito italiano ha sostanzialmente ricalcato quello europeo. In attesa di un intervento comune, le varie economie nazionali hanno cominciato a muoversi autonomamente: la Francia è stata la prima a lanciare una piattaforma online per fare incontrare la domanda di lavoro agricolo e l’offerta “autoctona”, dopo che il 24 marzo Didier Guillaume, ministro dell’Agricoltura, ha lanciato un appello a tutti i lavoratori rimasti a casa a causa del virus, affinché si unissero «alla grande armata dell’agricoltura francese» e colmassero le 200.000 posizioni lavorative lasciate scoperte dall’assenza dei consueti stagionali, provenienti soprattutto da Marocco, Romania e Polonia. Nel pronunciare questo appello Guillaume aveva in mente soprattutto i lavoratori dipendenti che stavano usufruendo dello chômage partiel, dispositivo assimilabile alla nostra cassa integrazione: secondo i dati pubblicati dal ministero del Lavoro francese, a maggio tale platea è arrivata a raccogliere 12,4 milioni di persone, alle quali è stata data la possibilità di cumulare la cassa integrazione che ricevono per il loro impiego “normale” e la retribuzione di questo impiego “straordinario”. Una sorta di incremento indiretto del salario, per rendere appetibile anche ai/alle francesi un lavoro svolto normalmente da lavoratori/trici stranieri/e per paghe minori, in quella che è stata definita una “delocalizzazione sul posto”. Una piattaforma analoga è stata lanciata anche in Germania, dove si sono fatti anche dei passi ulteriori: il 2 aprile è stato annunciato un massiccio piano di importazione della forza-lavoro dai paesi dell’Est Europa. Lavoratrici e lavoratori sono partiti dai paesi di origine e sono stati portati per via aerea in Germania, per poi essere smistati nelle campagne. Questa procedura ha coinvolto 40.000 persone per aprile e altrettante per maggio, a cui sono da affiancare le 20.000 che verranno prese dal bacino di riserva interno: disoccupati/e, studenti/esse, richiedenti asilo e cassintegrati/e. I primi effetti di questo piano non si sono fatti attendere: il 9 aprile la televisione rumena ha mostrato le immagini di centinaia di persone accalcate all’aeroporto di Cluj in attesa dei voli per la Germania – e tanto peggio per il distanziamento sociale. Aerei verso l’Est Europa sono partiti anche dalla Gran Bretagna, ma qui sono stati finanziati direttamente dalle agenzie di collocamento, che hanno sollecitato il Governo a prendersi in carico quest’onere.
Vie simili sono state seguite in Spagna, dove il 7 aprile con un decreto si è permesso di svolgere lavoro nei campi a chi percepisce il sussidio di disoccupazione (ma non a chi percepisce un sussidio vincolato alla crisi da Coronavirus). Il Governo spagnolo, inoltre, ha deciso di ricorrere a una piattaforma online come quelle di Francia e Germania, e di rinnovare automaticamente i permessi di lavoro e di residenza di lavoratori stranieri già presenti in Spagna e in scadenza fino al 30 giugno.
Come si diceva, anche il dibattito italiano ha seguito queste linee di intervento, per cui sono state avanzate le proposte di:
a) importare lavoratori direttamente dai paesi d’origine, attivando appositi flussi controllati come nel modello tedesco e premendo sull’Unione Europea affinché venissero istituiti appositi “corridoi verdi” per i lavoratori, oltre che per le merci;
b) mettere al lavoro disoccupati/e, pensionati/e, studenti/esse, cassintegrati/e a causa del virus, percettori del reddito di cittadinanza: questa soluzione è stata ripetutamente evocata da Confagricoltura, da Coldiretti, dall’Alleanza cooperative agroalimentari, oltre che dalla stessa ministra Bellanova;
c) regolarizzare i lavoratori e le lavoratrici migranti già presenti sul territorio, vale a dire il bacino di donne e uomini resi “irregolari” dalle politiche italiane di questi anni e costretti per questo a muoversi fuori dalla “legalità”: lavorare senza un contratto, abitare nei ghetti, essere sprovvisti/e di qualsiasi tutela di fronte alla violenza del caporalato, delle mafie, dei padroni.
Pur se in maniera tortuosa e contraddittoria, l’Italia ha seguito la terza delle vie proposte – si veda anche in questo numero l’articolo di Francesco Bagnardi e Giuseppe D’Onofrio – in modo da permettere a lavoratori/trici effettivamente presenti sul territorio nazionale di dotarsi dei documenti necessari a spostarsi al suo interno in un momento in cui la circolazione delle persone era stata subordinata al possesso di determinate credenziali; per esempio un contratto di lavoro. Vale la pena notare come la retorica che ha dominato questo dibattito, almeno tra i suoi esponenti istituzionali, sia stata tanto esplicita da risultare brutale: queste persone devono ottenere diritti poiché in questo momento ci serve che si possano muovere. Proprio il fatto che, in realtà, siano state presentate così poche domande riguardanti lavoratori/trici agricoli per una misura che era stata pensata come prioritaria nei confronti dei braccianti – e non dei lavoratori e delle lavoratrici domestiche che ne hanno usufruito per l’85% – ci permette di cominciare a mettere a fuoco l’elemento centrale del problema.
Rischiamo di rimanere senza cibo – hanno titolato giornali e telegiornali nei
principali stati europei – perché mancano i lavoratori stagionali
È interessante anche commentare l’opzione b). Qui la retorica era differente: mettiamo al lavoro chi già percepisce un’indennità di qualche tipo dallo Stato, come il reddito di cittadinanza, così che dimostri di meritarsela, oppure chi in questo frangente si trova ad avere tempo a disposizione (studenti/esse, pensionati/e, cassintegrati/e); in questo secondo caso, forziamo i limiti e le restrizioni imposti all’uso residuo dei voucher in agricoltura, in modo che tutti costoro possano essere retribuiti con questa modalità. In entrambi i casi, il tentativo è quello di contenere il più possibile il costo della forza lavoro, impiegando manodopera che sia già “pagata dallo Stato” o retribuibile il meno possibile e con garanzie minime. Mentre in Francia è stato da subito esplicitato che i lavoratori e le lavoratrici in stato di chômage partiel avrebbero cumulato la cassa integrazione e il normale contratto da lavoratore agricolo stagionale (nella grande maggioranza dei casi, un contratto a tempo determinato), in Italia le proposte in merito sono state molto più fumose.
I tentativi di spingere in questa direzione, portati avanti dalle associazioni datoriali e dai loro referenti politici, sono del resto perfettamente in linea con l’evoluzione recente di questo specifico settore del mercato del lavoro, vale a dire con il ricorso sempre maggiore a una forza lavoro in condizione di estrema vulnerabilità, irregolarità, flessibilità, come sono nella maggior parte dei casi i lavoratori/trici migranti, regolari e irregolari. In un settore che, in ogni caso, vede ancora una grandissima maggioranza di lavoratori/trici italiani/e, una simile tendenza, più che essere legata a retoriche che già suonano stantie («gli italiani non hanno voglia di fare lavori pesanti»), sembra derivare dal fatto che il costo della forza lavoro è la principale variabile cui può ricorrere il produttore per limitare i costi di produzione. Il lavoro dipendente in campo agricolo è sottoposto a una notevole frammentazione contrattuale per via del doppio livello in cui è articolato il suo inquadramento: un Contratto collettivo nazionale di lavoro (Ccnl) rinnovato ogni quattro anni che definisce i minimi salariali di area e un Contratto provinciale di lavoro (Cpl), anch’esso quadriennale e con rinnovo “a incastro” tra due Ccnl a cui viene affidato il compito di definire i valori dei salari relativi ai vari profili professionali. Il risultato è che il valore della retribuzione di una stessa mansione professionale può essere notevolmente differente da un territorio all’altro: in base a un’indagine riferita al 2018, l’ora di lavoro di un operaio a tempo determinato con mansioni generiche viene pagata in media 10,34 euro in Lombardia e 7,18 euro in Molise; l’oscillazione è ancora maggiore se interviene il fattore specializzazione, per cui gli “specializzati super” di Trento, Mantova e Siena ricevono all’ora più di 14 euro, mentre gli addetti alla raccolta di Padova, Cuneo o Ascoli si fermano a 6,5 euro. Costituisce pertanto uno squilibrio ulteriore il ricorso a una manodopera che può non essere contrattualizzata o che presenta molti più margini per un suo utilizzo irregolare. Per esempio lavoratori con contratto, ma di cui non vengono registrate le giornate di lavoro effettive: condizione diffusissima che accomuna forza lavoro italiana e straniera e che presenta conseguenze molto gravi come l’impossibilità di accedere, terminata la stagione, alla disoccupazione, che richiede un numero minimo di giornate lavorative registrate.
Quindi si ricorre a lavoratori/trici stranieri/e per ridurre il costo del lavoro e, anche di fronte a una pandemia, ci si preoccupa non tanto che i raccolti abbiano luogo e la nazione possa nutrirsi, ma che i raccolti possano avere luogo alle condizioni di sempre, senza minare l’equilibrio tra salari e profitti.
Le rilevazioni effettuate settimanalmente dagli istituti di ricerca hanno mostrato un incremento costante delle vendite di prodotti alimentari a partire da fine febbraio, quando è iniziato il periodo di confinamento domestico. Questo incremento, però, non ha riguardato tutti i canali di vendita indiscriminatamente, ma uno in particolare: la Grande distribuzione organizzata (Gdo), ovvero supermercati, ipermercati, discount e simili, dove si trova una maggiore disponibilità di prodotti e prezzi più convenienti rispetto ad altre rivendite al dettaglio. Il confinamento non ha fatto altro che accentuare una tendenza in corso da tempo, inserendosi in un quadro che vede la quota di mercato occupata dalla Gdo in crescita costante da decenni. Nel 2016 gli oltre 26.000 supermercati presenti in Italia vendevano il 73,5% di tutto il cibo e le bevande consumate nel paese (dati 2018 tratti dal rapporto Al giusto prezzo di Oxfam). A questa concentrazione delle vendite ne corrisponde una ulteriore: dentro la stessa Gdo, infatti, assistiamo all’imporsi di pochi grandi marchi che concentrano quote di mercato sempre maggiori (nel 2017 le prime cinque aziende controllavano più del 50% del mercato). Ciò significa che per approvvigionarci di cibo dipendiamo sempre di più da un numero ristretto di imprese, che di conseguenza detengono un potere sempre maggiore.
Cosa è successo quindi con il Coronavirus? Nelle quattro settimane dal 17 febbraio al 15 marzo – dunque dalle prime misure di confinamento applicate in pochi comuni in Lombardia e Veneto alla sua estensione a tutto il territorio nazionale – le vendite nei supermercati sono aumentate del 23% rispetto allo stesso periodo del 2019. Nelle stesse settimane aumenti ancora maggiori sono stati registrati per la spesa online: il +57% della prima diventa addirittura un +97% dell’ultima (tutti i dati vengono dal rapporto Ismea pubblicato a fine marzo 2020). Tra il 9 e il 15 marzo la variazione tendenziale è stata addirittura del +16,4%, e, seppur calando lentamente di intensità, il processo è continuato. Nel concreto, queste percentuali significano che nelle stesse settimane in cui una larga parte dell’economia ha affrontato la paralisi o la crisi, milioni di euro sono finiti nelle casse della Gdo (in molti casi anche grazie ad aumenti di prezzo dei prodotti o alla scomparsa delle consuete promozioni stagionali). Ma dove è andato a finire questo fiume di soldi? La vendita nei supermercati rappresenta il punto terminale della filiera agroalimentare: una filiera che, considerata nel suo insieme, rappresenta il primo settore economico del paese, con un fatturato di 538,2 miliardi di euro, 3,6 milioni di occupati/e e 2,1 milioni di imprese (dati dal rapporto 2019 della Fondazione Ambrosetti; per intenderci, il fatturato è oltre quattro volte superiore a quello del comparto automotive).
Ma se è vero che il fatturato della Gdo è in costante aumento e che i prezzi degli alimentari in Italia sono del 12% più alti della media europea, non tutti i soggetti di questa lunga e composita filiera ne condividono i vantaggi. L’anello debole, in particolare, è rappresentato proprio dal settore agricolo, costituito in massima parte da imprese a conduzione familiare e con meno potere contrattuale: basti pensare che il 47% delle imprese agricole si deve spartire poco meno dell’8% del fatturato del comparto. In molti casi, tale situazione è dovuta al fatto che la Gdo, approfittando della sua posizione dominante, impone delle pratiche commerciali che poi si ripercuotono negativamente sulla filiera: nel 2013 un’inchiesta dell’Autorità garante della concorrenza del mercato (Agcm) rilevava che nel 67% dei casi il distributore propone e ottiene modifiche delle condizioni contrattuali già pattuite, e che il 74% dei fornitori intervistati percepiva queste proposte come vincolanti. Tra le pratiche più dannose figura l’asta al doppio ribasso, con cui le centrali d’acquisto della Gdo utilizzano l’offerta più bassa risultata da un primo giro di offerte come base di partenza per un’ulteriore asta, spingendo la concorrenza a livelli economicamente insostenibili per il produttore. Negli scorsi mesi, quindi, abbiamo assistito a una riproduzione su scala minore, ma iperconcentrata, di un processo in atto da anni e a cui la situazione dei lavoratori/trici agricoli/e è strettamente legata, come anche l’“emergenza” primaverile e le varie soluzioni proposte per risolverla. Le procedure elaborate dai ministeri coinvolti infatti da una parte richiedevano ai lavoratori e alle lavoratrici interessati requisiti che difficilmente essi possedevano, per esempio un ammontare di giornate di lavoro ufficialmente dichiarate negli anni scorsi: ma come fare, se il padrone non le segna? Dall’altra affidavano la domanda di emersione del rapporto di lavoro al datore di lavoro stesso, ma così facendo, quest’ultimo avrebbe dovuto intaccare volontariamente il margine di irregolarità su cui scarica la pressione della filiera e da cui deriva il suo stesso margine di profitto.
Provare a riflettere su quanto successo in questi mesi, però, ci consente di individuare la vera questione che in questo periodo abbiamo solo sfiorato, ossia quella del salario. Essa ha attraversato sottotraccia tutto il dibattito nato dall’improvvisa carenza di lavoratori/trici stagionali nei campi europei ed è affiorata esplicitamente solo in alcuni momenti: una prima volta in occasione della mobilitazione dei braccianti che, partita dal Sud Italia, è culminata nello sciopero del 21 maggio, quando è stato chiaramente posto il problema della strutturazione della filiera agroalimentare e delle condizioni lavorative che ne derivano, e quando si è provato a coinvolgere anche coltivatori e consumatori. Una seconda volta in occasione della lotta – vittoriosa – di alcuni lavoratori e alcune lavoratrici rumeni/e in Germania: grazie al ponte aereo organizzato dal Governo tedesco, sono stati depositati/e nel paesino di Bornheim, tra Colonia e Bonn, e dopo un mese di lavoro presso la ditta Spargel Ritter, senza alcuna protezione sanitaria, senza riscaldamento negli alloggi, spesso nutriti con cibo avariato, si sono visti retribuire con un decimo della somma pattuita; inoltre, ed è un dettaglio significativo, grazie ai riflettori che si sono accesi sulla questione è emerso come l’azienda impiegasse i lavoratori rumeni accanto a una forza lavoro tedesca cui veniva corrisposto un salario maggiore e per giunta erogato a ore anziché a cottimo.
È proprio il fatto che le due maggiori azioni conflittuali portate avanti in questi mesi siano state costruite su questi temi a mostrarci chiaramente come parlare di lavoro agricolo dovrebbe significare porre anzitutto la questione del salario, perché su tale questione sono incardinate le numerose contraddizioni di questo settore, due su tutte: il rapporto che l’agricoltura intrattiene con gli altri comparti della filiera agroalimentare, su tutti quello della distribuzione, e che lega tra loro i lavoratori di tutta la filiera; il meccanismo per cui la negazione di diritti fondamentali diventa un espediente funzionale ad abbassare il costo del lavoro e quindi ad aumentare la competitività di un’azienda agricola. È da qui, di conseguenza, che possiamo partire per pensare azioni e proposte che siano all’altezza di quanto ci troviamo a dover affrontare.
Bibliografia e sitografia
«Il lavoro in agricoltura», a cura di M.C. Macrì, Agriregionieuropa, dicembre 2018, anno 14, n. 55: da leggere in particolare gli articoli G. Mattioni, «Il lavoro dipendente in agricoltura in Italia secondo i dati Inps»Il lavoro dipendente in agricoltura in Italia secondo i dati Inps; M. D’Alessio, «I numeri chiave delle retribuzioni degli operai agricoli in Italia»I numeri chiave delle retribuzioni degli operai agricoli in Italia; E. Barberis, S. Battistelli, P. Campanella, P. Polidori, E. Righini, D. Teobaldelli, E. Viganò, «Vulnerabilità e irregolarità dei lavoratori nel settore agricolo: percezioni, determinati, interventi»Vulnerabilità e irregolarità dei lavoratori nel settore agricolo: percezioni, determinati, interventi.