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Ragioni e incognite dell’amazonizzazione

L’articolo di Kim Moody ha il merito di aprire una riflessione sui mutamenti in atto nella struttura del capitalismo mondiale, in particolare sulla crisi della produzione agile fondata sul just-in-time, ma mi pare sconti il limite di concentrarsi sui fattori endogeni a scapito del contesto.

Il toyotismo si è diffuso in un contesto capitalistico internazionale caratterizzato prima dalla distensione, poi dalla fine della Guerra fredda. In questo quadro la “logisticizzazione” dell’economia, cioè la possibilità di spostare le produzione in aree del mondo con un’elevata offerta di forza-lavoro a basso costo e poco sindacalizzata e di abbattere i costi di rifornimento e stoccaggio, riducendo il numero dei fornitori e le scorte, poteva far conto sulla ragionevole aspettativa di una relativa situazione di stabilità internazionale.

Aspettativa che prima la pandemia, in particolare la paralisi e il successivo contraccolpo cinesi, poi il “ritorno della guerra” hanno minato. Si pensi alla minaccia degli Houthi sui traffici del Mar Rosso, alimentata dal ricordo dei danni provocati dall’Ever Given intraversato nel canale di Suez tre anni fa. In un certo senso si tratta di un ritorno alle origini della logistica, quando questa insisteva su un territorio sottoposto al controllo della stessa autorità politica e militare.  

L’amazonizzazione di cui parla Moody è la naturale conseguenza di questi cambiamenti: non potendo più contare su sottili linee di rifornimento affidabili stese tra un capo e l’altro del globo, si opta per l’occupazione capillare del territorio e lo stoccaggio diffuso, utilizzando reti ridondanti che ricordano il world wide web progettato per fini militari: reti a invarianza di scala che possono perdere molti nodi e restare operative, ma collassano rapidamente se si bloccano i suoi hub, i nodi iperconnessi. Il che implica, appunto, la necessità della ridondanza, cioè di avere più nodi del minimo necessario a garantirne il funzionamento. È la ragione del moltiplicarsi di magazzini Amazon, in particolare vicino ai centri urbani. Perché, come abbiamo dimostrato in MappiAmazon e come avevano capito prima di noi per via empirica i militanti di Amazonians United negli USA, i punti deboli della rete di distribuzione di Amazon, i suoi hub, sono proprio le piccole delivery station nelle periferie urbane, non i grandi centri di distribuzione vicini agli snodi logistici.

Amazon, però, ha una strategia che contempla la possibilità di lavorare in perdita, come ha fatto a lungo, perseguendo una costosissima strategia espansiva basata sulla consegna in tempi rapidissimi e sulla compensazione delle perdite dell’e-commerce con le entrate derivanti dai servizi cloud. Gli altri player della logistica sono pronti a fare altrettanto?

Tuttavia l’aspetto di fondo, più interessante, dell’articolo di Moody, è che in ogni caso parliamo di reti vulnerabili, tanto più fragili quanto più sono sofisticate.

Per chi è interessato a capire in che modo l’amazonizzazione incida sulla lotta di classe lungo le filiere della logistica e quali opportunità le offra, si pongono interrogativi, che sono, al contempo, spunti di indagine:

– Quali forme di vulnerabilità e di resilienza avranno le nuove configurazioni della logistica? Per quanto riguarda Amazon, come si è visto, disponiamo già di qualche risposta. Ma non è scontato che si possa generalizzare.

– La stessa domanda può avere come oggetto non la rete nel suo complesso, ma i singoli nodi nella configurazione just-in-case, come indica Moody.

– Che approccio strategico e, a suo fondamento, che sistema di riferimento cognitivo/paradigma scientifico è più indicato per comprendere a pieno i mutamenti in atto e intervenirvi? Credo che i paradigmi scientifici basati sulla non linearità siano gli unici capaci di cogliere gli elementi di complessità che caratterizzano un capitalismo ipertecnologico dilaniato da nuove tensioni inter-imperialistiche. Un solo esempio:

“L’idea è intraprendere qualche iniziativa e di seguito muoversi con un’agilità tale da fare la mossa successiva prima che il vostro avversario abbia il tempo di Osservare-Orientarsi-Decidere-Agire in risposta alla vostra prima azione. La teoria del caos offre un’importante nuova forma di intuizione a questa strategia elementare” (Glenn E. James, Chaos Theory: the Essentials for Military Application, Naval College, 1995). Non ci ricorda l’approccio dell’UAW verso le Big Three?

Infine la guerra in Ucraina ci offre una suggestione: le illusioni in una guerra high-tech, toyotista, una sorta di lean war, che avrebbe dovuto sostituire la guerra industriale del Novecento, diffusesi a partire dagli anni ‘90 anche tra i militari americani, sono crollate col ritorno della trincea e di forme di guerra artigianale (vedi l’utilizzo di droni commerciali da 50 euro al posto dei modelli ultratecnologici costruiti dall’industria bellica).

Non si può escludere che ci troveremo di fronte a una situazione analoga nell’economia e della logistica. Ciò non promette nulla di buono per i lavoratori.

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Il 2 maggio scorso, la statunitense Labor Notes pubblicava un articolo di Kim Moody, uno dei fondatori della rivista e dei più attenti osservatori del mondo del lavoro, intitolato “The End of Lean Production…and What’s Ahead”. Jacobin Italia lo ha tradotto (“Oltre la produzione snella” ) e lo ha messo online l’11 maggio (Oltre la produzione snella – Jacobin Italia) e ci ha concesso l’utilizzo della traduzione da loro pubblicata. La presentiamo qui, corredata dei commenti di Sergio Fontegher Bologna, Bruno Cartosio, Matteo Gaddi, Romeo Orlandi e Marco Veruggio che ne discutono affermazioni e implicazioni da angolazioni diverse. L’insieme verrà pubblicato anche su: www.puntocritico.info

Kim Moody, Oltre la produzione snella

Sergio Fontegher Bologna, La produzione snella e il governo della logistica

Bruno Cartosio, La distribuzione è vulnerabile

Matteo Gaddi, Commento a “Oltre la produzione snella” di Kim Moody

Romeo Orlandi, Note su “Oltre la produzione snella” di Kim Moody

Marco Veruggio, Ragioni e incognite dell’amazonizzazio