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Note su “Oltre la produzione snella” di Kim Moody

La amazonizzazione della Cina non c’è, oppure c’è sempre stata. Non c’è perché il paese non ha raggiunto specializzazioni così avanzate. La sua struttura produttiva – fin dalla virata denghista degli anni Ottanta – si è imperniata sull’aspetto quantitativo. Sono noti i passaggi epocali che hanno avuto luogo: sviluppo delle forze produttive, trasferimento di centinaia di milioni dall’agricoltura all’industria, dalle campagne alle città. L’obiettivo era eclatante nella sua semplicità: rafforzare il paese, unica soluzione per tenerlo coeso o indipendente. Il compito veniva affidato all’economia, con una delega revocabile ai capitalisti da parte del Partito comunista cinese. Strumentale è stata l’apertura all’estero, soprattutto alle multinazionali. Una tipica win-win situation: la Cina acquisiva tecnologia e trovava una scorciatoia verso la modernizzazione; le aziende straniere – nel sostanziale disinteresse dei governi – facevano il loro lavoro: dismettevano e delocalizzavano, con profitti generosi. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. 

Questo immenso trasferimento di capacità produttive – rivoluzionario, senza grandi spargimenti di sangue, ma certamente doloroso – ha dato vita a un modello cinese? La risposta, pur complessa, rimane largamente negativa. La Cina ha sostanzialmente copiato, sostituendo un’arretrata economia non monetizzata con un impianto industriale che scontava tutte le inesperienze del caso. L’apertura ai paesi industrializzati ha riguardato soprattutto “come fare a produrre valore aggiunto”, “come far funzionare le macchine” in una società rurale, abituata semmai a valorizzare l’artigianato rispetto alla catena di montaggio. Dopo queste prime acquisizioni operative, istruire un contadino davanti a un telaio diventava secondario. Non è stato imposto nessun modello cinese, né sarebbe stato immaginabile date le condizioni di partenza. Il passaggio dalla fabbrica fordista al toyotismo giapponese era un lusso teoricamente inarrivabile. 

Eppure il modello di Amazon inconsapevolmente è stato sempre usato nel controllo della forza lavoro. La sua declinazione – pur applicata a un paese così diverso – è costante: orario, ripetitività delle mansioni, assenza del sindacato, straordinario, controllo della giornata lavorativa. Ironicamente, in luogo delle conquiste lavorative in Cina – sul modello dell’esperienza occidentale – si è assistito ad una sinizzazione dei rapporti di lavoro nei paesi industrializzati. Pechino dunque non ha espresso miglioramenti nel rapporto capitale-lavoro, che non siano quelli indistinti del rafforzamento del paese. Il controllo, l’alienazione e la fatica sono inevitabilmente rimasti. Ovviamente il concetto della lotta di classe come motore dello sviluppo rimane una sofisticazione impraticabile. 

L’orizzonte del decoupling rimane lontano. La Cina ha certamente migliorato il proprio assetto industriale. La produttività dei fattori è cresciuta, ma soprattutto la ricerca di nuovi settori merceologici ha ispirato il timone economico del Pcc. L’ambizione di condurre la Cina fuori dal sottosviluppo è pienamente riuscita, almeno secondo gli intendimenti di Pechino. “Il nostro nemico non è il capitalismo, ma il Medioevo”, ripeteva Deng Xiaoping. Dopo anni di purghe e di galera, le sue idee hanno conosciuto un trionfo che oggi appare epocale, ininterrotto e indiscutibile. 

La dirigenza ha ottenuto ciò che si era prefissa: rafforzare il paese e mantenersi al potere. Una delle titaniche conseguenze – quella che attiene maggiormente all’argomento in questione – è l’insostituibilità della Cina come sterminato opificio mondiale, dove si produce tutto per tutti, a prezzi stabili e con qualità crescente. Pur se vero che la Cina dimessa e operosa è consegnata alla storia; pur se il suo modello (merci a basso valore aggiunto, di basso costo unitario) volge al tramonto, il suo titolo di factory of the world rimane senza concorrenti. Se la logica della globalizzazione era produrre e vendere (manufacture everywhere, sell everywhere) non si poteva trovare un paese più attraente della Cina. Nessuno offriva una miscela più magnetica: basso costo dei fattori di produzione, controllo sociale, infrastrutture sviluppate, dimensioni del mercato interno. Questa opportunità è stata colta prima e meglio di tutti dalle multinazionali. Oggi lo sostengono ancora, in compagnia di personalità politiche che non devono usare la leva anticinese in chiave elettorale (basta rilevare negli Stati Uniti le posizioni realiste di Janet Yellen e di Antony Blinken). Il disaccoppiamento tra le economie cinesi e occidentali è irrealizzabile, almeno nel breve periodo. I tentativi intermedi di friendly shoring e near shoring, appaiono velleitari. Un’altra fabbrica del mondo non si costruisce in poco tempo. Le due potenze sono dunque costrette a negoziare, anche se la trattativa non è la specializzazione identitaria di nessuna delle due parti.

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Il 2 maggio scorso, la statunitense Labor Notes pubblicava un articolo di Kim Moody, uno dei fondatori della rivista e dei più attenti osservatori del mondo del lavoro, intitolato “The End of Lean Production…and What’s Ahead”. Jacobin Italia lo ha tradotto (“Oltre la produzione snella” ) e lo ha messo online l’11 maggio (Oltre la produzione snella – Jacobin Italia) e ci ha concesso l’utilizzo della traduzione da loro pubblicata. La presentiamo qui, corredata dei commenti di Sergio Fontegher Bologna, Bruno Cartosio, Matteo Gaddi, Romeo Orlandi e Marco Veruggio che ne discutono affermazioni e implicazioni da angolazioni diverse. L’insieme verrà pubblicato anche su: www.puntocritico.info

Kim Moody, Oltre la produzione snella

Sergio Fontegher Bologna, La produzione snella e il governo della logistica

Bruno Cartosio, La distribuzione è vulnerabile

Matteo Gaddi, Commento a “Oltre la produzione snella” di Kim Moody

Romeo Orlandi, Note su “Oltre la produzione snella” di Kim Moody

Marco Veruggio, Ragioni e incognite dell’amazonizzazione