L’effetto lockdown sulla scuola
Nota: il testo è stato redatto a conclusione dell’anno scolastico 2019/20; l’impianto dell’articolo è strutturato, quindi, sulla prima esperienza di didattica a distanza nel periodo marzo/giugno. Sono stati, tuttavia, inseriti degli aggiornamenti a novembre a fronte di alcuni recenti studi e importanti novità.
Ne siamo usciti peggiori. Fare un bilancio della didattica emergenziale online che vada oltre la mera valutazione pedagogica ma provi a pensare al sistema dell’istruzione come parte fondamentale di un più ampio contesto sociale non consente un grande ottimismo. Sgombriamo subito il campo da ogni fraintendimento: i/le docenti, nella maggioranza dei casi, si sono messi in gioco con grande disponibilità e creatività. E bambine e bambini, ragazze e ragazzi hanno affrontato, in età critiche e delicate, una situazione complessa per la quale nessuno li aveva preparati. Inoltre, era oggettivamente difficile immaginare un’alternativa plausibile in una situazione così drammatica.
Ciononostante i problemi emersi sono considerevoli e coinvolgono una pluralità di piani, al di là delle valutazioni più strettamente didattiche. In generale, possiamo dire che la chiusura delle scuole ha generato un incremento delle diseguaglianze in diversi ambiti. Il punto è che lo stravolgimento comportato dal confinamento si è innestato su un sistema che dalle disparità trae vantaggio.
Per quanto riguarda, più nello specifico, il settore scolastico, è sotto gli occhi di tutti che si tratta di un contesto in enorme sofferenza. Riforme avviate e abbandonate che si succedono praticamente a ogni avvicendamento ministeriale; strutture fatiscenti; problemi annosi nel sistema di reclutamento del personale; scarso riconoscimento economico e sociale della classe docente (ricorderete gli strali della ministra Gelmini contro la scuola “stipendificio” a fronte di stipendi tra i più bassi d’Europa); contenimento delle spese, quando non veri e propri tagli (si veda il rapporto Ocse 2019 che mette a confronto le scuole dei paesi europei su una pluralità di parametri tra cui gli stipendi della classe docente). Del resto, restando sugli investimenti economici nell’istruzione, mentre la media europea destinata a questo settore copre il 10,2% della spesa pubblica totale, l’Italia si colloca all’ultimo posto, con una spesa che è crollata dal 9,1% del 2008 al 7,9% del 2017. Il nostro paese rimane fanalino di coda anche se consideriamo la spesa in relazione al Pil: a fronte di una media europea intorno al 5% l’Italia investe nell’istruzione il 3,8% del proprio prodotto interno lordo. Ripeto il dato: l’Italia è l’ultimo paese in Europa per spesa nell’istruzione. L’ultimo in Europa. Anche il dato in leggera risalita degli ultimi due anni non ci allontana dalla retroguardia. Del resto, la comunicazione politica e mediatica, nel suo complesso, non considera affatto cultura e educazione come asset prioritari.
Questa panoramica di estrema sintesi fornisce qualche elemento all’interno del quale inquadrare gli effetti che la chiusura delle scuole ha prodotto. Un sistema fragile non poteva che uscire ulteriormente indebolito da questo colpo. Vediamone alcuni aspetti.
Partiamo dal cuore della scuola: studentesse e studenti. I dati sull’effettiva possibilità di accesso alle lezioni online sono preoccupanti. A fine marzo, secondo i dati forniti dalla ministra Azzolina durante un’interrogazione parlamentare, il 6% degli alunni non partecipava alle lezioni a distanza. Si tratta, grosso modo, di mezzo milione di ragazze e ragazzi. L’11% degli alunni e delle alunne con problemi di apprendimento, inoltre, a quella data, non aveva ricevuto dalle scuole materiali appositamente strutturati per andare incontro alle loro difficoltà. Ancora più preoccupanti i dati forniti, nello stesso periodo, dalla Caritas ambrosiana che rilevava come, in area milanese, uno studente su due non aveva avuto accesso alle lezioni online e uno su cinque non aveva a propria disposizione un dispositivo o una connessione per seguire le ore di scuola da casa. Su scala nazionale, una ricerca dell’Istat pubblicata nel mese di aprile fissava a un terzo le famiglie italiane prive di un computer o un tablet in casa. Al quale aggiungeva un dato forse ancora più sorprendente: due adolescenti su tre (14-17 anni) hanno competenze digitali basse o di base.
Eppure, in teoria, non si sarebbe dovuti partire da zero, la legge 107/2015, cosiddetta “della buona scuola”, aveva, infatti, lanciato il Piano nazionale per la scuola digitale. I mesi di blocco della scuola in presenza avrebbero potuto opportunamente anche essere utilizzati per una valutazione del Piano: cosa ha funzionato e cosa no? A che punto è l’implementazione dei punti previsti? Cosa si può migliorare? Quali modifiche andrebbero apportate alla luce della sperimentazione massiccia della didattica a distanza emergenziale?
Un altro aspetto che emerge con chiarezza dalle ricerche di questi mesi è che scarsi mezzi e scarse competenze tendono ad abbinarsi a una bassa collocazione socio-economica delle famiglie. Un bambino su due inserito nel progetto “Fuoriclasse” dell’associazione Save the children, diretto a famiglie svantaggiate, non ha accesso a Internet. Un istituto comprensivo di Arzano, cintura di Napoli, ha perso per strada il 40% dei propri alunni. Si tratta, molto spesso, di famiglie di recente immigrazione in cui ai problemi economici si aggiungono quelli linguistici.
È drammaticamente evidente come il contesto famigliare abbia, insomma, giocato un ruolo primario nell’accesso più o meno soddisfacente alle lezioni a distanza. Avere alle spalle una famiglia con un’abitazione che consentisse di avere “una stanza tutta per sé” oltre a un computer e una connessione a disposizione di ogni figlio/a e che avesse le risorse culturali per sostenerli nei momenti di difficoltà nell’apprendimento ha fatto la differenza. La classe sociale di appartenenza, che vede stemperate, anche se non annullate, le proprie ricadute sull’apprendimento nella situazione relativamente neutra della scuola pubblica, torna a essere elemento assolutamente discriminante nella scuola “a casa”. Un problema che non affligge solo il nostro paese. In Gran Bretagna ha avuto larga eco un’inchiesta del quotidiano The Guardian che sottolineava come mantenere le scuole chiuse porterà a un incremento delle diseguaglianze sociali.
Conferma il problema anche una recente indagine di un pool di ricercatori delle università di Oxford e Stoccolma, significativamente intitolata Learning Inequality During the Covid-19 Pandemic, che si è concentrata sulla situazione olandese, considerata ideale perché la chiusura è stata limitata a otto settimane e non esistono problemi di connessione e accesso agli strumenti tecnologici. Il quadro è sconfortante: l’inchiesta ha infatti rilevato un “deficit di apprendimento” pari a circa un quinto dell’anno scolastico, grosso modo corrispondente alle settimane di chiusura della scuola. Non solo, per studentesse e studenti provenienti da famiglie con un basso livello di istruzione, la perdita è superiore fino al 55% rispetto a quella media.
A questa situazione già preoccupante si aggiunga che la chiusura di molte attività durante il cosiddetto lockdown ha indebolito la situazione economica anche di famiglie che fino a quel momento erano, sotto questo profilo, solide, allargando la fascia di studentesse e studenti a rischio. Secondo un’indagine condotta da Ipsos nel mese di agosto, una famiglia su dieci temeva di non poter pagare i libri scolastici alla ripresa. Non solo, lo spettro dell’impoverimento e della necessità addirittura di essere costretti, o meglio costrette, a lasciare il lavoro per seguire i figli a casa in caso di nuova chiusura, ha portato l’8% delle famiglie intervistate a riprogrammare la scelta scolastica e a reindirizzare figlie e figli, inizialmente destinati a un liceo, verso un percorso più immediatamente spendibile nel mondo lavoro in un istituto professionale.
La prospettiva di essere obbligate a lasciare il lavoro per seguire figlie e figli a casa, o con orari scolastici differenziati, pesa soprattutto sulle donne. Secondo la già citata ricerca Ipsos per Save the children, tra chi pensa di abbandonare la propria occupazione per dedicarsi a tempo pieno alla famiglia ci sono il 23% delle madri e il 4% dei padri. Per il nostro paese, il dato non è, purtroppo, una sorpresa. Nell’ultima edizione dell’annuale Gender gap report, l’Italia perde addirittura posizioni mostrando un accrescimento del divario tra donne e uomini. Ancora una volta, i problemi legati all’esplosione pandemica si innestano su una situazione già problematica, rendendone ancora più drammatici gli effetti. Ha confermato questo cupo quadro un’indagine pubblicata nello scorso mese di luglio dall’Università di Milano Bicocca – a cura di Pastori, Mangiatordi, Pagani, Pepe – su un campione di circa settemila genitori. La ricerca ha calcolato, tra l’altro, la media delle ore giornaliere passate da un genitore, nella maggioranza dei casi la madre, ad accompagnare figlie e figli nell’attività scolastica: per la scuola primaria la media è addirittura 3,2 ore al giorno, quasi un part-time che scendono a 2,8 nella secondaria di primo grado e a 2 nella secondaria di secondo grado. Le emozioni collegate all’esperienza sono state, nell’ordine: frustrazione, solitudine, rabbia, ansia, senso di inadeguatezza. Bisogna arrivare al sesto scalino per trovare la prima emozione positiva, la soddisfazione, percepita dal 2,52% delle intervistate (le madri che hanno risposto al questionario sono state il 94%).
È evidente come il
contesto famigliare
abbia giocato un
ruolo primario
nell’accesso più o meno
soddisfacente alle
lezioni a distanza
Non che l’Italia sia l’unico paese a riscontrare questa diseguaglianza. In ambito sovranazionale, una serie di inchieste, segnalate da The Guardian e Nature, ha rilevato, per esempio, come la chiusura totale abbia impattato negativamente sulle docenti universitarie che hanno pubblicato meno e attivato un minor numero di progetti di ricerca. Al contrario, gli articoli dei docenti uomini hanno visto un incremento addirittura del 50%. Evidente riflesso di come i compiti di cura e i lavori domestici rimangano fondamentalmente appannaggio delle donne.
Ma l’insegnamento a distanza apre anche un’altra serie di questioni sul ruolo e i diritti delle/dei docenti nelle università, trasversali al genere. La didattica a distanza o blended (che integra teledidattica e insegnamento in presenza) sembra essersi perfettamente inserita all’interno di una tendenza alla digitalizzazione del lavoro docente già in atto nelle università e che risponde quasi esclusivamente a logiche di mercato. Del resto, già nel 2012 un documento della Fondazione Crui (Conferenza dei rettori delle università italiane) definiva lo studente che si immatricola come “un semilavorato pregiato in ingresso” che, dopo la laurea, si trasforma in un “output” del processo formativo universitario. Alle/ai docenti, quindi, spetta il compito di completare “la lavorazione” per ottenere un “prodotto” integrato e socialmente (cioè, di fatto, economicamente) funzionale. Secondo le/i docenti universitari firmatari/e dell’appello “Disintossichiamoci – sapere per il futuro”, scritto proprio per opporsi a questa deriva, la teledidattica attivata dalle università a seguito dell’emergenza non sarebbe, appunto, uno strumento emergenziale, ma la prefigurazione dell’obiettivo finale. Con buona pace dell’autonomia didattica, dei diritti sindacali delle/dei docenti, della garanzia di un lavoro stabile, delle regole minime di privacy di docenti e studentesse/i.
La situazione per il corpo insegnante non è molto migliore nelle scuole primarie e secondarie. Un’indagine su più di mille docenti promossa dalla Flc-Cgil in collaborazione con la Fondazione Giuseppe Di Vittorio, condotta su un campione di oltre mille docenti e pubblicata nello scorso ottobre, «ha indagato i processi decisionali attuati nei contesti scolastici; l’esperienza pregressa di didattica a distanza e i percorsi formativi per i docenti; gli strumenti a disposizione e le modalità adottate per la didattica; la partecipazione degli studenti ai corsi e le disuguaglianze; il carico di lavoro per i docenti e la conciliazione tra tempi di vita e di lavoro; le difficoltà incontrate e il giudizio complessivo su questa esperienza». Il termine “diseguaglianze” torna più e più volte anche in questa ricerca, così come l’evidente squilibrio tra impegno personale di gran parte del corpo docente (il 90% del campione ha definito “aumentato” il proprio carico di lavoro che, per l’88%, ha comportato anche difficoltà nella conciliazione dei tempi) e scarso o nullo riconoscimento di questo impegno, in termini professionali e di riscontro economico. Solo il 30,8%, meno di un terzo quindi, è riuscito a raggiungere, con la didattica da casa, la totalità delle proprie studentesse e studenti, con i problemi maggiori rilevati da docenti del Sud del paese.
La necessità ha portato infatti, tra l’altro, a un utilizzo costante delle piattaforme di insegnamento online (peraltro tutte di proprietà privata, mentre è praticamente sconosciuta la piattaforma completamente gratuita nata dal Consortium Garr, in collaborazione con lo stesso Miur). Questo, a sua volta, ha comportato una serie di aggravi per il corpo docente: formazione e autoformazione in corso d’opera, utilizzo di propri strumenti con conseguente aumento delle spese, accresciuto numero di ore di lavoro, difficoltà a separare il tempo-lavoro dal tempo cosiddetto libero… Un impegno che in molte e molti si sono assunte/i con coscienza ma che non è stato affiancato da alcun riconoscimento di tipo sindacale (nonostante il decreto legge 8 aprile 2020, n. 22, convertito con modificazioni dalla legge 6 giugno 2020, n. 41, prevedesse che le prestazioni a distanza del personale docente dovessero essere regolate mediante un apposito accordo contrattuale integrativo) né economico. Purtroppo, anche in questo caso, ci troviamo su una linea di progressione che era già ben evidente prima della pandemia: il costante aumento delle richieste in termini formativi, di tempo, di incombenze burocratiche non corrisponde a un miglioramento della condizione del corpo insegnante. Ne sono un esempio il recente caso delle modalità di introduzione dell’insegnamento dell’educazione civica o l’ordinanza ministeriale relativa ai corsi di recupero: a partire da questo anno scolastico, 2020/2021, viene introdotto l’insegnamento dell’educazione civica come disciplina a sé stante, ma nessun compenso aggiuntivo è dovuto alle/ai docenti che la insegneranno, mentre può essere valutata dal singolo istituto un’eventuale retribuzione aggiuntiva della coordinatrice o del coordinatore (Legge n. 92 del 20 agosto 2019). È vero che l’inserimento della nuova disciplina non comporta un aumento delle ore di docenza ma è anche vero, come sa qualunque insegnante, che alle ore di lavoro passate in classe vanno aggiunte le ore di formazione (in particolare nel caso dell’inserimento di una nuova disciplina), le ore di preparazione delle lezioni, le ore di stesura e correzione delle verifiche, le ore di riunione e confronto con colleghe e colleghi (in particolare nel caso di un insegnamento trasversale alle diverse materie come questo). In merito ai corsi di recupero lo scorso 26 agosto il ministero ha inviato la nota 1494 ai dirigenti scolastici che stabiliva, contro il parere dei sindacati, che non fossero retribuite le attività di recupero connesse ai Pia (Piani integrazione apprendimenti) e Pai (Piani apprendimento individualizzato), corsi da svolgersi dal 1° settembre alla ripresa delle lezioni.
Soltanto il 6 novembre scorso, dopo mesi in cui le/i docenti hanno lavorato a distanza e dopo due mesi dalla ripartenza dell’anno scolastico, la Flc-Cgil ha sottoscritto il contratto integrativo sulla Ddi (la dicitura “Didattica digitale integrata” ha sostituito la precedente Dad, “Didattica a distanza”, nella classica euforia da acronimo ministeriale). Il nuovo contratto, che ora passerà al vaglio delle assemblee di lavoratori e lavoratrici, prevede «un confronto costante su tutte le tematiche connesse all’effettività dell’esercizio del diritto allo studio; l’attivazione di un sistema di relazioni sindacali che, in maniera permanente e sistematica, affronti le questioni relative al lavoro di tutto il personale della scuola; il finanziamento della formazione del personale anche in conseguenza dell’applicazione del Ccni sulla didattica digitale integrata. Il Ministero ha garantito altresì il sostegno al lavoro del personale docente e del personale a tempo determinato che non dispone della card per le spese in strumentazione tecnologica per la Ddi, e lo stanziamento delle risorse finanziarie per implementare la connettività delle scuole anche attraverso la dotazione di una piattaforma per la didattica digitale accessibile gratuitamente alle studentesse, agli studenti e al personale. È stata stabilita inoltre l’apertura, entro il mese di novembre, di un confronto sul lavoro svolto in modalità agile da parte del personale amministrativo, tecnico e ausiliario». Un primo passo nella giusta direzione, quindi, che sembrerebbe confermato dalla dichiarazione congiunta di Miur e parti sindacali del 9 novembre scorso, ma ancora tutto da costruire e verificare.
Non solo, proprio le/i docenti hanno anche svolto la funzione di capri espiatori di tutte le difficoltà riscontrate, con un ulteriore indebolimento del loro già scarsissimo riconoscimento sociale.
In conclusione, l’emergenza seguita alla pandemia non ha portato a un cambiamento delle dinamiche ma, semplicemente, a uno scarto nella scala di velocità di un processo che ha radici profonde, non solo all’interno del mondo dell’istruzione ma nella visione economica sociale dominante, e del quale non abbiamo ancora visto tutti gli effetti.
Bibliografia e sitografia
Tutti i siti sono stati consultati l’ultima volta il 10 novembre 2020.
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«Caritas ambrosiana: didattica a distanza, escluso un alunno su due», Orizzonte scuola, 31 maggio 2020.
D. Di Nunzio, M. Pedaci, F. Pirro, E. Toscano, «La scuola “restata a casa”. Organizzazione, didattica e lavoro durante il lockdown per la pandemia di Covid-19», Working Paper FDV, Flc-Cgil-Fondazione Giuseppe Di Vittorio, n. 2, 2020.
P. Engzell, A. Frey, M. Verhagen, Learning Inequality During the Covid-19 Pandemic, ottobre 2020.
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Save the children, La scuola che verrà. Attese, incertezze e sogni all’avvio del nuovo anno scolastico, 4 settembre 2020.
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