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La produzione snella e il governo della logistica

Moody sostiene che negli anni Ottanta e Novanta c’è stata la lean production con il suo just-in-time e negli anni Duemila la logistica, il just-in-case e l’ipersfruttamento. Io penso che la lean production ha potuto svilupparsi proprio perché nelle imprese si andava affermando un nuovo strumento del management: il governo della logistica. Ed era – occorre sottolinearlo – logistica industriale, mentre quella di oggi, quella di Amazon per intenderci, è logistica di distribuzione. Sono due cose molto diverse.

La logistica industriale nasce a metà anni Settanta come materials handling e ha come scopo quello di ottimizzare il flusso dei materiali che entrano nel processo produttivo. Un principio che sarà interamente applicato nella lean production, dove uno degli obiettivi da raggiungere è quello di evitare gli sprechi. Il tutto si muove ancora in un’ottica “tayloristica”. Al tempo stesso le imprese si accorgono che c’è un altro problema che incombe, un problema rispetto al quale la lotta agli sprechi si rivela una battaglia di retroguardia. È il problema dell’inflazione. I materiali che entrano in produzione sono depositati in un magazzino in attesa di essere impiegati e diventano “scorte”. Con l’inflazione galoppante si deprezzano e perdono valore. Ma lo stesso vale per il prodotto finito. La necessità di ridurre le scorte per fronteggiare l’inflazione fa nascere il just-in-time, che non diventa però una pratica generalizzata. Ricordo benissimo che uno dei fondatori dell’Associazione Italiana di Logistica, di cui per un brevissimo periodo sono stato Vice-Presidente, ammoniva che le merci che si muovevano in just-in-time non erano più del 10%. Eravamo agli inizi degli anni Novanta, proprio il periodo in cui compaiono sul mercato le società che sono state le antesignane di Amazon, quelle che in parte hanno rilevato il servizio postale di consegna dei pacchi (parcel), e che hanno cominciato a consegnare a domicilio (home delivery) secondo criteri rivoluzionari nel mondo del trasporto, cioé facendosi pagare non più a peso ma a tempo di consegna (24h, 48h ecc.). Ed erano la TNT, la DHL, la UPS e la Federal express. Infatti le Poste, per non essere fagocitate, le acquisirono: quelle olandesi acquisirono TNT e quelle tedesche la DHL. Una delle ragioni del loro esplosivo successo (il bilancio di TNT era superiore a quello dello stato di residenza, l’Australia) era dovuto all’inizio della globalizzazione. Le imprese, grazie a Internet, potevano praticare l’e-procurement, potevano cioè approvvigionarsi presso dei fornitori collocati in qualunque area del globo, selezionandoli in base al prezzo e alla qualità. Nacquero così le global supply chain (GSC) che potevano esser servite soltanto con l’aereo. Infatti i vecchi spedizionieri furono messi fuori gioco perché TNT, DHL e Federal si dotarono di una flotta di aerei cargo. È un passaggio questo che ricordo molto bene, perché partecipai a uno studio multipaese sugli express delivery services che presentammo alla Conferenza Mondiale di economia dei trasporti (WCTR) di Lione del 1992. Fu pubblicato nei Proceedings. Fummo i primi a capire la valenza del fenomeno del fast delivery.

Quindi non solo la logistica come strumento fondamentale del management ma anche la logistica distributiva, quella che sarà portata a un’esasperata perfezione da Amazon, nascono e si sviluppano nella fase che Moody caratterizza come quella del modello n. 1, il modello della lean production. 

Negli anni Duemila a me pare che non è tanto il cambiamento del modello organizzativo a determinare il cambiamento delle regole del gioco, quanto il succedersi di choc planetari, in particolare dei due più destabilizzanti: la crisi finanziaria del 2008/2009 e la pandemia del 2020/2022. Il tutto nel quadro di un cambiamento drammatico nei rapporti di potere mondiali dato dalla crescente egemonia della Cina. Fenomeno di una portata ben maggiore di quella che può aver comportato la lean production giapponese del toyotismo.

Non credo che un’organizzazione della produzione in un settore specifico della manifattura, quello dell’automotive, possa avere avuto una valenza per l’intero sistema capitalistico. Lo è stato per il fordismo agli inizi del Novecento, non lo è per il nuovo Millennio. Non solo, ma mentre la manifattura ha imposto le sue rules a tutta la società nel Novecento, negli Anni Duemila le rules vengono fissate dal consumo. Il cliente è king

A proposito della categoria “ipersfruttamento” ha ragione Moody nel collocarlo all’interno del modello n. 2. Fino alla fine del Novecento lo standard di vita occidentale era il parametro di riferimento mondiale, nel Duemila di fatto è lo standard di vita cinese. L’Occidente si è difeso dalla supremazia cinese in tanti campi esasperando la finanziarizzazione e creando di fatto un universo riservato a uno strato ristretto di popolazione. Le diseguaglianze quindi raggiungono livelli mai visti prima. Con le delocalizzazioni i riferimenti salariali si allineano al modello cinese, alla “fabbrica del mondo”, mentre le economie occidentali diventano sempre più horeca, turismo, svago, le mansioni lavorative diventano sempre più mansioni “servili”, come aveva già notato Marazzi anni fa. L’icona dello homo faber, del produttore, finisce nella polvere, domina il soggetto che serve il cliente, domina una figura subalterna non una figura con sua dignità indipendente. Le imprese fanno il dual sourcing, accumulano scorte per precauzione, diversificano i fornitori. Le operazioni che richiedono just-in-time si esternalizzano. E poi c’è il metaverso. Non lo consideriamo parte essenziale di un modello? 

Quanto poi alla disruption delle catene di fornitura, ho ben presente quello che succede nel mondo del container. Ormai sono più di due anni che la società di cui sono Presidente, l’Agenzia Imprenditoriale Operatori marittimi (AIOM) di Trieste, pubblica una newsletter dove il mercato dei flussi containerizzati viene analizzato con frequenza mensile. Il discorso sarebbe lungo, ricordo soltanto che se ci sono state decine di navi ferme davanti ai porti della costa ovest USA e i componenti non arrivavano alle catene di montaggio non era tanto dovuto alla fine del just-in-time (che semmai è una conseguenza delle disruption) ma alla mancanza di autisti, labor shortage

Condivido invece del tutto le osservazioni di Moody sulla vulnerabilità delle GSC e dell’intero sistema di home delivery, quindi sul potenziale delle azioni di conflitto operaio.

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Il 2 maggio scorso, la statunitense Labor Notes pubblicava un articolo di Kim Moody, uno dei fondatori della rivista e dei più attenti osservatori del mondo del lavoro, intitolato “The End of Lean Production…and What’s Ahead”. Jacobin Italia lo ha tradotto (“Oltre la produzione snella” ) e lo ha messo online l’11 maggio (Oltre la produzione snella – Jacobin Italia) e ci ha concesso l’utilizzo della traduzione da loro pubblicata. La presentiamo qui, corredata dei commenti di Sergio Fontegher Bologna, Bruno Cartosio, Matteo Gaddi, Romeo Orlandi e Marco Veruggio che ne discutono affermazioni e implicazioni da angolazioni diverse. L’insieme verrà pubblicato anche su: www.puntocritico.info

Kim Moody, Oltre la produzione snella

Sergio Fontegher Bologna, La produzione snella e il governo della logistica

Bruno Cartosio, La distribuzione è vulnerabile

Matteo Gaddi, Commento a “Oltre la produzione snella” di Kim Moody

Romeo Orlandi, Note su “Oltre la produzione snella” di Kim Moody

Marco Veruggio, Ragioni e incognite dell’amazonizzazio