La logistica delle guerre. Dialogo con Carlo Tombola
Nato due anni fa a Genova, The Weapon Watch – Osservatorio sulle armi nei porti europei e mediterranei è un punto d’incontro tra militanti antimilitaristi, lavoratori dei trasporti ed esperti a vario titolo di logistica, che intende seguire la strada aperta una ventina di anni fa da un pioniere quale Sergio Finardi, scomparso nel 2015. In questo breve periodo, The Weapon Watch ha contribuito ad alcune delle più incisive lotte dei lavoratori portuali contro le guerre, in particolare a Genova, Livorno, Trieste, Ravenna, e si è inserita nel network europeo che coordina le iniziative per limitare la produzione e il commercio di armamenti. Un suo progetto, quello di un atlante europeo dell’industria militare, ha raccolto l’interesse di partner qualificati nel Regno Unito, in Spagna, in Belgio e in Germania, e ha già prodotto una cospicua databank delle aziende italiane coinvolte nel militare, in via di pubblicazione sul web. A suo merito, anche quello di aver fatto conoscere in Italia la Ziviler Hafen, l’iniziativa popolare in corso ad Amburgo per un referendum che escluda l’esportazione di armamenti dal traffico portuale.
OPM ha chiesto a Carlo Tombola di raccontare questa esperienza, dal suo speciale punto di vista come redattore della rivista e come attivista dell’osservatorio.
OPM: A quando risale l’idea di fondare The Weapon Watch?
Tombola: Si può tornare a un giorno, il 20 maggio 2019, e a un luogo preciso, il porto di Genova, dove i portuali si accorsero che all’imbarco su una nave saudita c’erano merci presentate come “civili” ma in realtà destinate a un corpo militare d’élite, la Guardia nazionale del Regno, impiegato nella guerra in Yemen. Su quelle merci si aprì un duro contenzioso tra alcuni delegati sindacali, che chiedevano chiarimenti, e dall’altra parte il terminalista e l’autorità portuale, che minimizzavano e minacciavano di accollare i danni. Accadde anche che di colpo, all’alba, arrivarono al presidio in porto centinaia di giovani, giornalisti, pacifisti, persino gli scout di Sampierdarena, e che il console della Compagnia unica si spingesse a prevedere lo sciopero su quelle merci. Quando i compagni del Calp-Collettivo autonomo lavoratori portuali mi mandarono le foto e i documenti relativi, scoprii che la ditta romana produttrice di questi shelters (sono centri di comando e telecomunicazioni collocati in speciali container, condizionati e dotati di generatori elettrici) li offriva sul sito web a utilizzatori esplicitamente militari, e che per di più ne aveva richiesto – a norma di legge – l’autorizzazione per esportarli in Arabia Saudita quale materiale militare. Quando i rappresentanti dei lavoratori portarono alla discussione i nuovi dati, la partita si chiuse: il prefetto decise che le merci dovevano rimanere in porto “per accertamenti”, e la nave ripartì.
Poi questa vicenda fece il giro del mondo, abbiamo ricevuto attestati dai dockers di Oakland e da quelli di Durban, dai sindacati scozzesi… ma per noi fu soprattutto occasione di riflessione. Intanto, l’azione era stata resa possibile dall’allarme internazionale che aveva preceduto l’arrivo in porto della «Bahri Yanbu». Si sapeva cioè che avrebbe dovuto imbarcare a Le Havre degli speciali cannoni a lungo raggio di produzione francese. Quei cannoni giusto poche settimane prima erano stati al centro di un dossier del sito investigativo Disclose, in cui si documentava il loro impiego in Yemen e il fatto che Macron ne fosse a conoscenza, al contrario di ciò che il presidente francese aveva dichiarato in pubblico. In Francia i dockers della Cgt si erano schierati con Amnesty International e i pacifisti cristiani per il boicottaggio della nave. Quando la nave ripartì dopo aver “saltato” Le Havre, a Genova – successivo scalo previsto – c’era un clima battagliero, fiorivano le discussioni, e pesava l’appello alla solidarietà portuale lanciato dalla Cgt e dalle ong francesi. Probabilmente senza quella rete internazionale di informazione e lotta Genova non si sarebbe mossa, e così abbiamo pensato di mettere in qualche modo basi più stabili – informative, legali, di analisi – ad azioni che per loro natura dovevano seguire, anzi anticipare, le navi lungo catene logistiche molto consolidate, “servizi regolari” secondo gli schemi tipici della moderna shipping industry. Azioni che rimangono esemplari (le merci bloccate a Genova qualche settimana dopo andarono via gomma a Marghera, e da lì imbarcate per il porto di destinazione, Jeddah) ma che servono a dare visibilità alla catena e al suo traffico specifico. Oggi si sa tutto della compagnia Bahri, a cui appartengono quelle sei navi gemelle, e ogni volta che una tocca Genova, cioè ogni venti giorni circa, viene accolta dai petardi del Calp e si muovono i giornalisti. I camalli genovesi sono sotto i riflettori, partecipano a convegni e riunioni internazionali, sono andati in tv (vedi la puntata di PresaDiretta andata in onda il 22 marzo scorso). Certo, qualcuno del Calp è finito indagato per associazione a delinquere e attentato alla sicurezza dei trasporti, ma d’altra parte una loro delegazione è stata ricevuta in udienza privata da papa Francesco, che peraltro li ha più volte lodati per il loro coraggio civile.
Insomma si tratta di forme di lotta “mediatica”, difficili, da condursi contemporaneamente a diverse scale geografiche, locale e internazionale, e sempre “in rete” con altre organizzazioni di sensibilità diverse. La decisione di dar vita a The Weapon Watch è stata un po’ la risposta a queste esigenze diverse: un osservatorio in cui fossero fianco a fianco lavoratori, portatori di saperi tecnici nel trasporto e nella logistica, consulenti legali e sindacali che possono suggerire come fare pressione sulle autorità, e naturalmente diverse sensibilità della militanza.
OPM: Nel programma di The Weapon Watch si dice esplicitamente che è un “osservatorio”, cioè prende a modello l’Osservatorio sulle armi leggere di Brescia a cui collabori da tempo?
Tombola: Quello di Opal è per me un modello di riferimento, oltre che un’esperienza preziosa per le persone straordinarie che vi ho trovato, determinate a documentare giorno dopo giorno quale sia il ruolo dei grandi produttori del distretto bresciano, a cominciare da Beretta, nella diffusione delle armi leggere e “sportive” fabbricate in Italia, soprattutto nelle aree della violenza endemica urbana e della guerra perpetua. Però nello statuto di The Weapon Watch si fa esplicito richiamo alle battaglie dei portuali e nei porti, non solo al movimento contro la guerra e ai principi della nonviolenza. Inoltre indichiamo come obiettivo di lotta, conoscenza e propaganda la particolare “catena logistica” della guerra, nelle sue varie forme e gradi di attuazione. Non bisogna dimenticare quello che scrive che per l’invasione dell’Iraq del marzo-aprile 2003 l’amministrazione Bush si servì dei big mondiali della logistica, Maersk in testa, e che i primi contratti furono firmati già nell’agosto del 2002, cioè sei mesi prima della sceneggiata di Colin Powell all’Onu. La logistica per la guerra è sempre un gigantesco business, sempre internazionale, anzi direi intergovernativo, e si mette in moto molto prima che i soldati posino i loro boots on the ground. Di qui l’urgenza di una rete che osservi e controlli i porti strategici per l’approvvigionamento militare e che contribuisca a rendere trasparente quello che non lo è, sebbene il commercio di armi e munizioni – anche di quelle utilizzate per commettere gravissimi crimini di guerra contro popolazioni civili – si svolga sotto i nostri occhi, con vettori commerciali e senza particolari misure di sicurezza. Una rete che raccolga e diffonda informazioni relative alla logistica militare può anche contribuire a promuovere forme di lotta adeguate a un “avversario” che ha ed esercita enormi poteri di pressione sull’opinione pubblica – si pensi alle molte aziende “strategiche”, a cui il governo ha permesso di continuare a lavorare anche durante i momenti più gravi della pandemia, nella primavera del 2020 – ma che, secondo le nostre valutazioni, ha un peso tutto sommato limitato quanto a creazione di ricchezza e di posti di lavoro.
In questo senso, penso che la mia presenza, oltre che nella direzione di Opal, anche nella redazione di OPM sia coerente, il progetto della rivista e quello di The Weapon Watch si riferiscono entrambi agli stessi metodi (indagine sul campo, conricerca, interviste, ecc.), alla stessa attenzione al mondo del lavoro, alla stessa contaminazione dei saperi tecnici e delle esperienze di lotta. Del resto anche Andrea Bottalico e Riccardo Degl’Innocenti condividono la mia stessa doppia presenza, in OPM e in The Weapon Watch…
OPM: È chiaro che il settore militare, più ancora che per il suo peso economico, conta perché è immediatamente a contatto con il decisore politico, e perché riguarda l’impiego sul campo delle forze armate e il sistema delle alleanze internazionali.
Tombola: Pensiamo a Leonardo. La maggiore azienda italiana impegnata nel militare è formalmente controllata dal ministero dell’Economia con il 30% delle azioni, ma in realtà i due terzi del capitale sono nelle mani di investitori istituzionali inglesi e americani, assai più vicini ai grandi clienti di Leonardo che al governo di Roma. Leonardo fornisce Boeing, Lockheed Martin, Rolls Royce, Northrop Grumman, Bae Systems ecc., mantiene venti stabilimenti negli USA e ha 7.000 posti di lavoro nel Regno Unito. Voglio dire che Profumo e i manager di Leonardo hanno un canale diretto con il Pentagono e la Casa Bianca, e ne riportano i messaggi a chi in quel momento siede al governo… Qui si aprirebbe anche il tema di cosa sia realmente “militare” o per la difesa, in settori produttivi largamente dual use, cioè che producono sia per il civile che per il militare: le cifre talvolta fornite dalle aziende non sembrano credibili e certo non sono verificabili, dal momento che non c’è alcun obbligo civilistico di specificare il valore della produzione di un singolo impianto, né tanto meno quale parte del fatturato riguardi il militare. Leonardo in Italia ha ben 38 unità produttive dirette, e sono solo una decina quelle esclusivamente o prevalentemente rivolte al militare. Da parte sua, Fincantieri dichiara il 24% del fatturato dal settore difesa nel 2020, Beretta negli ultimi vent’anni non ha mai dichiarato più del 15% …
OPM: Cosa siete riusciti a realizzare in questi due anni?
Tombola: L’associazione The Weapon Watch è nata nel gennaio 2020 e siamo stati subito bloccati dal lockdown, avevamo in corso tre iniziative rilevanti che sono rimaste al palo o che proprio abbiamo dovuto abbandonare. Abbiamo rinunciato al progetto sostenuto dalla Rosa-Luxemburg-Stiftung – la fondazione del partito Die Linke – o meglio abbiamo dovuto rinunciare al loro finanziamento. Però non abbiamo rinunciato al progetto di realizzare un “atlante interattivo” dell’industria italiana della difesa, anzi in qualche modo durante il confinamento abbiamo lavorato più intensamente, raccolto una gigantesca databank collegata alla mappa: se ne può vedere una versione, ancora in bozza e incompleta, all’indirizzo http://sergiofinardi.info/ww/#. Come The Weapon Watch vogliamo contribuire a una seria critica dei dati, perché secondo noi sono troppo appiattiti sulle fonti di Confindustria e delle grandi aziende aderenti ad Aiad-Associazione delle industrie aerospazio e difesa, la lobby italiana delle armi diretta da Guido Crosetto, fondatore ed ex segretario di Fratelli d’Italia. Ne risulta un’opacità complessiva del settore e una carenza – per non dire un’assenza – di analisi indipendenti.
Abbiamo portato avanti anche una seconda iniziativa, almeno in parte: il confronto con i rappresentanti dei lavoratori sui temi del controllo del commercio di armamenti, della riconversione, delle guerre disumane e dei loro effetti sulle società europee. Qui siamo stati facilitati dalla presenza nelle nostre fila di alcuni portuali genovesi protagonisti della lotta contro le navi Bahri e di alcuni tra gli osservatori più attenti al mondo della logistica marittima – peraltro anche presenti nella redazione di OPM, in coerenza con il pionieristico approccio di Primo Maggio e di Sergio Bologna in particolare. Ci manca ancora, perché va costruito con pazienza e senza ideologie o fatalismi, il confronto diretto con i lavoratori delle stesse aziende della difesa e dell’aerospazio, anche qui per riprendere il metodo della conricerca, nonché la tradizione del movimento nonviolento italiano, che in molti storici distretti produttori di armamenti – penso al Bresciano, al Varesotto, all’area fiorentina, alla stessa Genova – conobbe in passato originali esperienze di obiezione di coscienza sul luogo di lavoro. Crediamo che The Weapon Watch possa offrire, anche grazie alla divulgazione delle informazioni e al suo metodo di lavoro, un primo livello di confronto e critica, quello sui dati – sugli incroci delle subforniture, sulla logistica specializzata – che con il contributo di tecnici e operai possono diventare meno opachi e univoci. Per fare un esempio, non mi sembra che qualcuno abbia detto quanto il gruppo Gkn sia implicato nell’aerospace sia civile che militare: hanno come clienti quasi tutti i maggiori produttori mondiali di aeromobili e di motori jet, impiegati anche negli aerei da combattimento di quinta generazione, di cui sono fornitori di “livello 1” con 41 siti di produzione in 13 paesi. Si è messa in relazione la chiusura dello stabilimento di Campi Bisenzio con i cambiamenti nella geografia produttiva dell’automotive e con la fine di Fca, ma si è tralasciato di guardare più in profondità, alla logica dietro le decisioni del fondo Melrose, che chiude a Campi ma non a Brunico, per limitarci all’Italia.
Al terzo punto del progetto The Weapon Watch, l’ho già accennato prima, c’è l’obiettivo di contribuire a costruire una rete tra i porti europei, cioè in concreto tra lavoratori e lavoratrici, sindacati, Ong, movimenti pacifisti e religiosi delle città in cui operano le multinazionali della logistica e attraverso cui passano le navi più implicate nell’approvvigionamento militare. Anche qui ci vuole tempo, “a distanza” non si può fare molto, ma siamo impegnati a costruire una trama forte di rapporti e scambi informativi, a organizzare gli osservatori sul campo, a far nascere iniziative comuni in grado di mobilitare l’attenzione: soprattutto laddove la catena logistica militarizzata viene allo scoperto, si rivela, lascia le sue tracce documentali e incontra lavoratori che non sono disposti alla complicità, sia pure indiretta, che comporta maneggiare container di bombe, imbarcare veicoli destinati a massacrare qualche famiglia di abitanti di zone lontane dai nostri occhi e dalle telecamere dei nostri media. Nel maggio scorso, mentre l’esercito israeliano bombardava Gaza, in tre porti italiani sono scattati dei “blocchi preventivi” per non imbarcare esplosivi (cioè bombe e proiettili) diretti a Haifa, azioni promosse da sigle sindacali diverse e sulla base di allerte e messaggi sui social. La forza di queste azioni è stata enorme, pensate che come reazione immediata la sezione dei portuali di Haifa iscritti alla Histadrut – il sindacato unico israeliano – ha minacciato un contro-blocco su tutte le merci italiane in entrata, mettendo subito in moto le diplomazie dei due paesi.
OPM: Recentemente siete stati ad Amburgo per la giornata contro la guerra e alla Friedenskonferenz (la conferenza sulla pace) organizzata dal sindacato ver.di. Come mai questo interesse per l’attivismo pacifista tedesco?
Dei contatti con la fondazione Rosa Luxemburg abbiamo detto. Poi Jackie Anders della redazione di Ausdruck, la rivista di Imi-Informationsstelle Militarisierung di Gottinga, ci ha pubblicato un articolo uscito nello scorso giugno, il che credo abbia contribuito al doppio invito ad Amburgo: Sandro Capuzzo ha rappresentato The Weapon Watch all’Antikriegstag del primo settembre, giorno in ricordo dell’invasione nazista della Polonia; Stefano Odoardi e io siamo intervenuti alla conferenza del 16 settembre. Seguiamo sin dall’origine le faccende tedesche, che per il nostro progetto sono molto rilevanti in tutt’e tre le linee d’azione in cui si articola.
In quella città, che è uno dei maggiori porti d’Europa nonché la capitale di un piccolo Land, si è messo in moto un complicato iter per ottenere un referendum popolare riservato ai residenti, a cui verrà chiesto di dichiararsi pro o contro il commercio degli armamenti nel porto. È un iter in tre fasi, si è appena conclusa la prima raccolta firme, ora il quesito sarà sottoposto a un parere di tipo costituzionale locale, quindi si dovrà ripetere una ben più impegnativa raccolta firme – 65.000 in un mese. Se tutto andrà secondo gli auspici degli organizzatori, il referendum si potrà tenere nel 2025, ma la cosa rilevante è che ora ha ottenuto anche il sostegno di ver.di, il maggior sindacato tedesco dei servizi e del pubblico impiego, due milioni e mezzo di iscritti, tra cui i lavoratori della logistica portuale. Insomma, i dockers di Amburgo sono in gran parte iscritti a ver.di e il loro sindacato sta sostenendo un referendum per escludere le merci militari d’esportazione dal traffico portuale: non senza forti resistenze interne, ci hanno detto i dirigenti locali, molti dei quali di origini italiane. Tra l’altro, la nostra visita ha mobilitato le energie dei compagni tedeschi che già stavano lavorando alla redazione di un atlante tedesco dell’industria della difesa, un po’ sul modello di quello di The Weapon Watch, e che potrebbe essere un’altra colonna del progetto di atlante europeo che stiamo proponendo.
OPM: Quello della sensibilità dei lavoratori alle lotte più chiaramente politiche, nascano o meno dalle organizzazioni sindacali, è un tema che sta molto a cuore alla redazione di OPM. Che idea vi siete fatta al proposito?
Tombola: È un terreno molto impervio, segnato tanto in Italia che in Germania da decenni di contrapposizioni, fratture, incomprensioni, sul fondo di un arretramento generalizzato del movimento dei lavoratori e di un mutamento non solo politico-sociale ma direi anche antropologico degli stessi iscritti ai sindacati, più disponibili a difendere l’esistente e meno inclini a esporsi su motivazioni politiche. Tuttavia nello specifico della nostra azione, e nel breve arco di tempo di cui sopra, il quadro non è così nero. A Brema ci hanno detto chiaramente che uno sciopero o un’azione su un tema “politico” non strettamente sindacale è semplicemente impensabile, dal momento che il sindacato siede nel comitato di gestione del porto. Da noi non è così. Ci conforta molto che quando riusciamo ad arrivare di fronte ai lavoratori ci sia attenzione. A Genova, ad esempio, alcuni rls (rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, N.d.R.) hanno ripreso gli argomenti circostanziati che abbiamo sollevato sul nostro sito web, dove abbiamo lanciato l’allarme: quando attraccano in porto, le navi Bahri sono cariche di munizioni ed esplosivi di classe 1, e la banchina del terminal è a soli 400 metri dalle case di Sampierdarena, mentre nel raggio di 800 metri troviamo i depositi costieri della Silomar e della Get Oil, oltre all’area “merci esplosive in transito” del terminal Spinelli. Per dare un’idea del rischio, l’esplosione dell’agosto 2020 nel porto di Beirut ha devastato un’area in un raggio di 3.200 metri dall’epicentro.
D’altra parte, la Cgil nazionale è dentro la Rete italiana per la pace e il disarmo, e anche se il sindacalismo di base è stato protagonista delle azioni più clamorose, a Genova e a Livorno, trovo che sia molto significativo quel che è accaduto a Ravenna lo scorso maggio, quando i confederali hanno annunciato lo sciopero unitario appena ricevuta la notizia di un previsto imbarco di esplosivi diretti a Haifa, mentre le forze armate di Israele bombardavano Gaza. Anche se il green pass rischia di aggiungere nuove fratture, continuo a credere che sui temi internazionalisti più “globali” sia possibile non solo l’alleanza dei lavoratori entro i porti e tra i porti italiani, ma anche il sostegno alle loro lotte da parte di importanti componenti culturali e politiche del paese, dalla sinistra critica ai cattolici impegnati, dal movimento ambientalista a quello libertario.
Sitografia
The Weapon Watch weaponwatch.net
Opal opalbrescia.org
Rete italiana per la pace e il disarmo retepacedisarmo.org/
«The itinerary of a secret shipment», Disclose, 15 aprile 2019.
C. Tombola, A. Bottalico, «Die Waffenschiffe im Netz der Friedenshäfen», IMI-Analyse, 2021/26, 8 giugno 2021