La distribuzione è vulnerabile
Nei decenni della crescita novecentesca delle organizzazioni operaie nel mondo della produzione – tra la metà degli anni Trenta e la metà dei Settanta – la creazione di “scorte” era necessaria alle aziende per difendersi dalle interruzioni operaie del flusso produttivo: poter distribuire e vendere anche se reparti, sezioni o intere fabbriche si fermavano. In America il modello operativo di punta era costruito sull’auto, il settore industriale trainante per gran parte del secolo scorso: dopo il 1945 la GM era il maggior datore di lavoro e la UAW il sindacato più grande.
Il mantenimento delle scorte era costoso economicamente, per l’immobilizzazione dei prodotti. Lo era anche “politicamente”, perché era dovuto non alle proprie scelte economico-produttive-amministrative (come le fermate degli impianti al cambio dei modelli), ma dalla necessità di rispondere all’iniziativa altrui (cioè dei lavoratori). Il ciclo delle lotte nel settore privato degli anni 1967-1975 – con il numero di scioperi, di lavoratori coinvolti e di giornate-lavoro perdute più alto della storia – fu decisivo nello spingere il grande capitale a perseguire strategie alternative.
Le risposte al potere operaio, dagli anni Ottanta a oggi, sono state cercate nel neoliberismo e nella globalizzazione neoliberista: deindustrializzazione, delocalizzazione, esternalizzazione, re-engineering; e, in parallelo, desindacalizzazione dei luoghi di lavoro, riduzione generale dell’occupazione industriale, dei posti di lavoro a tempo indeterminato e dei salari; distruzione delle comunità operaie nelle vecchie città industriali e trasformazione delle città stesse, con demolizione di interi isolati e quartieri, taglio nella fornitura di servizi pubblici, chiusura di supermarket ed esercizi commerciali. Ne sono seguiti l’incremento costante delle disuguaglianze sociali e il calo delle aspettative di vita, con la crescita delle malattie legate alle peggiori condizioni di vita e lavoro, di alimentazione e di ridotto accesso alle cure mediche.
L’adozione della lean production “giapponese” cui accenna Moody è venuta di conseguenza: quando i lavoratori non erano più in grado di contrapporre al grande capitale la propria organizzazione e il conflitto. Non era più necessario costruire scorte: gli antagonisti non erano più in grado di interrompere i processi produttivi. La delocalizzazione aveva reso evidente che il mondo era pieno di spazi in cui impiantare fabbriche senza sindacato, con abbondanza di lavoratori pagabili poco e fatti lavorare in condizioni inaccettabili in patria. Se in passato il metro era stato Detroit, nei Duemila il modello universale era Shenzhen. E, “risolta” la produzione senza antagonismi operai, la distribuzione dei prodotti doveva essere resa altrettanto sicura ed efficiente.
La finanziarizzazione dell’economia e il comando esercitabile a distanza, resi possibili dall’evoluzione delle tecnologie digitali, permisero di rendere funzionale al progetto che si stava consolidando la struttura della distribuzione: far viaggiare per il mondo sia il denaro, sia le merci. Si mosse rapidamente il grande capitale globale, con le spalle di nuovo coperte dallo strapotere deterrente degli Stati Uniti, dal loro predominio assoluto nella produzione e nel mercato degli armamenti, dalle alleanze politico-militari con l’Europa e nell’Indo-pacifico e dalla presenza di centinaia di proprie basi militari distribuite ovunque.
Ma non fu la “fine della storia”, e neppure il Nuovo ordine mondiale di Bush padre e adesso di Biden. Moody semplifica, scrivendo che il just in time si rivelò progressivamente “troppo rigido”. Tuttavia, non c’è dubbio che il sovraffollamento sulle rotte e nei porti e aeroporti abbia rallentato i tempi delle consegne. E infine, mentre l’espansione cinese irrompeva sui mercati mondiali, vennero di seguito la Grande recessione, la pandemia da SARS-CoV2 e le due nuove guerre in Ucraina e in Palestina (con tutti i corollari di altre guerre marginali, interruzioni nelle forniture di materie prime e sanzioni che alterano la produzione e circolazione delle merci).
Credo però che il punto che più sta a cuore a Moody si trovi nei paragrafi sulla “amazonificazione” della logistica. Amazon punta sempre più sulla capillarizzazione dei propri centri di raccolta e smistamento situati nelle aree metropolitane e sulla celerità delle consegne. In altre parole, tornano le scorte, ma ora sono tutto fuorché immobili: con nuove “identità” e produttrici di inedito profitto nello scarto tra pagamento anticipato e consegna al cliente. Non solo, però: da movimentare prendendo per il collo su tempi e movimenti sia chi lavora alla catena nei magazzini, sia chi fa le consegne (come i camionisti dei percorsi lunghi e i precari al volante dei furgoni per Amazon Flex). Citando John Womack, Moody sottolinea che ogni singolo punto delle grandi reti produttive-commerciali attuali e del reticolo in cui Amazon e simili avvolgono i territori metropolitani può essere “vulnerabile all’azione dei lavoratori”: sia quando sottostante al sistema è il presupposto del just in time globale, cioè la tempestività delle consegne lungo le grandi tratte aeree o navali, sia quando si ricorre di nuovo all’immagazzinamento delle scorte sul territorio, come fa Amazon. L’osservazione sulla attaccabilità delle “reti” non è solo teorica: nel 2023, ci sono stati gli scioperi selettivi nell’auto (che hanno interrotto le forniture ai concessionari e alle altre fabbriche) e di sceneggiatori e attori di Hollywood (che hanno bloccato per mesi la produzione e la commercializzazione di nuove produzioni); le lotte per introdurre il sindacato nelle caffetterie di Starbucks (sull’onda mai spenta di quelle per i 15 dollari orari nei fast food), tra i lavoratori delle grandi potenze antisindacali dello hi-tech e i gig workers dei lavori a chiamata. E forse è per questo che la lungimirante Amazon, che si aspetta la risposta degli sfruttati ed è consapevole della propria possibile vulnerabilità sul terreno, progetta il proprio futuribile nel cielo: le consegne con i droni.
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Il 2 maggio scorso, la statunitense Labor Notes pubblicava un articolo di Kim Moody, uno dei fondatori della rivista e dei più attenti osservatori del mondo del lavoro, intitolato “The End of Lean Production…and What’s Ahead”. Jacobin Italia lo ha tradotto (“Oltre la produzione snella” ) e lo ha messo online l’11 maggio (Oltre la produzione snella – Jacobin Italia) e ci ha concesso l’utilizzo della traduzione da loro pubblicata. La presentiamo qui, corredata dei commenti di Sergio Fontegher Bologna, Bruno Cartosio, Matteo Gaddi, Romeo Orlandi e Marco Veruggio che ne discutono affermazioni e implicazioni da angolazioni diverse. L’insieme verrà pubblicato anche su: www.puntocritico.info
Kim Moody, Oltre la produzione snella
Sergio Fontegher Bologna, La produzione snella e il governo della logistica
Bruno Cartosio, La distribuzione è vulnerabile
Matteo Gaddi, Commento a “Oltre la produzione snella” di Kim Moody
Romeo Orlandi, Note su “Oltre la produzione snella” di Kim Moody