Internazionale,  Lavori,  Numero 5. Giugno-luglio 2022

La catena di fornitura del chip e le nuove politiche europee

In questo articolo vengono presi in esame alcuni aspetti del settore dei semiconduttori sui quali si sta focalizzando sempre più l’attenzione da quando, a causa della mancanza di forniture di tali componenti, parecchie filiere industriali hanno dovuto ridurre o addirittura fermare la loro attività. 

Il tentativo è quello di evidenziare la complessità, tecnica e geografica, dell’intera catena di produzione dei chip; mettere in luce il posizionamento dell’industria italiana in questo settore e, infine, tentare un’analisi delle recenti politiche in materia definite dalla Commissione Europea, dimostrandone l’assoluta inconsistenza. 

La catena di produzione dei semiconduttori

La catena di produzione dei semiconduttori è altamente frammentata, sia dal punto di vista tecnico, che geografico. Vedremo in seguito come sono collocate, a livello internazionale, le diverse fasi/specializzazioni della supply chain complessiva; innanzitutto cerchiamo di ricostruirne i diversi passaggi.

La prima fase è quella della ricerca pre-competitiva, finalizzata a identificare i materiali fondamentali e i processi chimici per introdurre innovazioni nelle architetture di progettazione e nelle tecnologie di produzione che rendono possibili avanzamenti nella capacità di calcolo e nell’efficienza energetica. Si tratta di una fase diversa dalla R&d (Research & development, Ricerca e sviluppo) industriale: in media i tempi entro i quali i risultati di questo tipo di ricerca si traducono in applicazioni commerciali si collocano tra i 10 e i 15 anni. In questa fase il supporto della spesa pubblica è decisivo.

La fase successiva è quella della progettazione del semiconduttore, è un passaggio ad alta intensità di R&d industriale (le aziende investono in questa attività mediamente il 15-20% del loro fatturato): spesso richiede anni di lavoro con larghi team di ingegneri, anche con supporti di progettisti esterni.

La produzione manifatturiera vera e propria si divide in due grandi fasi: quella di produzione del wafer, detta front end, e quella di assemblaggio finale, detta back end, a loro volta articolate al loro interno.

La fase di front end sostanzialmente consiste nello stampaggio di circuiti integrati su una fetta di silicio in modo da realizzare i chip. Il tempo medio per realizzare una fetta stampata raggiunge le 12 settimane, ma in alcuni casi può arrivare anche a 14-20: il processo comprende centinaia di step e l’utilizzo di molti input produttivi quali le fette di silicio, prodotti chimici e gas, nonché complessi impianti e macchinari. Tempi e complessità della produzione dipendono anche dalle caratteristiche del chip e in particolare dai nodi (cioè la misura, in nanometri, delle porte dei transistor nel circuito elettronico); più sono piccoli i nodi, più il chip è potente, in quanto un maggior numero di transistor può essere applicato sullo stesso pezzo.

Il primo passaggio industriale è quello dell’ossidazione e coating: esso consiste nell’applicazione di materiale conducente e di isolamento sulla fetta che viene successivamente ricoperta di fotoresist; il secondo è quello della litografia, che consiste sostanzialmente nello stampaggio dei circuiti integrati tramite maschere dalle quali, tramite luce ultravioletta (Uv), essi vengono trasferiti al fotoresist.

Il passaggio di etching consiste nella rimozione delle aree della fetta non protette dal fotoresist; inoltre viene fatta una pulizia tramite gas o prodotti chimici. Il doping consiste nell’utilizzo di gas ionizzati per modificare le proprietà della fetta introducendo sostanze come boro e arsenico; a questa fase segue un primo processo di controllo, per passare successivamente al cosiddetto “metal deposition” che realizza i collegamenti tra transistor. Dopo un ulteriore test, il processo può passare alla macro fase successiva. 

Si tenga presente che ciascuna delle fasi descritte necessita di impianti specifici, altamente complessi e molto costosi. La fase di front end, infatti, è ad alta intensità di capitale; uno stabilimento di capacità standard richiede mediamente tra i 5 e i 20 miliardi di dollari di investimenti in capitale: questa fase assorbe circa il 63% delle spese in capitale dell’intera catena. Per questo, di solito, le imprese che si occupano di questa fase investono circa il 30-40% del loro fatturato annuo. 

La fase di back end, invece, è molto più labour intensive e per questo motivo viene in genere localizzata dalle grandi imprese del settore nei paesi a basso costo del lavoro. Vedasi il caso di Intel, le cui fabbriche di front end sono localizzate in Usa, Irlanda e Israele; mentre quelle di back end in Costa Rica, Malesia, Vietnam e Cina. Anche l’impresa italo-francese Stm, come vedremo, ha adottato la stessa strategia.

Questa fase comprende le attività di assemblaggio finale, di packaging del chip finito e del test finale. In questo caso la spesa in impianti e macchinari è molto più bassa rispetto alla fase precedente e coinvolge solo il 15% del fatturato.

La catena complessiva, tuttavia, è molto più complessa e coinvolge altre categorie di attori.

Le cosiddette Eda (Electronic design automation) sono società specializzate che forniscono software sofisticati e servizi di supporto alla progettazione. I fornitori di impianti e macchinari costituiscono un pezzo fondamentale della filiera, in quanto la produzione di semiconduttori impiega oltre 50 tipi di macchinari produttivi e di testing: si tratta di impianti per il deposition, processi termici e ossidazione, litografia, fotoresist, rimozione materiali e pulizia, doping, controlli di processo, automazione, testing, assemblaggio.

I macchinari litografici, quelli cioè necessari allo stampaggio dei circuiti integrati, sono i più costosi, ciascuno di essi può raggiungere la cifra di 150 milioni di dollari Ogni impianto è costituito da componenti e subsistemi complessi con specifiche funzionalità: sistemi ottici, di gestione di gas e fluidi, trattamenti termici ecc. Un macchinario litografico, infatti, a sua volta costituisce una catena complessa di fornitura. 

Prendiamo il caso del principale produttore, l’olandese Asml che produce macchine Euv (Extreme ultraviolet): il sistema di pompe a vuoto viene fornito dalla britannica Edwards; il sistema che genera le luci Euv è fornito da Cypress, una affiliata di Asml localizzata negli Usa; il laser viene dalla Trumpf tedesca, così come dalla Germania sono forniti i sistemi ottici Zeiss e i mandrini da un’altra affiliata chiamata Berliner Glass; dal Giappone provengono altri strumenti.

Infine ci sono i fornitori di materie prime che comprendono centinaia di prodotti chimici che possono essere così classificati: polisilicio, fette di silicio, fotomask, fotoresist, prodotti chimici per il trattamento a umido, gas, ecc.

Il modello di business scelto dalle imprese del settore oscilla dalla specializzazione in una singola fase all’integrazione verticale; tuttavia nessun paese al mondo può vantare una piena integrazione verticale. 

Le imprese definite come “manifatturiere integrate” sono Intel, Samsung, Mixron, Texas Instruments, Nxp, Infineon, Sk Hyninx, Kioxia, Analog Devices, St, Renesas: complessivamente nel 2019 avevano il 67% di capacità produttiva e una quota di vendite del 71%. Nonostante queste imprese siano definite “integrate”, esse hanno esternalizzato una parte di produzione (specialmente quella riferita al back end) ad altre imprese, nonché volumi di produzione alle foundry.

La differenza tra capacità produttiva propria e livello complessivo di vendite, infatti, è dovuta alla presenza delle foundry, cioè imprese con stabilimenti che producono, oltre che per vendite in proprio, anche per altri marchi (cioè per le “integrate” e le “fabless”): si tratta di Tsmc, Umc, Samsung, Smic e Global foundries, a cui è riferito il 33% della capacità produttiva e il 29% delle vendite.

È interessante notare che tra le foundry solo Global foundries è una società non asiatica (è statunitense); al contrario tra le “integrate”, oltre ad alcune imprese asiatiche, sono presenti tutti i produttori americani ed europei.

Esistono infine le “fabless design”, imprese di progettazione e R&d, ma senza produzione diretta: Qualcomm, Nvidia, Broadcom, Amd, Mediatek. Esternalizzano completamente la produzione in parte alle foundry e in parte agli assemblatori finali.

Finora abbiamo parlato di nazionalità delle imprese dal punto di vista della loro proprietà e della sede del loro headquarter; ma la collocazione geografica delle varie fasi – a prescindere dalla proprietà – è ben diversa.

Dal punto di vista della ricerca pre-competitiva è molto difficile tentare un sua collocazione geografica, essendo il frutto di progetti spesso internazionali e con frequenti scambi e pubblicazioni comuni a livello mondiale. Possono essere citati i principali istituti di ricerca: Interuniversity MicroElectronics Centre (Imec) con sede in Belgio; Cea-Leti in Francia e Agency for Science, Technology and Research (A*Star) a Singapore.

La distribuzione internazionale delle varie produzioni può essere riassunta nella seguente tabella secondo i dati raccolti dalla Sia (Semiconductor industry association):

Tabella 1: Maggiori produttori mondiali di chip, per tipologie di prodotto (in percentuali)

UsaCinaTaiwanCorea del SudGiapponeEuropaAltri% sul totale
Memory5,00%14,00%11,00%44,00%20,00%2,00%4,00%33,00%
Logic <10nm92,00%8,00%2,00%
Logic 10-22nm43,00%3,00%28,00%5,00%12,00%9,00%8,00%
Logic 28-45nm6,00%19,00%47,00%6,00%5,00%4,00%13,00%9,00%
Logic > 45nm9,00%23,00%31,00%10,00%13,00%6,00%7,00%22,00%
Dao* 19,00%17,00%5,00%27,00%22,00%7,00%26,00%
% su totale13,00%16,00%20,00%19,00%17,00%8,00%7,00%100,00%

*Dao: discrete, analog and other

Come si nota dai dati della tabella, sommando tra loro i paesi asiatici si raggiunge la percentuale complessiva di produzione di semiconduttori pari al 72%. L’Europa si limita a un misero 8%.

In realtà i dati sono ancor più preoccupanti: se tenessimo conto del fatto che la fase di back end è prevalentemente allocata in paesi a basso costo del lavoro le cifre sopra riportate si abbasserebbero ulteriormente sia per l’Europa che per gli Usa in quanto queste due aree ospitano, rispettivamente, solo il 4% ed il 2%.

Vediamo come si posiziona l’Italia nelle produzioni di questo settore analizzando il caso di STMicroelectronics (Stm), cercando di evidenziare quali sono le possibili “strozzature” e fragilità a cui è esposta.

STMicroelectronics

STMicroelectronics (Stm) è un’azienda italo-francese produttrice di chip. Dal punto di vista produttivo Stm dispone di una rete mondiale di impianti di front end (per la lavorazione delle fette di silicio) e di back end (per l’assemblaggio, il collaudo e il packaging). I principali impianti di front end si trovano in Italia ad Agrate Brianza e Catania, in Francia a Crolles, Rousset e Tours e a Singapore; invece la fase di back end – essendo maggiormente labour intensive rispetto alla prima – è interamente collocata in aree extraeuropee con impianti localizzati in Cina, Malesia (dove la settimana lavorativa arriva a 60 ore), Malta, Marocco, Filippine e Singapore.

In Italia Stm occupa 10.772 persone, con una crescita di 991 unità negli ultimi 5 esercizi.

Nel 2020 i ricavi sono stati pari 1.660 milioni di euro (1.843 nel 2019), di cui il 99% derivante da esportazioni: va precisato che, mentre le vendite sul mercato nazionale sono riferite a prodotti finiti, le esportazioni comprendono semilavorati su commessa della consociata STMicroelectronics International NV e rifatturazione di servizi di ricerca.

Larga parte di questa produzione, quindi, costituisce una vendita infragruppo destinata agli stabilimenti di back end, cioè di completamento del semiconduttore; inoltre la parte italiana di Stm ha svolto attività di R&d anche per altri stabilimenti del gruppo.

Complessivamente il gruppo Stm a livello mondiale ha realizzato 10,22 miliardi di dollari di fatturato nel 2020 con risultati estremamente positivi: il margine di profitto lordo si è attestato al 37,1% (in leggero calo rispetto al 38,7% dell’anno prima) e con un utile netto di 1,106 miliardi di dollari.

I dati di bilancio della “parte italiana” di Stm sono molto positivi. Negli ultimi cinque anni, con l’unica eccezione del 2020 dovuta alla pandemia Covid, i dati del valore della produzione sono andati in crescendo (dati in miliardi di euro):

  • 2016: 1,483;
  • 2017: 1,598;
  • 2018: 1,776;
  • 2019: 1,846;
  • 2020: 1,664. 

Il valore aggiunto generato è molto elevato: mediamente negli ultimi cinque anni è stato pari al 49% del valore della produzione, con una punta del 53,3% nel 2020.

L’utile netto realizzato negli ultimi cinque anni, seppur condizionato da poste fiscali, proventi o oneri tanto straordinari quanto finanziari, ha registrato livelli molto elevati, tanto da realizzare la cifra complessiva di oltre 112 milioni di euro.

Nel 2019 e nel 2020 Stm ha realizzato consistenti investimenti, soprattutto nella R&d ritenuta strategica per chi opera in settori caratterizzati da continua innovazione come, appunto, la microelettronica.

Nel 2019 ha investito complessivamente 698 milioni di euro, di cui 418 (il 23% del fatturato) in ricerca e sviluppo e 280 milioni in fabbricati, impianti e macchinari, mentre nel 2020 ha investito 686 milioni, di cui 348 in ricerca e sviluppo (il 21% del fatturato) e 388 in impianti, macchinari e fabbricati.

Nello stabilimento di Agrate sono stati realizzati 185 milioni di investimenti, di cui 125 per la realizzazione del nuovo stabilimento produttivo (“Centro Tecnologico R3” dedicato alle tecnologie Smart Power 300mm); 22,2 per incrementare la capacità produttiva delle fabbriche e per il cambio di mix dei prodotti; 19 per acquistare attrezzature per le linee di produzione esistenti (R2, Ag8, Agm); 14 per attrezzature di testing e laboratori di caratterizzazione e affidabilità; la restante parte per ammodernamento e manutenzione delle facility produttive.

L’investimento sul nuovo stabilimento di Agrate (R3) è sostenuto da finanziamenti pubblici: 23,2 milioni da parte della Commissione Europea e 17,8 dal Mise e dalla Regione Lombardia. In sostanza questo investimento ha portato alla realizzazione di un innovativo impianto per R&d e per la produzione di fette in silicio da 12 pollici o 300 mm. L’investimento stimato per arrivare alla saturazione produttiva con circa 7.000 fette alla settimana complessivamente è di circa 2 miliardi di dollari. 

Nell’ambito di questo investimento Stm Italia ha raggiunto un accordo, sottoscrivendo un contratto, con una società competitor (Tower), per un uso comune dell’impianto che rimane di proprietà Stm: le due società quindi condivideranno gli impianti in modo da saturarli il più possibile allocando in essi gli ordini acquisiti da entrambe. Tower si farà carico delle spese per ciò che concerne la produzione dei dispositivi di sua proprietà e installerà anche proprie attrezzature, mentre il personale impiegato per queste produzioni sarà quasi interamente Stm. 

A Catania invece sono stati investiti 142 milioni di euro, di cui 10,5 per realizzare il nuovo fabbricato che ospita la produzione di carburo di silicio (SiC); 49 per lo sviluppo di nuove tecnologie in SiC, 26 milioni per quelle in nitruro di gallio (GaN); 8 per espandere la capacità produttiva e per il cambio di mix dei prodotti; 12 per l’ammodernamento degli impianti di testing e laboratori di caratterizzazione e affidabilità; 10 per l’ammodernamento e la manutenzione delle facility. Per il sito di Catania sono in corso gli investimenti previsti dal Contratto di Sviluppo M9 che prevede un contributo pubblico di 18,5 milioni di euro.

Nel sito di Castelletto (a Cornaredo, nell’hinterland milanese) sono stati realizzati investimenti per 9 milioni di euro, per l’acquisto di attrezzature di testing e affidabilità e per i laboratori di qualità, caratterizzazione e features analysis.

Cosa produce Stm

Stm produce semiconduttori per diversi campi di applicazione. Si tratta, per esempio, di prodotti destinati alla mobilità intelligente (smart mobility) in grado di sostenere l’elettrificazione e la digitalizzazione dell’automotive e per soluzioni Adas di assistenza alla guida. Altri settori sono costituiti dai prodotti per la gestione della potenza e dell’energia (Energy & power), dalle tecnologie per l’Internet of things e il settore delle comunicazioni (5G), da applicazioni per sistemi portatili e indossabili, da soluzioni per smart home, smart city e industria 4.0, da piattaforme di sensing inerziale (accelerometri, giroscopi, magnetometri), attuatori/micromirror, di sensing ambientale (pressione, temperature, umidità, gas), e di tracciamento (gps/gnss).

I prodotti Stm hanno un vasto campo di applicazione, sia su hardware che su software, in settori quali, appunto, l’automotive, l’elettronica di consumo, l’Iot, le comunicazioni, la medicina; i sistemi energetici; cioè settori che costituiranno le aree di maggiore espansione per il mercato dei semiconduttori. Per coprire questo vasto campo di applicazioni l’attività di Stm abbraccia diverse tecnologie: quelle di potenza verticalmente integrate per smart power, Microelectromechanical systems (Mems) per sensori e micro-attuatori, silicio, SiC e GaN per sistemi ad alta efficienza, memorie non volatili per microcontrollori e microprocessori.

Stm sta investendo sul settore dell’auto in quanto i tre principali trend di trasformazione (elettrificazione, guida autonoma e connettività) necessitano di piattaforme elettroniche tecnologicamente avanzate in grado di funzionare come super computer per gestire i diversi sensori, raccogliere ed elaborare dati provenienti da diverse fonti (radar, telecamere, mappe, Internet), eseguire algoritmi di intelligenza artificiale per l’assistenza alla guida, abilitare la comunicazione tra veicoli e tra questi e le reti infrastrutturali, gestire i consumi della batteria ecc.

Nonostante il fatto che Stm nell’automotive sia abbastanza impegnata, questo settore non è il suo mercato di riferimento: anche a fronte di pressioni del settore per dare priorità a questa produzione il commento dell’amministratore delegato è stato quello di confermare la quota del 10% del totale delle produzioni Stm per questo ambito. Quindi anche se l’automotive non costituisce la parte dominante essa è comunque importante e lo diventerà ancora più, perché Stm sta investendo sul SiC, tanto che ha acquisito una azienda che produce substrati per risolvere i problemi di realizzazione della fetta per la nuova tecnologia SiC.

Questo interesse di Stm ha trovato anche risposta nel Pnrr che prevede finanziamenti per completare lo stabilimento di SiC a Catania, così come sta avanzando la sperimentazione sul GaN, anch’esso legato all’elettronica dell’auto.

La strategia di Stm è quella di focalizzarsi sui settori dove ha le maggiori competenze ed esperienze e nei mercati in cui è leader, in particolare sui prodotti in grado di gestire elevati volumi di corrente e tensioni elevate, l’ambito dell’imaging (telecamere e dispositivi per autofocus), i Mems (microattuazione, sensoristica varia).

In alcuni ambiti Stm cerca di essere leader, mentre su altri ha un atteggiamento più prudente, come nel caso della telefonia. Questo settore, infatti, è caratterizzato da altissimi volumi di produzione da realizzare in poco tempo: si tratta di volumi in grado di saturare completamente le linee di produzione per alcuni mesi, ma a fronte di crisi di mercato o aziendali Stm potrebbe andare in seria difficoltà. In questo senso ha pesato la precedente esperienza con Nokia con la quale Stm aveva il 20-30% del proprio business prima dell’avvento degli smartphone. Stm stava infatti progettando i dispositivi per le telecamere e l’autofocus, ma quando Nokia mancò l’appuntamento con gli smartphone ne derivò una crisi che comportò la rottura della produzione congiunta Stm-Ericsson, la separazione e la chiusura di capacità produttive. Se in Francia si è consumata la triste vicenda ST-Ericsson bisogna ricordare anche l’operazione Numonyx/Micron, il cui ultimo atto si è consumato nel 2014 e ha visto la concreta uscita di Stm dal mondo delle memorie con la perdita di competenze altamente qualificate, specializzate sui nodi tecnologici avanzati come le Pcm; è avvenuta inoltre la cessione di know how a Micron e la fuoriuscita di circa mille dipendenti da Agrate. 

Nella telefonia, come in genere quando si lavora con gli Oem (Original equipment manufacturer, i produttori di apparecchiature originali) di qualsiasi settore, esiste un ulteriore elemento di vincolo: Stm infatti deve progettare il semiconduttore a fronte di una gara svolta dai costruttori Oem di telefoni cellulari. Tale progettazione viene discussa e verificata con il cliente, e una volta approvata da questo si procede con l’industrializzazione e la produzione. Ovviamente la progettazione (e la produzione) del device devono essere “tagliate su misura” per il prodotto del cliente rispettando le sue specifiche tecniche e funzionali. In sostanza, quel tipo di semiconduttore verrà acquistato solo da quel cliente per quel particolare utilizzo, non trattandosi di una commodity (la stessa cosa avviene nell’automotive, per esempio con i fornitori di primo livello come Bosch, Continental ecc., ma sempre più con i costruttori di auto).

Un vincolo di questo tipo, che comporta ingenti investimenti in R&d, progettazione, industrializzazione e capacità produttiva, viene compensato da Stm tramite una strategia che mantiene un forte business di prodotti “a catalogo”, che ormai si colloca tra il 30 e il 40% del business complessivo.

Per esempio i microcontrollori (integrati da funzioni logiche e Cpu) sono pensati per un mercato più generale; si tratta, quindi, di una parte più standard, che può essere acquistata a catalogo e si presta per gli utilizzi più disparati che vanno dall’elettronica di consumo all’automazione.

Ovviamente anche in questo caso non mancano aspetti critici: mentre una produzione svolta su incarico di un Oem prevede anche un prezzo di vendita concordato, in questo caso la concorrenza viene giocata tutta sul prezzo con le altre imprese produttrici di questi semiconduttori più “commodizzati”.

Ecco perché vengono mantenute comunque produzioni legate a commesse o specifici clienti, meglio se di “nicchia” dal punto di vista tecnologico. Per esempio uno dei business più importanti è quello dei contatori di corrente nei quali viene inserito un chip che consente al gestore elettrico di fatturare i consumi; di questi ne vengono venduti molti a Enel e ad altri gestori internazionali (come in Spagna): in questi casi la strategia perseguita è quella della “nicchia”.

In sostanza, quindi, la strategia industriale e commerciale di Stm sembra focalizzata su tre direttrici: la produzione “a catalogo”, la produzione con contratti di fornitura siglati con Oem di prodotti finiti di consumo, la produzione in particolari “nicchie” tecnologiche, cercando un equilibrio tra questi tre approcci e avendo come comun denominatore la garanzia di una massima flessibilità.

Per Stm il tema del contenimento dei costi in chiave concorrenziale si sposa anche con una capacità produttiva che non è ad altissimo livello: per questo la produzione di alcuni materiali elettronici di Stm (circa il 10-15% dei prodotti in silicio) viene demandata a soggetti esterni come Samsung e Tsmc che producono per conto di Stm .

Al tempo stesso, per fronteggiare la grande richiesta del mercato e incrementare la propria capacità produttiva le imprese dei semiconduttori stanno cominciando a realizzare investimenti congiunti: è proprio il caso – come visto – di Stm che, per l’investimento nello stabilimento di Agrate per la produzione a 300mm ha coinvolto la Tower. In questo modo, da una parte entrambe le imprese hanno incrementato la loro capacità produttiva, e dall’altra cercano di garantire la massima saturazione degli impianti produttivi: si tratta di un tipico accordo da shortage (carenza) di chip. D’altronde i numeri di cui parliamo sono impressionanti: il piano di investimenti complessivo annunciato dall’azienda comporta tra 3,4 e 3,6 miliardi di euro per espandere la capacità produttiva, di questi 2 sono dedicati alla capacità produttiva degli stabilimenti di Agrate e di Crolles (un sito francese dove si producono telecamere per telefoni e apparati autofocus). Questi investimenti si rendono necessari per aggiungere capacità produttiva a fronte del fatto che le fabbriche funzionano già al 100%.

In Italia il volume di produzione industriale di Stm sul totale del gruppo non è particolarmente elevato. La capacità produttiva di Agrate e Catania insieme equivale a quella di una singola fabbrica di Singapore, e rappresenta l’intera capacità produttiva del gruppo in Italia.

Gli stabilimenti italiani e francesi, come anticipato, si limitano alla fase di produzione di front end, delegando all’esterno il completamento della fase di back end. Ma non solo, anche la fase di front end, per circa il 50%, viene svolta nei paesi asiatici.

L’organizzazione della produzione in Stm

Nei siti di Castelletto (Milano), Agrate (Brianza) e Catania si svolge la progettazione di Stm che comprende lo sviluppo delle funzioni del chip e la definizione di ipotesi delle modalità del suo funzionamento.

La rete produttiva è molto complessa e dipende dalla fornitura di un elevato numero di materiali, determinando una catena molto ampia e geograficamente frammentata. Di seguito vengono indicati i principali fornitori evidenziandone la nazionalità: trattandosi nella maggior parte dei casi di società multinazionali la loro presenza produttiva è distribuita a livello mondiale.

Tabella 2: Fornitori di materiali di Stm per il Front End – indicazione della nazionalità

MaterialeFornitore 
Wafer di silicioGlobalWafers (Taiwan)Sumco (Giappone)Siltronic (Germania)
PhotomaskDnp (Giappone)
PhotoresistDow (Usa)Evg (Austria) Honeywell (Usa)Hexcel (Usa)3M (Usa)
Prodotti chimici utilizzati nelle fasi di etching e pulizia (solventi, acidi, etchants, decapanti ecc.)Air Liquide (Francia)Sapio (Italia)DuPont (Usa)
Gas (per proteggere i wafer dall’esposizione in atmosfera, dopanti, etchants, chemical vapor deposition)Air Liquide (Francia)Sapio (Italia)DuPont (Usa)

Dal punto di vista della produzione dello stabilimento di Agrate, la seguente tabella fornisce una sintesi per linee produttive e tipologie di prodotti.

Tabella 3: Stabilimento di Agrate – Linee produttive

Nome LineaProdotti realizzatiVolumi realizzati 
Ct6 SiCIgbt/discreti/High Voltage4.300 wafer/settimana (6”)
Ct8Bcd/low power11.000 wafer/settimana (8”) 
Ag200Bcd8.100 wafer/settimana (8”) 
AgMemsSensori inerziali/pressure/mirrors5.000 wafer/settimana
Ag300Asic/Smart power5.000 wfs/settimana 12 pollici(*)

(*) investimenti in corso 

Presso lo stabilimento produttivo di Agrate arrivano le fette di silicio fornite da produttori esterni che vengono lavorate tramite macchinari che stampano gli strati necessari al funzionamento del device. Ormai la produzione si è spostata sulla misura del 12 pollici in quanto questa dimensione consente di estrarre il maggior numero possibile di chip per fetta e di sfruttare così in pieno il funzionamento di macchinari dal costo elevatissimo, che oscilla tra i 100 e i 140 milioni di euro ciascuno, e che su uno stesso lotto lavorano per lunghi periodi di tempo, anche di due-tre mesi. I passaggi del front end, infatti, sono molto numerosi e complessi e prevedono continui interventi di ossidazione, di stampaggio del circuito tramite mascheratura, rimozione dell’ossido e della mascheratura, per poi ripartire con una altro step simile nei vari passaggi. 

Complessivamente si tratta mediamente di 40-50 step, ciascuno dei quali comporta più passaggi, e per ognuno di questi viene impiegata una maschera diversa a seconda dello stampaggio e dello strato. Ai passaggi di stampaggio si aggiungono quelli di carattere chimico realizzati tramite impianti che mediante ioni cambiano la resistitività del materiale (si tratta di macchinari impiantatori elettronici).

Infine la fetta viene testata: questo significa che ogni singolo chip presente sulla fetta viene controllato dal punto di vista del corretto funzionamento in modo da segnalare quelli inutilizzabili. Questa fase di test, ancorché il chip non sia completo, è fondamentale perché avviene sulla parte elettronica, cioè quella parte che successivamente sarà irraggiungibile in quanto gli ultimi step di questa fase inseriscono le passivazioni che servono per incapsulare il circuito “vivo”: la fetta finita, infatti, viene “passivata” con materiali utili a evitare che entrino aria, impurità ecc.

Una volta selezionati i chip “buoni” può cominciare la fase di back end, che implica meno investimenti in capitale fisso e consiste nel completamento del semiconduttore mediante il taglio delle fette, l’inserimento di un frame di rame nella parte sottostante e il collegamento della parte interna con la scheda elettronica mediante cavi (in oro, rame, platino, argento) ed infine incapsulato in resina, plastica o ceramica (a seconda dell’utilizzo che ne viene fatto: per esempio se il chip deve resistere ad alte temperature ovicino a un motore a 170 gradi, è necessario un packaging con materiali resistenti). In questo modo viene completato il device che può essere montato su schede elettroniche.

Il pezzo viene controllato di nuovo testandone il funzionamento.

La fase di back end non si svolge negli stabilimenti italiani, ma in quelli collocati all’estero per sfruttare condizioni di lavoro più vantaggiose per l’impresa: salari più bassi e orari di lavoro settimanali più lunghi.

Il lavoro di questi operatori è molto più semplice e sostanzialmente limitato al carico/scarico delle macchine e alla loro sorveglianza, manutenzione e ripristino. Anche ad Agrate l’organizzazione del lavoro prevede un forte asservimento dell’operatore alla macchina con i flussi di processi dettati dall’infrastruttura informatica WorkStream (che indica anche quali programmi di lavoro devono essere attivati in macchina), ma la presenza di una R&d molto industriale comporta un maggior intervento sui programmi e un’interazione maggiore con la parte ingegneristica.

Per questo la forza lavoro di Stm è molto sbilanciata: mentre Francia e Italia, su circa 50mila dipendenti del gruppo ne contano circa 10.000 ciascuna, il resto è collocato in altri Paesi (Malta, Malesia, Filippine, Marocco, Singapore, Cina).

La produzione stessa in capo a Stm costituisce una supply chain che si allarga a tutto il mondo. A questa si devono aggiungere gli elementi a monte della supply chain: i materiali che entrano negli stabilimenti Stm sono migliaia, con migliaia di fornitori che forniscono resist, gas, prodotti chimici, silicio ecc. come visto in precedenza.

A questi si devono aggiungere i fornitori di macchinari.

Tabella 4: Fornitori di impianti di Stm 

Macchinario di processoFornitore 
Macchinari per DepositionAmat, Lam (novellus)/ Veeco
Macchinari per Rtp and oxidation diffusionTem/Asm/Kokusai/Lpe
Macchinari per LithographyAsml/Tel/Canon
Macchinari per Photoresist processingAsml/Tel/Canon
Macchinari per Material remove and cleaningLam/Tel/Screen/Avg/Amec/Spts
Macchinari per DopingAxcelis
Macchinari per Process control (metrology and inspection)Kla

Sia per i materiali che per i macchinari diversi punti sono qualificabili come “colli di bottiglia” in quanto esistono pochissimi produttori, che concentrano produzione e fornitura. Per circa il 70% dei materiali esiste un solo fornitore (in grado di garantire i volumi necessari), per cui una crisi di questo o un suo diverso orientamento di mercato possono interrompere l’intera catena dei chip di Stm.

Nel caso dei macchinari la situazione è ancora più critica: per esempio esiste un solo produttore di macchine litografiche in grado di lavorare sotto i 10nm, l’olandese Aslm (si tratta di macchinari il cui costo arriva anche a 140 milioni di euro).

Essendo la produzione di semiconduttori altamente automatizzata e macchinizzata, le ricadute occupazionali di investimenti anche molto rilevanti sono assai contenute.

La nuova grande ondata di investimenti è finalizzata a incrementare la capacità produttiva anche passando alla nuova tecnologia dei 300mm che consente di ricavare un numero di gran lunga superiore di chip da ogni singola fetta di silicio, migliorandone anche la qualità in quanto aumenta il numero di essi lontano dal bordo della fetta (e quindi di qualità migliore). Quindi sui 12 pollici (o 300mm) vengono prodotte le memorie (per esempio quelle per i cellulari): si tratta di una scelta implementata da tempo da Samsung e che consente una redditività altissima. Stm è arrivata in ritardo a questa tecnologia perché aveva interesse a una produzione più mirata e ridotta, difficilmente produceva miliardi di pezzi avendo produzioni più piccole e customizzate. Adesso anche Stm si è orientata in questa direzione, il che ha comportato il volume di investimenti prima descritto. Ogni investimento di questo settore deve tener conto che una saturazione degli impianti inferiore all’80% della capacità produttiva comporta una produzione in perdita. Deriva anche da questo la prudenza di Stm ad avventurarsi nella nuova tecnologia dei nodi inferiori a 10nm (utilizzabili solo per 5G e alcuni modelli di telefoni) perché comportano investimenti colossali per volumi di produzione altissimi: si tratta invece di una strategia che giganti come Samsung e Tsmc stanno perseguendo con l’installazione di giga factory. La specializzazione produttiva europea, invece, è molto diversa.

Quanto alla supply chain, è molto complessa, frammentata sul piano tecnico e geografico, con colli di bottiglia e pochi fornitori, quindi è una catena molto fragile. Al di là delle considerazioni sui volumi produttivi, anche volendo fare grandi investimenti ci sono tempi di attesa molto importanti, soprattutto per ottenere tutti i macchinari di processo e successivamente per la progettazione e industrializzazione del prodotto: mediamente un investimento entra in produzione di massa in un periodo vicino ai 3 anni.

Le strategie delle imprese del settore sono orientate a nuovi e rilevanti investimenti, ma ogni intervento in questa direzione avrà bisogno di macchinari che sono realizzati da un piccolo numero di imprese (l’olandese Aslm, alcune aziende americane, giapponesi e cinesi – un problema rilevante per la Cina, che quasi non ha produttori di macchine che deve comprare dall’estero).

Insomma, la dipendenza di Stm da altre aree geografiche, sia per la fornitura di materiali e macchinari, sia per il completamento del processo produttivo, appare piuttosto marcata.

L’Europa cosa fa?

Lo shortage di semiconduttori, indice della necessità di nuova capacità produttiva, e la complessità e la fragilità di questa catena produttiva dovrebbero suggerire la necessità di forti politiche industriali per ovviare alle criticità. 

La Commissione Europea ha fatto dichiarazioni roboanti lanciando il cosiddetto “Chips act”, ma i contenuti concreti appaiono piuttosto modesti.

Innanzitutto sul piano finanziario l’impegno appare assai modesto. Nella Comunicazione della Commissione si parla genericamente di un livello generale di investimenti a supporto del Chips act di 43 miliardi fino al 2030 (però, attenzione, il bilancio europeo ha validità 2021-2027) e il livello di investimenti pubblici include 11 miliardi previsti per l’Iniziativa per finanziare la leadership tecnologica in ricerca, progettazione, e capacità produttiva fino al 2030.

Queste cifre non sono affatto fondate: l’unico impegno certo e indicato come coperto attraverso diversi capitoli del bilancio europeo è pari ad appena 3,3 miliardi di euro da qui al 2027.

Questi 3,3 miliardi di euro impallidiscono di fronte al fatto che il Chips act degli Usa stanzia 52 miliardi di dollari per finanziare spese in R&d e produzione manifatturiera fino al 2026 mentre si stima che la Cina investirà 150 miliardi di dollari entro il 2025 nell’ambito del piano “Made in China 2025”. Anche il Giappone farà meglio dell’Europa con 8 miliardi di dollari di finanziamenti pubblici. La Corea del Sud addirittura prevede politiche fiscali a sostegno della produzione interna di semiconduttori che raggiungeranno, entro il 2030, la cifra monstre di 450 miliardi di dollari.

Il “Chips act” si compone di diversi documenti, tra cui la Comunicazione della Commissione Europea in cui si tratteggiano gli assi dell’intervento comunitario.

Tale Comunicazione prende le mosse dal fenomeno di carenza (shortage) di semiconduttori e di crescita della domanda di questi dispositivi indotta dall’incremento dei prodotti dell’elettronica (esplosi durante la pandemia per lo smart working, la didattica a distanza, una maggiore fruizione di contenuti digitali e audiovisivi da parte delle famiglie) e ulteriormente trainata da altri settori, come la diffusione della mobilità elettrica, autonoma e connessa, i previsti investimenti nelle Tlc, nell’Intelligenza artificiale, nell’Edge computing, nella digitalizzazione dell’automazione, dell’agricoltura, delle infrastrutture energetiche e delle cure mediche ecc.

La posizione dell’Europa viene analizzata da diversi punti di vista: sul versante della R&d viene sottolineata la presenza di importanti Rto (Research and technology organisation), università e altri istituti di ricerca; così come viene richiamato il buon posizionamento di imprese europee produttrici sia di materiali (prodotti chimici, gas ecc.; ma è al tempo stesso forte la dipendenza estera da fotoresist e silicon metal) che di impianti/macchinari.

Sul fronte della produzione manifatturiera, invece, viene riconosciuta la debolezza europea riportando il dato di una quota del 10% sul totale mondiale, in netto calo rispetto al 20% degli anni novanta. Viene esplicitamente menzionato il fatto che tale calo è da imputarsi anche alla decisione di delocalizzare in Asia crescenti volumi di produzione per sfruttare i più bassi costi di produzione.

A fronte di questo dato l’obiettivo dichiarato dalla Commissione è quello di raddoppiare la quota europea nella produzione di semiconduttori al 20% entro il 2030: ma attenzione, non si tratterebbe di un mero raddoppio dell’attuale capacità produttiva, ma di un salto ben più rilevante a fronte del fatto che nei prossimi anni, come ampiamente descritto, il mercato dei chip è previsto in crescita.

Quindi si parla di un significativo incremento di capacità produttiva.

Il problema è che non si capisce come la Commissione Europea possa credibilmente perseguire questo obiettivo a fronte delle decisioni prese nell’ambito di questo pacchetto.

Le scelte sono infatti demandate a una Proposta di regolazione inviata a Consiglio e Parlamento Europeo per “Stabilire un quadro di misure di rafforzamento dell’ecosistema dei semiconduttori in Europa”.

In questo documento si parla – come primo asse – della «Chip for Europe initiative», la quale si propone di sostenere su larga scala la capacità tecnologica, per rendere possibile lo sviluppo e la diffusione di semiconduttori di nuova generazione e le tecnologie quantum che rafforzeranno gli skills e le capabilities nella produzione di chip, nell’integrazione dei sistemi e nella progettazione avanzata.

In questa frase, tradotta quasi letteralmente dal testo della Proposta della Commissione, si svela il concreto intervento comunitario. Non verrà sostenuta la realizzazione di capacità produttiva (cioè impianti, stabilimenti: in una parola la produzione manifatturiera), ma come al solito ci si limiterà alle politiche industriali di tipo “orizzontale” che si limitano, tramite R&d, innovazione ecc., a creare l’ambiente migliore per le imprese, lasciando a queste ultime le vere e concrete decisioni produttive.

Il secondo asse, infatti, prevede la creazione di un quadro per assicurare la fornitura di chip attraendo investimenti (privati, ovviamente) per rafforzare la capacità produttiva europea nei semiconduttori.

Il terzo asse prevede la definizione di un meccanismo di coordinamento tra stati membri e Commissione per rafforzare la collaborazione, monitorare la supply chain dei semiconduttori, stimare la domanda, anticipare gli shortage, attivare meccanismi per fronteggiare le crisi e definire una cassetta degli attrezzi di misure.

Insomma molto poco a che fare con l’industria; e infatti i due obiettivi chiaramente stabiliti nella Proposta sono: a) assicurare le condizioni per la competitività e la capacità di innovazione dell’Unione e assicurare l’adeguamento (adjustment: termine del Trattato Europeo) della struttura industriale ai cambiamenti strutturali; b) migliorare il funzionamento del Mercato unico definendo un quadro legale uniforme per la Ue per aumentare la resilienza e la sicurezza nella fornitura di semiconduttori.

Insomma: il solito e tipico quadro di riferimento neoliberale.

Ma andiamo con ordine.

Questa “Iniziativa” – primo asse – si compone di diversi interventi, di cui 5 sono chiaramente elencati e per i quali sono previsti complessivamente 3,3 miliardi di euro.

Il primo consiste nella creazione di una piattaforma virtuale di progettazione europea per i semiconduttori in grado di connettere le imprese di progettazione, Pmi e start up, fornitori di strumenti di progettazione e di proprietà intellettuale, Rto. Questa piattaforma virtuale dovrebbe integrare le strutture di progettazione (esistenti e nuove) con le libraries e gli strumenti Eda; rafforzare la capacità di progettazione con continui sviluppi innovativi come le architetture di processori; allargare l’ecosistema dei semiconduttori.

Il secondo dovrebbe sostenere lo sviluppo e l’accesso a linee pilota, in modo da fornire all’industria dei semiconduttori un’infrastruttura per testare, sperimentare e validare le tecnologie dei chip e i nuovi concept di progettazione.

Questo intervento viene ritenuto necessario per affrontare i fallimenti del mercato, per rafforzare le capabilities (termine tanto ricorrente quanto irritante) tecnologiche nella produzione della nuova generazione di chip integrando attività di ricerca e innovazione e preparando lo sviluppo dei futuri nodi; e sostenendo su larga scala l’innovazione attraverso l’accesso a queste linee pilota. Le linee pilota sono definite come un progetto sperimentale in modo da rendere disponibile una infrastruttura necessaria a testare, dimostrare e calibrare un prodotto o un sistema rispetto a un sistema di ipotesi. Il loro utilizzo sarà aperto a soggetti terzi in termini trasparenti e non discriminatori.

Quindi, il settore pubblico si farebbe carico di un investimento che il privato non farebbe in quanto estremamente costoso e dalla redditività incerta.

Il terzo obiettivo consiste nel costruire capacità ingegneristiche e tecnologiche per accelerare lo sviluppo dei chip quantum, nella forma di libraries per la progettazione di questi semiconduttori, linee pilota e infrastrutture di sperimentazione e testing.

Il quarto prevede di creare un network di “Competence Centres” in Europa per offrire expertise agli stakeholder, inclusi le Pmi utilizzatrici e le start up, facilitando l’accesso e l’uso delle infrastrutture di progettazione e sperimentazione sopra descritte. Ovviamente non può mancare un riferimento alle skills: questi centri, quindi, dovrebbero attrarre e mobilitare nuovi talenti e sostenere una forza lavoro “skilled” anche con la riqualificazione o l’ulteriore qualificazione dei lavoratori.

Infine, quinto obiettivo dell’Iniziativa è la costituzione di un “Chip Fund” per garantire finanziamenti a debito o in equity in stretta cooperazione con l’Investment bank group o altri partner come le banche di promozione nazionale (in Italia, Cassa depositi e prestiti) e altre istituzioni. Questo fondo dovrebbe fornire finanziamenti per sostenere lo sviluppo dell’ecosistema dei semiconduttori in Europa, alle Pmi e alle start up, ma anche a tutte le altre imprese della catena.

Al di là dei cinque obiettivi tecnici (seppur molto aleatori), quello politico rivela ancora una volta l’impianto neoliberale delle politiche industriali comunitarie: questa Iniziativa, infatti, si propone di risolvere i “fallimenti del mercato” e la situazione di investimenti “sub-ottimali” in maniera proporzionata; le sue azioni, infatti, non dovrebbero replicare o spiazzare le iniziative private né introdurre distorsioni nel mercato unico. 

Quindi non si parla di investimenti pubblici per realizzare, anche tramite società miste pubblico-private, stabilimenti produttivi, ma di rafforzare la “production capability”, cioè l’output potenziale di una infrastruttura manifatturiera di semiconduttori in condizioni di risorse ottimali. Tipico approccio da politiche neoliberali.

Per implementare le azioni di questa Iniziativa viene prevista l’istituzione di due soggetti: un consorzio chiamato European chips infrastructure consortium (Ecic) e una Impresa comune (Chips joint undertaking).

Il Consorzio viene configurato come un soggetto pubblico-privato costituito sia da stati membri che da entità private. Esso viene previsto per semplificare e strutturare le relazioni tra i membri del Consorzio pubblico-privato (che si affianca a una struttura simile – già istituita – per la strategia digitale: European digital infrastructure consortium). Inoltre dovrebbe coordinare e combinare i finanziamenti degli stati membri, quelli del bilancio della Ue e quelli privati per implementare le azioni dell’Iniziativa. Ovviamente, viene sottolineato, senza pregiudicare la normativa in materia di aiuti di stato.

La Chips joint undertaking invece è il braccio operativo per realizzare l’Iniziativa europea sui chip: si tratta di una “Impresa Comune”, uno strumento previsto dall’articolo 187 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea che prevede la possibilità di istituire tali strumenti per la “migliore esecuzione dei programmi di ricerca, sviluppo tecnologico e dimostrazione dell’Unione”. Nell’articolo 187 del Tfue, quindi, è radicato il principale limite di questi strumenti: il fatto di limitarsi, concretamente, alle sole attività di R&d senza, o quasi, possibilità di effettuare investimenti industriali e quindi attività di produzione vera e propria.

Il secondo macro intervento dell’Iniziativa prevede la creazione di un quadro in grado di garantire la sicurezza della catena dei semiconduttori. Questo dovrebbe avvenire attraendo investimenti, rafforzando la capacità produttiva tanto nel front quanto nel back end. 

Questo obiettivo, assai ambizioso e sostanzialmente condivisibile, viene però svuotato di significati concreti, in quanto limitato alla realizzazione di Integrated production facilities (cioè impianti di produzione) e di Open Eu foundries (cioè impianti di produzione aperti a diversi utilizzatori) ma, attenzione, di tipo first-of-a-kind. Cosa significa? che potranno essere realizzati, per intervento comunitario, soltanto impianti di produzione che non siano già presenti, come tipologia, o già previsti in costruzione nei paesi dell’Unione. In sostanza dovranno essere soltanto impianti “nuovi” dal punto di vista tecnologico; cioè dal punto di vista delle tecnologie dei nodi (quindi quelli inferiori ai 10nm); dei materiali di substrato utilizzati (come SiC e GaN) e di altri aspetti innovativi sui processi, le performance energetiche ed ambientali ecc. 

Ma in Europa il tema non è quello di sostenere la realizzazione di impianti first-of-a-kind, che in sostanza costituiscono impianti all’avanguardia tecnologica, soprattutto dal punto di vista del prodotto che riescono a realizzare: la misura inferiore ai 10nm, infatti, indica impianti di nuovissima generazione, in grado di realizzare una tecnologia indubbiamente avanzata, forse persino troppo avanzata rispetto alle esigenze delle filiere manifatturiere. 

Il tema, invece, è quello di installare capacità produttiva per fronteggiare, da una parte la crescente richiesta di semiconduttori da parte di un ventaglio sempre più ampio di settori industriali, dall’altra quello di ridurre la dipendenza di questa fornitura da altre aree del mondo. In sintesi: più che di impianti tecnologicamente super-avanzati, in Europa c’è bisogno di impianti con capacità produttiva adeguata a quelli che sono i volumi richiesti. Gli investimenti in capacità produttiva, infatti, sono assai onerosi e comportano tempi di realizzazione piuttosto elevati: una decisione di investimento assunta oggi può, ottimisticamente, determinare produzione vera e propria in non meno di due-tre anni. Se in Europa non si decide adesso di ampliare la capacità produttiva, altre aree del mondo si attrezzeranno per coprire le esigenze di chip dell’industria europea. Per dirla con uno slogan, in questo momento servirebbe meno attenzione all’innovazione super avanzata per dedicarne di più alla produzione.

Le Integrated production facilities sono infrastrutture manifatturiere sia di front che back end che dovrebbero garantire la sicurezza della fornitura di semiconduttori per il mercato interno; mentre le Eu open foundries, anch’esse di front e back end, dovrebbero offrire capacità produttiva alle imprese contribuendo anch’esse alla sicurezza della supply chain.

La decisione di sostenere investimenti di questo tipo verrà presa dalla Commissione, a seguito di una richiesta presentata da un’impresa o da un consorzio di imprese. L’iniziativa e la decisione di investimento, quindi, viene ancora una volta rimessa alle sole imprese private, senza alcun ruolo pubblico, se non quello di finanziatore e di facilitatore di queste opere, che verrebbero qualificate come di “pubblico interesse” (ma in mani private). Gli stati membri, infatti, potranno applicare schemi di supporto finanziario e amministrativo – cioè concedere finanziamenti pubblici e stabilire procedure accelerate di autorizzazione ai nuovi investimenti – così come, presumibilmente, la raccolta di risorse finanziarie – anche di origine comunitaria (eurobond o strumenti simili?) da parte del Consorzio dovrebbe anch’essa contribuire. 

Entrambi questi tipi di impianti avrebbero la priorità di accesso alle linee pilota descritte nel punto precedente.

Come detto il terzo asse prevede la definizione di un meccanismo di coordinamento tra stati membri e Commissione al fine di prevenire e affrontare possibili situazioni di crisi di fornitura. Questo meccanismo dovrebbe innanzitutto funzionare in termini di monitoraggio e allerta.

Il monitoraggio deve riguardare gli indicatori di allerta e la disponibilità o meno di prodotti e servizi dell’ecosistema dei semiconduttori. Queste informazioni – fornite agli Stati Membri in particolare dalle organizzazioni industriali e dai principali utilizzatori di chip – devono essere poi trasmesse al costituendo European semiconductor board e alla Commissione. I segnali di allerta riguardano tutti gli anelli della catena necessari alla produzione di chip, comprese materie prime, prodotti intermedi, macchinari/impianti e persino lo “human capital”. Così come sono indicati, tra i temi da monitorare e quali possibili segnali di allarme, la domanda prevista di semiconduttori a livello Ue e globale, innalzamenti eccessivi dei prezzi, l’effetto di eventi straordinari (disastri naturali, attacchi ecc.), misure commerciali, tariffe e restrizioni all’export, chiusure di aziende e delocalizzazioni ecc.

La situazione di crisi viene definita come una grave interruzione (“serious disruption”) della catena dei semiconduttori che conduce a una significativa riduzione dell’offerta che a sua volta comporta significativi ritardi ed effetti negativi in uno o più settori economici dell’Unione; o, in alternativa quando avviene una seria interruzione della catena che impedisca la fornitura, la riparazione e la manutenzione di prodotti essenziali utilizzati da settori critici, per esempio macchinari medici e di diagnosi. 

Le informazioni su possibili stati di crisi della supply chain dei semiconduttori sono necessarie per attivare lo stato di crisi e per implementare le azioni necessarie.

Tra queste figurano il coordinamento di forme di acquisto congiunto, o l’imposizione, se necessario e proporzionato, alle Integrated production facilities e alle Open Eu foundries di dare la priorità a ordini di produzione di chip destinati a prodotti critici. La Commissione dovrebbe agire come centrale di acquisto per gli stati membri su loro mandato. Possono anche essere introdotte misure di controllo alle esportazioni. L’obbligo di dare priorità nelle forniture di chip ai settori critici potrebbe essere esteso anche alle imprese private che hanno accettato tale obbligo nel momento in cui hanno ricevuto finanziamenti pubblici.

Quest’ultimo aspetto, che finalmente avrebbe potuto significare l’introduzione di forme di potere pubblico nei confronti delle imprese private in un settore così delicato, viene immediatamente depotenziato, se non addirittura aggirato: tali imprese, infatti, possono richiedere alla Commissione di rivedere questi obblighi dichiarando che i loro impianti non sono in grado di adempiere agli ordini indicati come prioritari, che dispongono di insufficiente capacità produttiva o che questo costituisce un irragionevole fardello economico.

Inoltre l’imposizione di tali obblighi deve rispettare la libertà di business e la libertà dei contratti, nonché, ovviamente, il “sacro” diritto alla proprietà scolpito nella Carta fondamentale dei diritti dell’Unione europea.

Il tema dell’intervento pubblico è molto articolato e va evitata una fiducia eccessiva nel suo ruolo “sociale”, in quanto l’industria pubblica – per essere tale – dovrebbe riuscire a mantenere una sua autonomia dal capitale privato e ad attuare politiche di equilibrio sociale e territoriale. L’industria pubblica è stata ampiamente smantellata e anche laddove è rimasta in piedi ha seguito le identiche ricette neoliberali del privato, vedasi su tutti l’esempio di Fincantieri. Al tempo stesso, in settori come quello descritto appare assai difficile immaginare che l’investimento privato riesca a risolvere i problemi citati, essendo mosso da logiche proprie che neppure incidentalmente possono essere fatte coincidere con finalità di carattere generale.

Concludiamo con una serie di interrogativi che possono costituire ulteriori spunti di ricerca.

Innanzitutto è possibile oggi immaginare una forma di intervento e di proprietà pubblica diversa rispetto alla concreta esperienza di questi anni? Con quali strumenti tecnici farlo è abbastanza chiaro: aziende in house, utilizzo di Cassa depositi e prestiti ecc.; il tema è come riuscire a imporre logiche di funzionamento, di investimento e di relazione con i lavoratori alternative a quelle del privato. Un aspetto, quindi, da indagare per tentare di costruire qualche ipotesi concreta. 

Secondo: la dimensione di un piano di investimenti della portata necessaria nel settore dei chip non può che essere europea: come superare i dogmi neoliberali del livello comunitario e gli squilibri industriali tra Paesi Membri che hanno storicamente caratterizzato la riorganizzazione industriale nell’area istituzionale della Ue?

Infine il ruolo del movimento dei lavoratori: è decisivo nel costruire tanto progetti di politica industriale, quanto di partecipazione in grado di introdurre elementi di controllo e di indirizzo nelle scelte delle imprese, sia private che pubbliche. Il tema del “dialogo sociale” e della “partecipazione” così come declinati nella logica mainstream non sono solo fuorvianti, ma rispondono a una logica antitetica alla nostra. Eppure è dai lavoratori (operai, tecnici, ingegneri ecc.) che è possibile trarre le conoscenze necessarie per questo tipo di trasformazioni industriali. Come declinare, quindi, una nuova forma di “controllo operaio”?