Un’intervista a Gianni Tognoni: dal Mario Negri al Tribunale Permanente dei Popoli
Sergio Fontegher Bologna: Ci siamo incrociati nella redazione di “Sapere” ai tempi di Maccacaro, alla metà degli anni Settanta [a proposito di “Sapere” nell’archivio di OPM si può leggere questa intervista a Benedetto Terracini NdR] . Io, come storico molto impegnato nelle vicende delle lotte sindacali, mi sentivo un po’ “periferico” rispetto a voi che eravate attivi nei maggiori centri di ricerca scientifica. Mi vuoi dire qualcosa della tua lunga esperienza al Mario Negri?
Gianni Tognoni: La mia vita di ricerca inizia per caso: sono uno studente del quinto anno di Medicina, espulso dall’Università Cattolica di Roma per una partecipazione non gradita al ‘68, e sto cercando di trovare un posto in cui verificare la possibilità di continuare uno dei sogni che sembravano allora “naturali”, addirittura obbligatori: esplorare strade innovative per produrre risultati importanti ai bisogni conoscitivi inevasi della medicina, che coincidessero con risposte a diritti violati di dignità di vita.
Il mondo da cui venivo per studi ed esperienze concrete era quello delle borgate romane che crescevano nel nulla, della cultura radicalmente nuova ed internazionale del Concilio e della teologia della liberazione, dell’universo dell’Istituzione Negata di Basaglia… Incrociai a Milano un istituto di ricerca molto atipico, il Mario Negri, fondato da pochi anni da un gruppo di ricercatori che avevano voluto rompere lo stile di lavoro bloccato dell’Accademia, e cercavano giovani che volessero condividere l’avventura ed il rischio. Alla mia domanda di informazioni rispose, entusiasta, nell’atrio dell’Istituto, il direttore stesso Silvio Garattini, che mi chiese semplicemente di considerarmi da subito un borsista del laboratorio di farmacologia clinica che si stava aprendo. Sembrava irreale, ma era vero. Si era alla vigilia delle vacanze ed ero atteso per settembre. Da allora, e per 40 anni, ho fatto parte di quell’Istituto che sarebbe progressivamente diventato uno dei fulcri più produttivi della ricerca indipendente non solo in Italia, ma a livello internazionale. La ricerca come ambito naturalmente dedicato agli aspetti ed alle metodologie della ricerca di base, rispondendo nello stesso tempo alla necessità di trovare il modo per trasferire le novità ‘biologiche’ sulle realtà delle persone-popolazioni è stato da allora il filo conduttore della mia identità di ricercatore. Devo riconoscere a Silvio Garattini di avermi dato fiducia (penso anche l’interesse suo e dell’istituto…) per far crescere un “laboratorio” attorno ad una domanda che inevitabilmente si espandeva a vari campi, e che promuoveva collaborazioni libere e creative anche con realtà culturali molto diverse, ma che condividevano la logica di produrre conoscenze mirate a problemi di cui era chiara la rilevanza per pazienti-popolazioni rappresentanti di aree trascurate dagli interessi di mercato dell’industria farmaceutica o di priorità strettamente accademiche. Nasce così anche la collaborazione stretta con uno dei protagonisti culturali e politici più importanti e controversi di quegli anni come Giulio Maccacaro è perfettamente esemplare.
Il laboratorio nato “per caso” arrivò in dieci anni ad avere più di cento persone ( molti e per tanto tempo borsisti, e tutti noi pagati non a prezzi di mercato…). Il coinvolgimento profondo nell’incidente di Seveso, la creazione della prima rete di prontuari in tutti gli ospedali della Lombardia, con la formulazione della prima legge sulla sperimentazione, la lista dei farmaci essenziali per l’Organizzazione Mondiale della Sanità, furono alcune delle tappe che accelerarono il processo di crescita e di differenziazione che nei primi anni ‘80 coinvolse da una parte molti paesi dell’America Latina, e dall’altra reti collaborative di ricerca a livello internazionale. Da allora la mia storia di ricercatore è meglio raccontata dalla letteratura scientifica, in settori tanto diversi come la cardiologia (sono del 1986 i risultati dello studio Gissi, che documentavano la prima terapia efficace disponibile a livello internazionale per l’infarto), la neurologia, le terapie intensive, la psichiatria, l’oncologia.
Si confermava anche così – con protocolli di ricerca che vedevano la partecipazione volontaria, come espressione di un “servizio”, non retribuita, di centinaia di clinici attivi nel Servizio Sanitario Nazionale appena istituito (1978) – la possibilità e la produttività di non essere solo specialisti dell’uno o dell’altro settore, ma ricercatori che hanno come terreno privilegiato un “sistema” sanitario che è un bene comune.
Con due note di fondo. La prima: ho lavorato per 10 anni, non più a Milano, ma sempre nello stesso istituto, in un’avventura come quella del Consorzio Negri Sud, in Abruzzo, ma con proiezioni anche in altre regioni del Sud: la sua chiusura per ragioni strettamente politiche, è stata cancellata dalla memoria (un tema che meriterebbe una narrazione da “giallo”), ma l’esperienza è stata molto bella, sia per produttività scientifica che per esperienza di collaborazione e di comunità umane. Per fortuna molti di quelli che l’hanno condivisa sono ancora attivi. La seconda: ho avuto come compagni di strada e protagonisti di produzione di conoscenza, molti di coloro che sono per lo più considerati esecutori: il mondo infermieristico, quello dei medici di base, le comunità (queste ancor più nei Sud del mondo), figure trascurate anche da quelle discipline che dovrebbero essere al loro più stretto servizio, come l’epidemiologia.
S.F.B.:Quando è iniziata la tua attività con il Tribunale Permanente dei Popoli? È una creatura di Lelio Basso o sbaglio? Con Lelio avevo stretto amicizia quando stava a Milano perché avevo curato gli scritti di uno dei suoi più stretti compagni di lotta antifascista, Ermanno Bartellini, fucilato a Dachau dai nazisti dopo un fallito tentativo di fuga.
G.T.: La mia conoscenza con Lelio Basso, diventata rapidamente per una serie obbligata di eventi una strettissima amicizia, ha avuto come mediatrice fondamentale Linda Bimbi e come contesto concreto di primo incontro un evento milanese, inizio anni ’70, nella allora mitica Corsia dei Servi – con David Turoldo, Lucia Pigni, Camillo Del Piaz, Mario Cuminetti. Linda, che era appena fuggita dalla dittatura brasiliana, presentava il libro di un domenicano sopravvissuto alla tortura (ed oggi giornalista ed autore di fama internazionale), Carlos Alberto (Betto) Libanio Christo, detto anche frei Betto: Dai sotterranei della storia. Era la prima, tragica, testimonianza di quella dittatura, che sarebbe stata per tre anni, tra il ’73 e il ’76, al centro dei lavori del Tribunale Russell 2 insieme alle altre dittature dell’America Latina (il Cile di Pinochet è del 1973 e la dittatura argentina diventa assoluta nel marzo 1976). Ricordo questi dati di cronaca per inquadrare non tanto il mio incontro con Basso, ma per sottolineare che il Lelio Basso di quegli anni, reduce dal periodo molto critico del dopo Praga, era passato ad allargare sempre più profondamente il suo sguardo ai radicali cambiamenti sia degli scenari internazionali che del mondo dei partiti. Il tribunale Russell in cui mi chiese di entrare come parte di una segreteria operativa che comprendeva anche Linda Bimbi, si presentava come un vero progetto di ricerca e un luogo pieno di domande, di incontri impensabili con “esuli” che erano di fatto protagonisti della cultura mondiale – da Garcia Marquez, a Eduardo Galeano, a Julio Cortazar, a Ernesto Cardenal, a George Wald… – ma soprattutto con una politica che assumeva in modo esplicito il compito di una rilettura radicale di un mondo in cambiamento strutturale. I termini della deriva capitalistica, della decolonizzazione, dell’imperialismo, della presenza delle multinazionali come nuovi attori della storia non erano più fenomeni analizzati nei libri, ma fatti concreti e testimoni. Lelio, di cui sapevo del suo ammirevole lavoro per la Costituzione, si rivelava (coinvolgendomi anche nella sua ricerca sull’ “eretica” Rosa Luxembourg) un interprete acutissimo, che affrontava categorie dottrinali con la stessa energia innovativa che è imprescindibile nella ricerca clinica-epidemiologica. La sua introduzione al libro sul socialismo, pubblicato postumo, ma via via riletto nella pianificazione della Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli del 1976 (simbolicamente approvata nei 200 anni dalla Dichiarazione della indipendenza americana, trasformata ormai in uno strumento di neocolonialismo), era un vero esercizio metodologico trasversale che diveniva operativo nel descrivere e comprendere quanto l’”imperialismo culturale” (è il titolo di un seminario internazionale di ricerca del 1977 in un’Algeria ancora fresca di rivoluzione e centro dei paesi non-allineati) e le trasformazioni sociali possono essere affrontate solo con una politica che è punta avanzata di ricerca collettiva, e non gestione, per quanto democratica nelle forme, dell’esistente.
I suoi ultimi anni intensissimi di contatti e viaggi internazionali, per esplorare e promuovere un diritto al servizio dei popoli e della loro autonomia e non come espressione degli equilibri tra poteri statali, costituirono un laboratorio parallelo, ma ancor più provocatorio, intellettualmente ed umanamente, a quello che stava diventando il laboratorio sempre più “anche” epidemiologico del Mario Negri. L’istituzione formale del Tribunale Permanente dei Popoli, il 24 giugno 1979, a Bologna, pochi mesi dopo la morte improvvisa di Lelio nel dicembre 1978, diventava lo strumento istituzionale mirato a due obiettivi complementari: il primo e più fondamentale: dare visibilità e diritto di parola alla realtà di popoli marginalizzati o cancellati dalla storia ufficiale di una comunità internazionale gestita da Stati spesso non legittimi o espressamente repressivi; il secondo, imprescindibile, di lungo periodo: essere un vero laboratorio di ricerca che aveva nella propria agenda le carenze di un diritto internazionale più garante degli equilibri di potere esistenti, e non disponibile alla necessaria flessibilità richiesta dagli scenari politici in evoluzione.
S.F.B.: Come funziona oggi il Tribunale dei Popoli?
G.T.: Nella sostanza, l’impianto del TPP è rimasto lo stesso di quello previsto nel suo primo statuto, aggiornato nel 2018 a seguito del cambiamento non solo del quadro di riferimenti politici ma anche di alcune delle poche, ma molto significative, evoluzioni del diritto internazionale, come l‘istituzione nel 1998 della Corte Penale Internazionale (l’esperienza tragica di impotenza di questa istituzione – peraltro approvata da tutta la comunità internazionale, ma esposta al diritto di veto da parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU – di fronte al genocidio del popolo palestinese non ha bisogno di commento). L’assunto più chiaro del TPP, giuridicamente e politicamente rivoluzionario, è molto semplice: il diritto degli Stati non può essere il decisore impunibile di violazioni dei diritti fondamentali di “popoli” che per le più diverse ragioni si oppongono alle politiche di autorità statali. Al TPP si possono rivolgere, documentando la loro richiesta in modo trasparente e verificabile, tutti i popoli che non trovano ascolto in un tribunale formale, nazionale o internazionale. Il TPP attiva una procedura di verifica dell’affidabilità della richiesta, per arrivare ad un’udienza pubblica, notificata ed aperta anche agli Stati o altre Entità che sono in stato di accusa. Sono i popoli i soggetti reali del “processo”, con i loro testimoni, e le diverse prove che ritengono pertinenti. Il Tribunale mette anzitutto in evidenza la gravità delle violazioni, le cause e le responsabilità delle violazioni, l’urgenza con cui vanno affrontate, per arrivare ad una sentenza da parte di una giuria costituita da un minimo di 5 giudici, non necessariamente magistrati o giuristi, che devono essere noti per competenza ed ancor più per la loro correttezza ed assoluta indipendenza (possiamo dire che lungo i 47 anni della sua esistenza e le più di 50 sentenze, su temi spesso iperdelicati, il Tribunale non ha mai avuto contestazioni su questi aspetti).
Le sentenze del TPP diventano in questo senso una delle componenti dei processi di lotta, liberazione, presa di coscienza, mobilitazione, di tutti quei soggetti che vedono nella metodologia e nei principi del TPP uno strumento dei loro percorsi di autodeterminazione e di lotta contro l’impunità, il silenzio, la cancellazione dall’attenzione e il mancato rispetto della dignità umana.
Non è questa la sede per documentare una storia tanto lunga e diversificata: il sito è abbastanza facilmente consultabile e fa riferimento anche a letture di approfondimento. Qui val piuttosto la pena menzionare uno dei contributi più originali del TPP, che ha caratterizzato molte delle sue iniziative a partire dalla sua Sessione di Berlino, nel 1988, dedicata alle responsabilità, assolutamente trascurate, di crimini contro l’umanità della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale. Per la prima volta attori, regole, decisioni di enti di riferimento centrali per i modelli di sviluppo venivano chiamati a giudizio (più di duemila persone erano presenti alla lettura del verdetto ed alla sua traduzione non solo giuridica, ma culturale e politica, da parte di Eduardo Galeano…) e giudicati sulla base di documenti della giurisdizione internazionale, che venivano confrontati ed interpretati in modo rigoroso mettendone in evidenza la causalità diretta di crimini che colpiscono le popolazioni trasversali dei “diseguali”, “marginali”, “morti per fame o non accesso alla sanità” ecc.. Si apriva così un versante a tutt’oggi infinitamente controverso, ma inoppugnabile.
Popoli si è da allora confermato come il termine chiave, ma forse per questo ignorato-negato, della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani :” Noi, popoli della terra…”, recita il preambolo, indicando gli autori-soggetti reali. In fondo tutta la storia del TPP non è altro che il pro-memoria “permanente”, un popolo dopo l’altro, che la carta dei diritti deve essere continuamente riscritta, per confrontarsi, tempestivamente ed in modo efficace, con i poteri di turno.
S.F.B.: Questo ruolo per te, personalmente, comporta dei viaggi frequenti in alcuni dei territori più devastati dalle guerre, dalla fame, con popolazioni che vivono in condizioni estreme o che fuggono. Deve essere terribile, per te che hai superato gli ottanta. Chi trovi in quei luoghi che condivide i tuoi sforzi, che ti offre solidarietà, sostegno in caso di emergenza. Chi trovi, sul campo, che agisce per il bene?
G.T.: Sì, continuo ancora, appena posso, a viaggiare per essere un po’ più “parte” e non osservatore esterno delle realtà che vengono incluse nelle indagini e nelle sentenze del Tribunale. Ma con una nota assolutamente importante, per quanto riguarda i rischi personali che si potrebbero incorrere. Per definizione, la metodologia di lavoro di un Tribunale dei Popoli è quella di rendere visibili, e presenti nei tanti modi possibili soprattutto oggi, i rappresentanti-testimoni dei popoli: nella stragrande maggioranza dei casi tuttavia le situazioni su cui si indaga sono off-limits proprio perché le violazioni dei diritti che motivano l’intervento del PPT sono il prodotto di regimi dittatoriali o di sicurezza nazionale, che obbligano oppositori o resistenti alla clandestinità, o all’esilio. Mi è capitato di andare in posti “insicuri” (mi ricordo i confini di Pakistan-Afghanistan al tempo dell’invasione sovietica, tra gli altri), ma non è questo il problema. L’esperienza permanente è la condivisione ripetuta, intensa, di storie-vite che sono tanto spesso – nella concretezza del presente e nella memoria-testimonianza – al di là dei confini del credibile: per crudeltà, per sistematicità, per le conseguenze anche di lungo periodo – una documentazione che non è più cronaca dall’esterno, ma constatazione che la in-umanità è di fatto una componente estesissima del quotidiano. La mappa del mondo tracciata dai testimoni del TPP, specie in alcune sentenze – come quelle dei genocidi dei Tamil o dei Rohingyas, o del “processo genocidario lungo 70 anni” della Colombia, o del Salvador, del Guatemala, delle Filippine, della Amazzonia Brasiliana, o dei migranti….- rende presente ed imprescindibile, più di ogni parola o qualificazione giuridica, la sostanziale impunità dei più diversi poteri-attori che trasformano in vittime-scarti non importa quanti umani: e ancor più che la storia ufficiale può ignorare tranquillamente questi sotterranei abitati da desaparecidos, per usare termini che oggi un capo di governo che si abbraccia affettuosamente con Milei può pretendere di dire che sono stati inventati. Sono anch’io ormai un cittadino di quella “mappa”: cercando di mantenere della sua realtà la incredibile testimonianza della capacità-necessità di prendere parola e continuare ad immaginare che ne valeva la pena. Come l’ultimo testimone, importante, della nostra sessione su Papua Nuova Guinea, sopravvissuto, dopo una lunga terapia intensiva, ad un attentato fatto il giorno dopo della sua testimonianza pubblica nel TPP a Londra.
S.F.B.: Lelio aveva messo in piedi questa iniziativa quando nei paesi del Terzo Mondo i popoli si risvegliavano da un lungo sonno e prendevano in mano i loro destini, era il periodo dei movimenti di liberazione che poi, vittoriosi, avrebbero dato vita al movimento dei paesi non allineati, che a un certo punto furono quasi maggioranza all’ONU. Oggi c’è qualche barlume che accada qualcosa di simile, cioè che la gente, invece di fuggire, prenda in mano i propri destini?
G.T.: La tua domanda è quella più centrale nella riflessione attuale del TPP: perché ripropone, con le parole molto lucide e sintetiche di uno che ha vissuto intensamente gli stessi anni di attività del TPP, la domanda-augurio che Julio Cortazar poneva con la semplicità geniale della sua parola nel suo discorso di inaugurazione del TPP a Bologna, che è rimasto come pietra angolare anche sul sito dello stesso TPP.
Noi prendiamo la parola, per tutti coloro a cui è stata violentemente tolta, spesso insieme alla vita. Continua ad essere valida la speranza che questa parola sia ponte-porta di liberazione per chi forse neppure ci sente?.
Il mondo è di fatto totalmente “patas arriba” (per evocare ancora Eduardo Galeano, e le sue storiche Venas abiertas): il “neo” – aggiunto a colonialismo, capitalismo ecc. non ne rivela, anzi ne nasconde, un cambiamento strutturale o di direzione, che è di fatto una realtà sempre più evidente e consolidata. La novità di oggi, denunciata ormai come inarrestabile nella storia concreta dei popoli narrata nelle sentenze del Tribunale, è radicale: il diritto è un sistema di valori, di regole, di priorità, di legalità-legittimità funzionante, anche con i suoi tribunali, quando si tratta di rapporti di mercato tra cose. I diritti umani sono perfettamente noti, sbandierati da tutte le parti, ma non esistono più come strumento concreto per prendere direzioni-decisioni nella storia. Gaza, da ultima, tragica, in-umana tragedia lo insegna. La vita degli umani, come individui e come popoli è, nelle guerre di poteri (a cui è stata restituita la perfetta legalità), una variabile dipendente. Non per nulla i “crimini contro l’umanità” sono ritornati a far parte del linguaggio corrente: dimenticando che il genocidio, su cui si fanno tante apparenti disquisizioni, non è che una modalità di esprimersi sulla gravità del crimine: qualcosa che non doveva più accadere, per non ricadere nella in-umanità.
Il cambio strutturale che è avvenuto in questi anni può così riassumersi: i diritti universali, con tutte le loro implicazioni e declinazioni, avrebbero dovuto essere il futuro obbligatorio da costruire; invece il futuro di oggi è nel potere di cose-mercati, un potere che viene assunto culturalmente, e perciò ancor più impunemente, come immodificabile.
Al TPP continuano nonostante tutto ad arrivare richieste di intervento dai “popoli” più diversi: perché nella realtà gli umani esistono ancora e non accettano sempre passivamente di essere mercenari, più o meno armati, dell’ultimo dittatore, pubblico o privato,
Più di un “allora” che non è più raccontabile, l’augurio di Cortazar e’ metodologicamente attuale: il diritto può essere tale se permanentemente oggetto di ricerca, di futuro. Nato come strumento delle lotte di liberazione dei popoli attraverso un’interpretazione di un diritto esistente come categoria di riferimento (certo non sempre rispettato!) di una società formata da Stati, il TPP ed i popoli si trovano a vivere oggi in una società “altra”, globale, ambigua, mista di pubblico e privato, senza modelli di futuro, se non quelli violenti dei mercati e delle finanze, intolleranti di qualsiasi controllo. Nel suo piccolo, a quasi 50 anni dalla sua carta fondativa, il TPP mantiene, con tutto il disincanto e la passione possibili, le sue radici nella storia degli umani, e partecipa, dal di dentro, ad una lotta per liberarsi dalla rassegnazione ad un mondo non-umano, affidandosi a competenze, sguardi, potenzialità molto più giovani di me. Sperando che il mondo del diritto si risvegli dalla sua nostalgia per un mondo che non c’è più e si faccia garante dei diritti delle persone che ne sono gli unici soggetti, più che spettatore rassegnato della crescente in-umana arroganza, propria di padroni vecchi e nuovi.
S.F.B.: Un’ultima domanda: leggo che hai studiato teologia. Anch’io, per preparare la mia tesi di laurea sulla chiesa protestante sotto il nazismo. Leggo che sei missionario saveriano. Quale è, secondo te, il contributo maggiore che dà oggi la chiesa cattolica, in particolare col papato di Bergoglio, agli sforzi per riportare un minimo di pace in questo mondo?
G.T.: Contento di condividere anche con te un pezzo culturale della mia storia. La mia esperienza francescana è stata abbastanza lunga, intensa, tra le più belle in assoluto della mia vita, forse anche perché molto giovane, includendo anche una laurea in teologia, oltre che una condivisione di esperienze di preti operai e comunità di base. Non pretendo certo, dopo tanti anni, di dare una risposta competente alla tua domanda. Avendo però mantenuto un’attenzione non solo curiosa ai temi che proponi, penso sinceramente che un Papa che ha prodotto due encicliche importanti come Laudato sì e Fratelli Tutti, rappresenti un indicatore forte di una potenzialità di sguardo al futuro. Me lo rendono molto vicino il nome, Francesco, e la sua provenienza da una “fine del mondo” che ben conosco. Le scelte sulla guerra, su Gaza, la ripetizione mai stanca dello scandalo di una società che si vuol dire civile e considera “pace” una parola proibita, mi sembrano altri agganci a tante realtà che si muovono nel mondo. Il salto culturale che deve essere fatto (senza violare, né minacciare nulla che non sia teologicamente già acquisito) riguarda la permanenza di una identità molto “maschile” della gerarchia e la gestione economica dei “beni”. Confermo qui la convinzione che accennavo a proposito del diritto: la chiesa deve riconoscersi come laboratorio di ricerca, dove il coraggio della sperimentazione rappresenta la normalità e non l’eccezione. Paolo VI iniziò il suo discorso di ri-apertura del Concilio (me lo ricordo perché ne feci il titolo ed il filo conduttore della mia tesi) con l’interrogativo: ”Chiesa che dici di te stessa?” Il garante della dottrina si poneva una domanda. La sua enciclica chiave evocava i popoli come motore e soggetto di riferimento del progredire dell’umanità… Auguri dunque a questo Papa di concludere il suo tempo con dei segni di futuro. E di coraggio. L’indicazione del Cardinale Zuppi per la pace è un segno importante, che si spera sia nucleo fondante di una prassi più estesa.