Conflitti,  Internazionale,  Numero 3. Giugno 2021,  Sociale

Insurgent Universality. An alternative Legacy of Modernity. Un libro di Massimiliano Tomba

Massimiliano Tomba è un filosofo politico di formazione padovana che, purtroppo, come tanti suoi colleghi ormai, ha lasciato qualche anno fa l’Italia: oggi insegna nel prestigioso dipartimento di History of Consciousness dell’Università di Santa Cruz, in California. Il suo ultimo lavoro – pubblicato da Oxford University Press nel 2019 e in attesa di essere tradotto in italiano – è un saggio politico ambizioso, dove alcuni strumenti teorici della tradizione filosofica tedesca, su cui Tomba ha già a lungo meditato (su tutti: Kant, Marx, Benjamin e Bloch), vengono messi alla prova di eventi storici circostanziati: lo scopo è quello di costruire una genealogia critica capace di indicare tracce, emersioni storiche significative, perché concretamente universalistiche, di quell’altra modernità che si è continuamente opposta, per secoli, all’incardinarsi unidimensionale della sovranità europea e del suo dominio sul pianeta. 

Il libro si apre con un’immagine, che ben riassume l’oggetto di studio di questo lavoro. Pensiamo a un fiume la cui acqua sia stata canalizzata. Nella parte destra dell’argine artificiale stanno i guardiani dello Stato e della reazione; in quella sinistra, i progressisti. Passano il tempo a combattersi, anche violentemente, ma solo a parole. In realtà, convergono su un punto dirimente: il fiume non deve abbandonare l’argine del suo percorso forzato. Tutt’al più si può aumentare o diminuire – di volta in volta, se cambiano i rapporti di forza – l’intensità della pressione dell’acqua canalizzata. Ma inaspettatamente poi accade, un giorno, all’improvviso, che la forza del fiume rompa gli argini, travolgendo i confini artificiali nel quale è stato costretto, magari per decenni. Lo spazio che lo circonda di colpo cambia. Si aprono mille rivoli, cadono vecchie recinzioni, le linee si frastagliano: emergono antiche tracce, ora utili a convogliare la forza dell’acqua, libera, altrove. 

L’universalità insorgente si manifesta così, come un’inondazione. Agisce emergendo quasi all’improvviso come una forza capace di travolgere gli steccati e le separazioni imposte dal potere moderno. Dalle lotte contadine tedesche del 1525 fino al movimento zapatista della fine del secolo scorso, è come se si sviluppasse una nota bassa continua che accompagna forme di resistenza radicali, molto diverse fra loro, ma tutte orientate su alcuni assi portanti: anzitutto, su un’idea di “usufrutto” comune – e non di appropriazione privata – della terra e dei beni; quindi, sulla valorizzazione del collettivo, dei gruppi, dell’autogoverno; sulla sperimentazione di una pluralità di poteri convergenti su un’idea di responsabilità come patto fra le generazioni, che unisce passato e futuro nella cura della comunità, del singolo e della terra. Una responsabilità che antepone la relazione agli individui e che per questa ragione, più o meno consapevolmente, è stata capace di opporsi alla produzione moderna di quella soggettività sradicata che è “libera” di vendersi sul mercato, ma solo come appendice inessenziale del lavoro astratto capitalista. 

Lettore di Bloch e di Benjamin, e soprattutto dell’ultimo Marx, quello “populista” delle lettere a Vera Zasulič, Tomba ha come primo obiettivo quello di scardinare la prigione unidimensionale della temporalità del moderno. Se vede nel gesto teorico dello storico indiano Dipesh Chakrabarty, autore di Provincializzare l’Europa, un passo decisivo per minare l’auto-incoronazione europea a ultimo stadio del progresso mondiale, non ne segue però la prognosi, tutto sommato elementare. Perché, secondo Tomba, è storicamente fuorviante pensare che esista, o che sia realmente esistita, un’unica e sola modernità europea, contro cui ogni Paese del resto del mondo deve ora riaffermare il valore strategico di singolarità alternativa. Il processo storico che ha portato all’imporsi della sovranità europea moderna va invece osservato in modo prismatico, facendo attenzione soprattutto alle sue linee di frizione: la modernità apparirà così come un percorso frastagliato, sempre a rischio di crisi, perché instabile e perché continuamente combattuto, all’esterno e all’interno dell’Europa stessa, da forze politiche che si sono di volta in volta opposte al progredire della forma Stato come garanzia e motore dell’accumulazione di capitale. La prospettiva teorica di Tomba permette così di disattivare la logica elementare oppositiva di un conflitto netto fra Europa e resto del mondo, e di tracciare, invece, la mappa di uno spazio mondiale multiverso e interconnesso, dove realtà storiche e geografiche, talora anche molto distanti fra loro, coloniali e post-coloniali, europee e non, antiche e contemporanee, si rincorrono in un processo paradossalmente unitario di resistenza, attraverso la sperimentazione di “atti universalistici” (fatti di proposte, leggi, costituzioni, manifesti) che ci parlano, non certo di caos e anarchia, o di ritorno dell’arcaico, come vorrebbe la tradizione liberale; ma all’opposto di una vera e propria fabbrica costituente, orientata alla verifica comune dei poteri e alla sperimentazione di forme possibili di autogoverno.

Il volume si concentra su quattro specifiche emersioni storiche: parte da un appassionante confronto fra le prime due costituzioni della rivoluzione francese – quella del 1791, che fonda, contro la giurisdizione dell’ancien régime, i diritti individuali del cittadino all’interno della forma Stato; la seconda, montagnarda, del 1793, che invece mette in questione l’ordine politico e sociale, attraverso il riconoscimento degli individui, ma come membri di gruppi e di assemblee; e all’interno della quale risuonano le lotte degli schiavi di Haiti, l’azione politica delle donne, dei sans-culottes e dei contadini. La seconda tappa è il 1871, la Comune di Parigi. Tomba lavora ancora una volta sui documenti pubblici, sui manifesti, sulla Dichiarazione del Popolo Francese del 1871, mostrando il significato politico del ripristino del vincolo di mandato e del dominium utile, come riattivazione di un’idea di responsabilità comunitaria della rappresentanza e della proprietà che la società liberale aveva bandito, come residuo arcaico di sovranità medievale. Quindi, la Costituzione sovietica del 1918, che formalizza l’esperienza della pluralità dei poteri (gruppi, associazioni, consigli, soviet) come rottura rivoluzionaria rispetto ai diritti del cittadino e dello Stato: soggetto della costituzione è ora un universale concreto, una classe sociale, i lavoratori e gli sfruttati, organizzati in una federazione di consigli. L’ultima tappa è rappresentata dal movimento zapatista messicano attraverso l’analisi dei suoi manifesti, della proposta di rivoluzione agraria e di riforma costituzionale stilate all’inizio degli anni Novanta. Attraverso quest’ultima emersione, ci dice Tomba, è come se si riattivassero cinquecento anni di lotte contro la colonizzazione dell’America, nella pratica costituente di forme di potere comunitarie, capaci di ibridare consuetudini della tradizione indigena recuperando, forse inaspettatamente, il sentiero interrotto dalla rivoluzione bolscevica: l’eredità populista dell’obščina della Zasulič e di Cernjsevskji. 

Insurgent Universality è un volume appassionante; non un semplice saggio di storia politica, ma un manifesto teorico che risponde a un problema comune del nostro presente: come scardinare l’unico universalismo oggi rimasto, che è quello astratto dell’accumulazione capitalistica e del potere statale? Pensare a un universalismo insorgente significa rompere questo sortilegio che ci imprigiona in un moto coattivo unidirezionale. Come sappiamo, le forme giuridiche dell’universalismo astratto lavorano precisamente per separare gli individui dalle comunità, rendendoli apparentemente sovrani, ma solo nel regno protetto del diritto e del consumo. La potenza delle lotte insorgenti descritte in questo volume ci ricorda però che, contro la cecità dell’individualismo proprietario, esiste una responsabilità comune, reale, pratica che lega le generazioni nella cura delle comunità e degli individui; e, soprattutto, nell’usufrutto della terra. Ed è una responsabilità politica orientata non solo verso il presente e gli altri viventi; ma soprattutto verso il futuro. In forme diverse, lo ripetono gli zapatisti messicani, gli indiani d’America, i rivoluzionari francesi, gli schiavi di Haiti, i comunardi, i primi sovietici, i populisti russi; e moltissimi altri, come lo stesso Marx, quasi alla fine del libro III del Capitale: 

Dal punto di vista di una più elevata formazione economica della società, la proprietà privata del globo terrestre da parte di singoli individui apparirà così assurda come la proprietà privata di un uomo da parte di un altro uomo. Anche un’intera società, una nazione, e anche tutte le società di una stessa epoca prese complessivamente, non sono proprietarie della terra. Sono soltanto i suoi possessori, i suoi usufruttuari e hanno il dovere di tramandarla migliorata, come boni patres familias, alle generazioni successive (K. Marx, Il Capitale, libro III).

Bibliografia

D. Chakrabarty, Provincializzare l’Europa, Meltemi, Roma 2000.

M. Tomba, Insurgent Universality. An alternative Legacy of Modernity, Oxford University Press, Oxford 2019.