Inaccettabili falsificazioni
Di Sergio Bologna
E’ stata una pessima idea quella del giornalista e saggista Carlo Formenti a voler indottrinare i lettori del suo blog sulla discussione avvenuta in questi ultimi vent’anni sul tema dei knowledge workers e del rapporto tra ruoli professionali e tecnologia, perché ha dimostrato o di averla seguita assai male questa discussione o di non averci capito nulla. Scrive in un suo post intitolato Dalla IBM alla gig economy :
“Con la rivoluzione digitale e gli anni Novanta abbiamo assistito a un potente ritorno di attenzione sul rapporto fra innovazione tecnologica e lotta di classe. Purtroppo nella gran parte dei casi questa attenzione è coincisa con l’esaltazione acritica del presunto potenziale emancipativo delle nuove tecnologie (….) A seguire è subentrata la versione post operaista del sogno hacker: i lavoratori della conoscenza (le classi creative in altre versioni) vennero battezzati come la nuova avanguardia rivoluzionaria, pronta a raccogliere il testimone delle lotte operaie degli anni Sessanta e Settanta. “
Per quanto ne so, la discussione all’interno del pensiero cosiddetto post-operaista, fu lanciata da un volume collettaneo curato dal sottoscritto e da Andrea Fumagalli e pubblicato nel 1997 in coedizione tra Feltrinelli e Shake Editore, una casa editrice che aveva dato molto spazio alla cultura hacker, dal titolo Il lavoro autonomo di seconda generazione. Scenari del postfordismo in Italia.
Carta canta, come si dice. Ebbene, sfido qualunque lettore a trovare in quel volume un benché minimo accenno a una definizione dei lavoratori della conoscenza “come la nuova avanguardia rivoluzionaria”. In quel volume, ed in particolare nei due saggi scritti dal sottoscritto, si diceva che a) il lavoro indipendente che si stava diffondendo aveva uno stretto rapporto con le nuove tecnologie digitali e con gli strumenti di lavoro che queste tecnologie avevano messo a disposizione, come il personal computer, b) che questa condizione non aveva creato dei lavoratori più “liberi” o più “autonomi” perché essi si trovavano sempre in un rapporto di forza diseguale con il committente, c) che essi dovevano prendere coscienza di questa loro debolezza sul mercato e quindi dovevano pensare a coalizzarsi, a tutelarsi.
Cosa che puntualmente avvenne agli inizi degli anni 2000, sia negli USA con la costituzione della Freelancers Union, sia in Italia con la costituzione di ACTA (www.actainrete.it), sia con la creazione di altre iniziative di carattere sindacale o mutualistico a livello europeo, p.es. la cooperativa SMArt, con sede a Bruxelles e filiali in nove paesi europei. Ossia, si era messo in moto finalmente – forse anche grazie a quella nostra analisi – un processo di coalizione, di riconoscimento della propria identità lavorativa, da parte di lavoratori che fino a quel momento avevano pensato di non essere lavoratori ma imprese, anche perché così li definiva l’Unione Europea, negando loro il diritto a un collective bargaining. Formenti ignora tutto questo, oppure vuole semplicemente oscurare una realtà che smentisce i suoi giudizi?
Questo vero e proprio “risveglio” di una disponibilità alla solidarietà tra lavoratori, che si assomigliano per tutta una serie di condizioni spazio-temporali e di rapporto con le nuove tecnologie, ha impresso una dinamica virtuosa, che sta portando alla luce sempre nuove soluzioni e nuove iniziative. Una di queste è la Tech Workers Coalition, oggi presente anche in Italia. Che cosa ha portato di nuovo rispetto alle esperienze precedenti? Prima di tutto il fatto di rivolgersi ai lavoratori salariati dell’industria high tech, non soltanto a quelli freelance, costruendo in tal modo le premesse per allargare un certo “blocco sociale”. In secondo luogo – com’è chiaramente espresso nel loro sito USA – quello di mettere in piedi non una Union ma una Coalition, cioè una struttura flessibile e trasversale che dialoga e collabora con tutte le Unions o le associazioni professionali che in un modo o nell’altro intendono tutelare i lavoratori che hanno a che fare con le tecnologie digitali latu sensu, quindi programmatori ma anche rider, lavoratori delle piattaforme e così via (we work in solidarity with existing movements towards social justice, workers’ rights, and economic inclusion).
Detto questo, non so se vale la pena, visto che Formenti ha le idee così confuse, ricordare che il pensiero cosiddetto “operaista” in Italia nasce all’interno di una rivista che si chiamava ”Quaderni Rossi” e che uno dei primi testi, se non il primo, su cui si sono formati i partecipanti a quella esperienza era un testo di Raniero Panzieri che negava la presunta “neutralità” della tecnologia (lettura del ’Frammento sulle macchine’ di Marx). Era il 1961.