In ricordo di Piergiorgio Bellocchio
Il suo nome è indissolubilmente legato a quello della rivista Quaderni piacentini, da lui fondata e diretta assieme a Grazia Cherchi. Una rivista sulla quale Piergiorgio ha scritto poco, mai scritto un editoriale, ma solo una breve, graffiante, saltuaria rubrica di libri da leggere e da non leggere. Su questo suo tenersi dietro le quinte qualcosa è stato scritto eppure andrebbe ricordato come un tratto distintivo della sua personalità, che ha fatto sì che quella pubblicazione possa essere considerata un caso unico nel panorama pur molto frequentato della cultura critica italiana degli anni Sessanta e Settanta. Un tratto distintivo in parte del carattere della persona ma in parte una scelta programmatica: quella di mettersi al servizio dell’intelligenza altrui. Quella di far tacere la propria voce, di soffocare i propri pensieri, per consentire ad altri di tirare fuori le cose che hanno da dire. Era una tecnica? Era un’arte? Sicuramente la condivideva in pieno con Grazia Cherchi. Le riviste in genere ricevono il tono dai loro fondatori, sono loro i protagonisti, anche nei casi migliori in cui condividono la responsabilità con un comitato di redazione. Nei Quaderni piacentini non era così, almeno non nei primi anni in cui la rivista acquistò la sua inconfondibile fisionomia, quando ebbi l’occasione d’incontrarla proprio agli inizi. Piergiorgio agiva con mentalità da editore, annusava il terreno dove si muovevano i possibili autori, non avendo un comitato di redazione alle spalle ma dei riferimenti “illustri”, delle figure di patronage, Franco Fortini, Renato Solmi, Cesare Cases. E per ogni numero riprendeva la sua ricerca, paziente, penetrante. Una telefonata, un invito a pranzo, una conversazione – almeno nel mio caso, sempre allegra, con un sacco di risate – e quando l’interlocutore rivelava i suoi lavori o pensieri in corso buttava là, quasi distrattamente, un «Perché non ci scrivi qualche riga?». Per questo il ricordo che conservo degli incontri con Piergiorgio è di quelli che si classificano come ricordi di “ore liete” dell’esistenza, le ore serene, ricche, da cui nasce un affetto che non si cancella più anche se non c’è più ragione di vedersi. Eppure quanta fatica può essergli costata questo suo quasi annullarsi per consentire all’interlocutore di esprimersi! E poi a inseguirlo perché il pezzo sia consegnato in tempo, seguire la stampa e poi distribuire materialmente la rivista alle librerie! Quanta fatica deve essergli costata questo rispetto per l’altro, un rispetto, un ritrarsi, che strideva con l’innato egocentrismo degli intellettuali. Non a caso, chiusi i Quaderni, farà una rivista scritta tutta da lui e da un altro. Finalmente liberato dalla naja dei Quaderni piacentini – dirà a un parente negli anni tardi della sua vita. Ma nulla, credo, gli fosse estraneo quanto quei comportamenti a cui si associano parole come “altruismo”, “dedizione”, “slancio”. Non era nel suo stile la beneficenza cattolica o il volontariato comunista, quella totale dedizione agli altri che a volte appare disumana. No, quel suo ritrarsi, stare tra le quinte, era il modo in cui proteggeva il suo spazio privato, il suo ambiente creativo, il suo diritto all’esistenza solitaria di pensatore, di scrittore. Là dentro respirava, là dentro non entrava nessuno. Questa netta, assoluta, separazione tra pubblico e privato è una delle cose che più ho ammirato in lui, perché avveniva in un contesto in cui l’assordante ripetizione che il pubblico è privato e viceversa faceva perdere di vista le buone ragioni per le quali quello slogan era nato. Il Piergiorgio “borghese” mi piaceva tanto quanto quello che svolgeva disciplinatamente il suo servizio al movimento (per esempio prestando il suo nome come responsabile di certe pubblicazioni). Sul lato formale Quaderni piacentini appariva come un collage di testi, ma in sostanza sapeva esprimere una sua misteriosa omogeneità, pur raccogliendo voci assai diverse l’una dall’altra di persone spesso distanti l’una dall’altra. Aveva una sua inconfondibile cifra. Era un periodo che sollecitava il pensiero e l‘azione, ma anche di un grande rumore di fondo, come accade quando la gente, tanta gente, prende la parola. Piergiorgio sapeva in quel rumore distinguere le voci più chiare secondo suoi personalissimi criteri di scelta. E in genere non sbagliava. Forse i Quaderni piacentini sono l’unico cippo che quella generazione ha saputo erigere a sua propria memoria, l’unica pietra su cui ha saputo incidere il suo nome. Pur non facendo parte del core della rivista, appartenendo io a un’altra “parrocchia”, ho sempre avuto verso Piergiorgio una simpatia, un affetto, una stima così profondi che mi riesce difficile oggi impormi il distacco del ricordo o frenare il pianto. Quella sua signorile ironia, quel suo sapersi mettere sempre “dalla parte del torto” con eleganza, con un gesto naturale, senza la minima enfasi, quel suo rispetto delle virtù e delle consuetudini borghesi, che rendevano ancora più convincente la sua scelta di campo e ancora più sovvertitrici le sue critiche all’ordine costituito. Un uomo straordinario, un intellettuale straordinario, uno scrittore di poche parole. Un amico che guardava con bonario scetticismo alle mie scelte “operaiste” di scuola trontiana ma le rispettava con l’aria di dire «Se a lui piace così…». Eugenio Gazzola ha realizzato un documentario di otto ore sulla storia dei Quaderni, dà un’idea assai chiara del contributo che quella rivista ha procurato alla cultura di un’Italia che vorremmo. Ed è un tributo all’opera dei suoi fondatori. Alla proiezione del documentario presso la Fondazione Feltrinelli abbiamo avuto ancora l’occasione di salutarci. Non sapevamo che sarebbe stata l’ultima.