Il lavoro nella scuola in Italia
Parte 2/3 del saggio “Processi di soggettivazione nel lavoro educativo. Azioni di massa e conflitto sociale tra Europa e Stati Uniti.”
Qui puoi leggere la parte 1/3, “Un ciclo di lotte nella scuola neoliberale in Europa”
In Italia, per ora, non si intravedono all’orizzonte mobilitazioni significative del mondo della scuola, come accade in altri paesi europei. La proletarizzazione del settore procede di pari passo con alcuni inganni ideologici riguardo a ruolo e funzioni del personale educativo.
6. La teoria della street-level bureaucracy nella scuola
Nel campo della ricerca sociologica i cambiamenti che hanno investito i sistemi scolastici negli ultimi decenni – su tutti l’ossessione per la misurazione del merito, l’insistenza sulla necessità di agganciare l’educazione alle esigenze del mercato del lavoro e la standardizzazione delle pratiche didattiche – dovrebbero essere interpretati all’interno degli obiettivi più generali del progetto, di impronta neoliberale, del New Public Management.
In relazione alle modalità di impiego del personale, nella scuola – come per altri comparti dei servizi pubblici – si è quindi assistito alla graduale trasformazione di alcune figure professionali dotate di autonomia (in questo caso i docenti) in una forza lavoro costretta a negoziare i margini di discrezionalità con gli standard operativi che il sistema impone. Secondo la lettura proposta dal sociologo e politologo Michael Lipsky – risalente, non a caso a quegli anni Ottanta in cui le politiche neoliberali stavano conquistando l’egemonia culturale – il personale docente nella scuola apparterrebbe a quella che lui definiva la street-level bureaucracy.
Questa teoria, tuttora oggetto di accese discussioni in ambito accademico, sostiene che, nell’era della rivoluzione manageriale dei servizi pubblici – o, detta in altri termini, nell’epoca della svolta neoliberale che mercifica il welfare tradizionale -, ogni apparato statale può contare su una grande mole di suoi dipendenti che operano a diretto contatto con i percettori dei servizi alla persona. Lipsky pensava soprattutto agli agenti di pubblica sicurezza, agli insegnanti, agli assistenti sociali. Queste figure, pur lavorando all’interno di un contesto di regole e di standard operativi che debbono rispettare, si trovano a dover negoziare continuamente dei margini di discrezionalità nelle loro azioni e questo permette loro di avere una certa autonomia, seppur limitata e informale, nelle proprie iniziative. Ciò – secondo questo approccio teorico – li porrebbe in una posizione diversa sia rispetto alla tradizionale figura del “professionista”, totalmente autonomo, sia rispetto al comune lavoratore subordinato – l’operaio – che svolge un lavoro totalmente standardizzato.
7. Un sottile inganno ideologico: il docente è un professionista?
Per alcuni suoi tratti di ambiguità non stupisce che la teoria della street-level bureaucracy sia stata implicitamente o esplicitamente fatta propria dagli approcci teorici pedagogici che hanno provato a declinare la figura dell’insegnante all’interno dei sistemi scolastici riformati in chiave neoliberale. Dal momento che uno dei corollari della teoria è che la discrezionalità del lavoratore aumenta in relazione al suo livello di preparazione ed esperienza, ciò permette di sviluppare un sottile inganno ideologico: sarebbe l’abilità del singolo, la creatività e la capacità di adattarsi ai contesti a permettere al docente di mantenere ampi spazi di autonomia e sentirsi ancora, pur a “livello della strada”, un professionista.
Si spiega così, nei percorsi formativi per l’insegnamento, l’insistenza sulla necessità che gli insegnanti si impegnino ad essere “professionisti riflessivi”, vale a dire si industrino individualmente in tutti i modi possibili per sopperire alle carenze di sistema – in termini di organici sottodimensionati, mancata assunzione di figure di supporto, assenza di politiche attive per rendere più efficaci le proposte educative, ecc.
L’inganno ideologico, ben congegnato, servirebbe a nascondere l’inevitabile trasformazione dell’insegnamento, nella società post-fordista, in un mestiere proletarizzato. E ciò è vero non solo dal punto di vista retributivo: agli insegnanti è sottratta anche quella che possiamo definire la proprietà dei mezzi di (ri-)produzione, intendendo con questa espressione la possibilità autonoma di pianificare e decidere le proprie progettazioni didattiche e i propri metodi di insegnamento. La centralità che ha ormai assunto la valutazione di sistema appaltata alle agenzie nazionali e internazionali (come ad esempio il sistema PISA-OCSE) traccia la strada per una sostanziale standardizzazione dell’insegnamento. Al processo di omologazione didattica contribuisce ampiamente anche la digitalizzazione della scuola, ancorata a rigidi frame di apprendimento progettati dalle grandi compagnie di settore.
L’insistenza sull’individualizzazione e personalizzazione dell’insegnamento – che accomuna gli atti di indirizzo delle riforme scolastiche nei paesi avanzati – si riduce così a un ibrido tra l’esercizio retorico vuoto e la beffa pedagogica, come sembra rivelarci la recente introduzione delle figure del docente tutor e del docente orientatore nella secondaria di secondo grado in Italia. Secondo questa riforma-ombra che si avvia quest’anno, ogni istituto scolastico sarà dotato di decine di docenti con il compito specifico di orientare al meglio ciascuno studente verso il mercato del lavoro: il ruolo della scuola si riduce così a quello di un’agenzia per l’impiego.
La vera autonomia professionale – cioè la libertà d’insegnamento – è quindi nei suoi assunti più autentici drammaticamente compromessa e l’illusione della discrezionalità del “professionista riflessivo” serve solo a mascherarla.
8. Una proletarizzazione senza “coscienza di classe”
Prima che sia avviasse il ciclo neoliberale, negli anni Settanta, il sociologo statunitense Martin Oppenheimer, noto per le sue posizioni vicine ai movimenti radicali della sinistra americana, aveva tratteggiato i contorni di una teoria della proletarizzazione dei colletti bianchi. La sua tesi era che un nuovo idealtipo di lavoratore white-collar proletarizzato stesse gradualmente sostituendo, negli strati superiori degli impieghi tecnico-professionali, il tradizionale professionista autonomo. Lo spunto di Oppenheimer era carico di ottimismo – non diversamente da quanto sarebbe avvenuto in seguito, su questo stesso tema, nell’area dell’operaismo – rispetto alla possibilità che la proletarizzazione dei colletti bianchi si sarebbe accompagnata all’acquisizione di una combattiva coscienza di classe da parte dei “professionisti decaduti”.
Un bilancio onesto di quanto accaduto in questi decenni non può evitare di riconoscere che il processo di soggettivazione dei lavoratori del settore scolastico non abbia avuto un esito così definito. Le forme di conflitto sociale che hanno attraversato diversi paesi europei nel corso del 2023 – così come quelle che si sono manifestate negli anni precedenti – sono più i sintomi di un malessere ancora non del tutto reso cosciente che l’esito di una consapevolezza della posta in palio. Sebbene ogni passaggio storico nei processi generali di riforma dei sistemi educativi, in ciascun paese, sia stato accompagnato da forme di resistenza dei lavoratori del settore, la maggior parte delle lotte per arginare il progetto della scuola neoliberale è andata incontro alla sconfitta. Questo è accaduto anche in virtù della forza persuasiva, in termini di seduzione ideologica, che il modello neoliberale stesso ancora conserva.
9. La questione salariale nel lavoro scolastico in Italia
Il caso italiano mette in evidenza come, pur a fronte di un evidente problema salariale e di un peggioramento delle condizioni lavorative nel settore scolastico, non si determinino automaticamente processi rivendicativi di massa.
Nonostante la stampa abbia dato ampio risalto a ben due rinnovi contrattuali per il settore scuola tra 2022 e 2023 (entrambi però relativi a contratti scaduti da tempo: il primo nel 2018, il secondo nel 2021), le retribuzioni di chi lavora nel comparto restano incredibilmente basse.
Un collaboratore scolastico con meno di 8 anni di anzianità ha uno stipendio che non arriva ai 17.000 euro lordi su base annua divisi in tredici mensilità: se facciamo un paragone con il contratto vigente per il settore metalmeccanico, si tratta di salario inferiore a quello previsto per il livello D1, quello degli operai generici.
Il reddito di un docente di scuola secondaria di secondo grado senza anzianità di servizio supera appena i 23.000 euro: nel settore metalmeccanico guadagna di più un livello C1 (ex 3a categoria), vale a dire un operaio specializzato o un tecnico senza mansioni direttive.
Queste retribuzioni, in famiglie monoreddito, avvicinano alla miseria secondo i parametri statistici in uso, che pongono la soglia del rischio povertà a un reddito pro-capite di 11.155 euro. Ecco spiegato perché succede che vi siano docenti che rinunciano all’immissione in ruolo se questa, sulla base delle farraginose procedure concorsuali, avviene in sedi cittadine distanti centinaia di chilometri dalla propria residenza abituale: con un tale livello di austerità salariale – solo parzialmente colmato dalla progressione stipendiale che si ottiene automaticamente con l’avanzamento dell’anzianità di servizio – è impossibile pagare gli affitti nelle grandi città.
In Italia lavoratrici e lavoratori della scuola, nei fatti pienamente proletarizzati sul piano materiale, non hanno per ora dato segni di insofferenza simili a quelli mostrati dai loro colleghi in Francia e nel Regno Unito. Una generale rassegnazione pare impedire qualunque cenno di emersione di una soggettività autonoma nel lavoro educativo.
10. La crisi della rappresentanza nella scuola del merito
Su questa dinamica pesa certamente la particolare situazione sindacale italiana nel settore del pubblico impiego. Le organizzazioni più rappresentative contano in Italia su una percentuale di iscritti notevolmente più elevata rispetto ad altri paesi dove il conflitto sociale si è acceso periodicamente negli ultimi anni. È un vero e proprio paradosso italiano: i sindacati della scuola contano su centinaia di migliaia di iscritti, ma sono estremamente burocratizzati e poco inclini al conflitto. Anziché farsi megafono dei reali bisogni e incanalare l’energia conflittuale potenziale che dal malessere sociale potrebbe derivare, essi svolgono più che altro una funzione di supporto alla governance.
Si persevera così in nome della concertazione, anche nel settore pubblico, con la politica di moderazione salariale inaugurata con gli accordi del 1992 e 1993.
Appellarsi all’inadeguatezza complessiva delle strutture sindacali più rappresentative non è tuttavia una spiegazione sufficiente per chiarire i ritardi e le difficoltà nei processi di soggettivazione dei lavoratori del comparto educativo.
Sono di fatto sostanzialmente senza esito anche i tentativi di organizzare i lavoratori di questi comparti attraverso il frastagliato universo delle organizzazioni del sindacalismo di base, che nella scuola avevano avuto uno zoccolo duro tra la fine degli anni Novanta e il nuovo secolo. Ormai gli scioperi di comparto proclamati dalle sigle del sindacalismo alternativo stentano a raggiungere l’1% delle adesioni.
Va quindi preso atto che, a fronte di una proletarizzazione delle condizioni materiali, il rifugio ideologico nell’illusione dello status professionale del proprio mestiere sembra funzionare ancora come anestetico del conflitto. Sembrano averlo capito perfettamente i sostenitori delle riforme scolastiche. Non è casuale l’insistenza bipartisan sulla necessità di applicare strumenti meritocratici per procedere più speditamente verso una maggiore gerarchizzazione dei ruoli – e, ça va sans dire, delle retribuzioni – all’interno della categoria. Il messaggio è chiaro: chi se lo merita davvero, avrà finalmente uno stipendio degno del suo ruolo professionale.
Se oggi forme parziali di diverso riconoscimento retributivo si limitano all’erogazione del salario accessorio, contrattato in ogni istituto tra dirigente e rappresentanze sindacali, all’orizzonte si intravede la possibilità di un nuovo inquadramento contrattuale per i docenti e il personale vario che si occupa di coordinamento gestionale, ossia quello che i sostenitori delle riforme neoliberali definiscono il middle management.
L’insegnante infatti percepisce uno stipendio base attribuito dall’adempimento degli obblighi scolastici legati alla didattica a cui si aggiungono 80 ore annue per la partecipazione alle attività collegiali (consigli di classe, collegio docenti, dipartimenti disciplinari). Eventuali ulteriori integrazioni al salario arrivano per “merito”, che a scuola significa assumersi carichi di lavoro aggiuntivi in orario extra-curriculare, retribuiti con l’equivalente di una pacca sulla spalla. Per esempio, il docente che decidesse di fare il tutor percepirà un’integrazione al reddito di circa 7 euro l’ora: ben poco se consideriamo queste ore degli “straordinari”, come a tutti gli effetti sono. Senza contare che il sovraccarico di compiti burocratici e amministrativi toglie inevitabilmente tempo alla didattica e alla relazione con studenti e studentesse: le vere mansioni dell’insegnante. In nome del merito, un’ennesima trappola ideologica.
Letture consigliate
Boarelli, M., Contro l’ideologia del merito, Laterza, Roma-Bari, 2019
Buyruk, H., ‘Professionalization’ or ‘Proletarianization’: Which Concept Defines the Changes in Teachers’ Work?, in «Procedia – Social and Behavioral Sciences», 116 (February 2014), pp. 1709–14
Evans, V., Professionals, Managers and Discretion: Critiquing Street-Level Bureaucracy, The British Journal of Social Work, Volume 41, Issue 2, March 2011, pp. 368–386
Magatti, M., De Benedittis, M., I nuovi ceti popolari. Chi ha preso il posto della classe operaia?, Feltrinelli, Milano, 2006
Sandel, M., La tirannia del merito. Perché viviamo in una società di vincitori e perdenti, Feltrinelli, Milano, 2021
Tsang, K. K., & Qin, Q. (2020). Ideological disempowerment as an effect of neoliberalism on teachers, in «Power and Education», 12(2), pp. 204-212