Il lavoro domestico retribuito nel welfare italiano “fai-da-te”
Il 2021 ha visto compiersi il decennale della Convenzione Oil (Organizzazione internazionale del lavoro) 189 sul lavoro domestico. Adottata nel 2011, la Convenzione ha come obiettivo principale definire più chiaramente ciò che è il lavoro domestico, nell’ottica di riconoscerlo e tutelarlo come “decent work”. L’articolo 1 stabilisce che «l’espressione “lavoro domestico” indica il lavoro svolto in o per una o più famiglie», e dunque che il lavoratore domestico è colui o colei che svolge lavoro domestico sotto compenso e all’interno di una relazione lavorativa.
Tratto definitorio essenziale del lavoro domestico è, dunque, il fatto che si svolga all’interno della dimensione privata della casa in cambio di un salario. La natura remunerativa che definisce la dimensione lavorativa di questa specifica occupazione è ciò che essenzialmente la distingue dal lavoro domestico gratuito storicamente identificato come vocazione naturalmente femminile. Per quanto riguarda, poi, le specifiche mansioni svolte, esse vanno dalla cura della casa all’assistenza personale: il lavoro di cura, dunque, rientra nella definizione di lavoro domestico quando viene definito come responsabilità domestica e svolto in cambio di remunerazione da una lavoratrice [data l’altissima componente di lavoratrici donne (88,7% secondo i dati INPS relativi al 2019), uso sempre il femminile N.d.A.] assunta direttamente dalla famiglia. L’Oil fa chiarezza sul punto, identificando tramite l’espressione “lavoro di cura diretto” tutte le attività di assistenza personale a bambini, anziani e disabili, e con l’espressione “lavoro di cura indiretto” tutte le attività di cura della casa, pulizie, cucina ecc. Il lavoro domestico è dunque una forma di lavoro di cura, quella in cui le mansioni si svolgono all’interno di un’abitazione privata e sotto responsabilità del nucleo familiare, comprendendo in tal modo tanto il lavoro di cura diretto, quanto quello indiretto. È proprio questo continuum concettuale tra il lavoro domestico gratuito e quello retribuito che ha storicamente portato al difficile riconoscimento del lavoro domestico come “vero lavoro”, spingendo l’Oil a adottare una specifica Convenzione sul tema, atta a incrementare la formalizzazione del settore e il suo inquadramento all’interno della normativa vigente. Per quanto concerne l’Italia, occorre evidenziare che è stato il primo tra i paesi dell’Unione europea a ratificare la Convenzione nel 2013. Eppure, il processo di ratifica si è svolto in maniera molto formale e istituzionale, tramite una logica top-down che ha avuto scarsa risonanza tra i media e l’opinione pubblica. La Convenzione Oil 189/2011 è stata, infatti, recepita in Italia come un passo importante ma non necessario, dal momento che il nostro paese è intervenuto con la legge 139 del 1958 per regolare il settore, e che la contrattazione collettiva nell’ambito del lavoro domestico è prassi dal 1974, anno in cui è stato siglato il primo Ccnl del settore. Un ruolo cruciale nel riconoscimento e nella tutela legale di questo specifico lavoro è stato svolto dal circuito cristiano delle Acli: basti pensare al Congresso di Siena del 1973 in cui, in un periodo certamente segnato in Italia dalle lotte del movimento operaio, si sancisce il principio della solidarietà politica di classe tra donne nella società e nello stesso movimento operaio, portando l’attenzione proprio sul tema del lavoro domestico e aprendo di fatto la strada al primo contratto collettivo nel 1974, anche a seguito dell’abolizione del divieto di contrattazione collettiva nel settore tramite sentenza della Corte costituzionale nel 1969. Tuttavia, analizzando complessivamente tanto il piano normativo quanto la sua attuazione pratica, appare evidente quella dimensione sui generis del lavoro domestico che difficilmente lo porta a essere riconosciuto, e conseguentemente tutelato, come “vero lavoro”.
Attenendoci al piano legale e contrattuale, infatti, l’approccio complessivo alla materia può essere definito derogatorio: molti restano i punti a oggi scoperti tanto dalla legislazione quanto dalla contrattazione. Come ricorda Borelli, le lavoratrici domestiche non godono in Italia degli stessi diritti degli altri lavoratori in termini di orario normale di lavoro, compenso per lo straordinario, riposo giornaliero e settimanale, ferie annuali. Il lavoro domestico è inoltre escluso dalla normativa vigente in materia di sicurezza sul lavoro, così come dalla disciplina sui licenziamenti individuali. Restano aperte anche delicate questioni di protezione sociale: il congedo di malattia ha una durata nettamente inferiore a quella prevista per altri lavori, e la relativa indennità viene pagata dal datore di lavoro e non dall’Inps; inoltre, le lavoratrici domestiche hanno diritto al congedo di maternità (riconosciuto obbligatoriamente alle sole madri) ma non al congedo parentale (riconosciuto a entrambi i genitori e su base volontaria), e la stessa indennità di maternità è versata dall’Inps solo a fronte di specifici requisiti contributivi.
Complessivamente, le previsioni normative sul lavoro domestico sembrano, dunque, ancora ben distanti dall’obiettivo di assicurare alle lavoratrici domestiche il medesimo trattamento riservato agli altri lavoratori, come previsto dalla Convenzione Oil 189/2011. Se è vero che una legge sul lavoro domestico esiste da tempo in Italia, e che la contrattazione collettiva regola gli aspetti salienti del settore, uno sguardo ai dati ci mostra quante siano le difficoltà ancora esistenti nel tutelare efficacemente queste lavoratrici. I più recenti dati Istat evidenziano un tasso di irregolarità lavorativa nel settore pari al 57% del totale; mentre il report DOMINA 2021 ricorda che tra le irregolarità più diffuse vi sono la registrazione di meno ore di quelle effettivamente lavorate, l’applicazione di contratti collettivi (ventuno in totale) poco tutelanti, casi diffusi di sotto-inquadramento e il ricorso a false partite Iva da parte di intermediari, quali agenzie e cooperative. La dimensione privata della casa che limita anche l’efficacia dei controlli, combinata a una normativa ancora molto derogatoria sul tema strutturano quella invisibilità che la sociologa Triandafyllidou definisce «attributo speciale del lavoro domestico» e che appare come suo tratto davvero distintivo. Al di là di un quadro normativo ancora carente, dunque, il problema che sembra interessare maggiormente il settore è proprio quello della concreta applicazione delle norme.
L’invisibilità tanto de facto quanto de jure del lavoro domestico appare, tuttavia, in netta contraddizione col ruolo cruciale che il settore svolge all’interno del nostro sistema economico e sociale. Nell’ambito di un contesto nazionale segnato, da un lato, da un aumento del tasso di invecchiamento della popolazione e, dall’altro, dalla scarsità di servizi sociali pubblici e gratuiti seppure con notevoli squilibri regionali il lavoro domestico retribuito consente di fatto a gran parte della componente femminile della popolazione di attivarsi nel mondo del lavoro e costituisce, specialmente per quanto riguarda l’assistenza agli anziani e il cosiddetto long-term care, una vera necessità per la maggior parte delle famiglie nel paese, come ricordato da Bettio, Simonazzi e Villa. Il mancato riconoscimento sociale ed economico di un lavoro rilevante come il lavoro domestico è una contraddizione che merita di essere approfondita per capirne le cause e le possibili soluzioni.
Come già si diceva, la definizione di lavoro domestico comprende tutte quelle attività di cura diretta e indiretta che si svolgono all’interno dell’abitazione, tanto in forma gratuita quanto in forma retribuita. Nel focalizzarsi su quest’ultima componente, questo contributo vuole evidenziare le principali motivazioni storiche, culturali ed economiche che ostacolano il processo di riconoscimento e tutela del lavoro domestico come lavoro degno, rispettoso dei principali diritti delle lavoratrici.
Punto di partenza necessario per inquadrare il problema è la storica distinzione tra lavoro produttivo e lavoro riproduttivo, e l’esplicitazione del legame esistente tra queste due dimensioni. Riprendendo la classica definizione di Brenner e Laslett del 1989, il termine riproduzione sociale comprende «un insieme di attività e attitudini, comportamenti e emozioni, responsabilità e relazioni direttamente coinvolte nel mantenimento della vita su base quotidiana e intergenerazionale». La sfera della riproduzione sociale non attiene, dunque, alla produzione materiale di beni e servizi, non producendo direttamente valore, ma risulta strettamente necessaria al mantenimento dello stesso sistema produttivo. Senza le quotidiane attività di riproduzione sociale sarebbe impensabile avere un sistema produttivo funzionante ed efficiente, poiché verrebbe meno la capacità di rigenerazione della stessa forza lavoro, anche a livello generazionale. Il lavoro dispensato all’interno di queste due sfere merita, dunque, di essere analizzato in maniera integrata, essendo questo l’obiettivo prioritario della teoria della riproduzione sociale. Eppure, storicamente si è assistito a un processo di rigida demarcazione e separazione di queste due sfere basato sulle differenze di genere, e avente come obiettivo la totale invisibilizzazione del lavoro riproduttivo svolto all’interno delle mura domestiche. Come spiegato da Federici, lo storico processo di divisione sessuale del lavoro matura e si compie all’interno del processo di sviluppo capitalistico: quello che di fatto accade è una progressiva messa a valore delle già esistenti disuguaglianze di matrice patriarcale, che contribuisce a strutturare una delle prime forme di accumulazione originaria. Col passaggio dalla casa alla fabbrica come unità produttiva essenziale, si è assistito a una rigida separazione spaziale tra il luogo pubblico della produzione e quello privato della riproduzione, e a una svalutazione delle attività riproduttive rispetto a quelle direttamente produttive. All’interno di questo processo il genere, inteso come categoria sociale che definisce le relazioni tra i sessi tanto nella sfera pubblica quanto in quella privata, viene definendosi nell’individuazione della sfera produttiva come luogo pubblico e maschile in cui il lavoro viene effettivamente riconosciuto come tale dalla sua capacità di generare valore e, dunque, remunerato; e della sfera riproduttiva come luogo privato e femminile in cui le attività a essa connesse vengono svolte gratuitamente dalle donne in quanto legate alla natura femminile accudente e protettiva. Se l’esclusione delle donne dalla sfera pubblica era già presente in molte civiltà di stampo patriarcale, lo sviluppo del capitalismo individua nell’istituzionalizzazione di questa divisione un’occasione di accumulazione di capitale a partire dal lavoro gratuito svolto dalla componente femminile. Nonostante le donne, specialmente quelle più povere e non bianche, abbiano sempre lavorato, l’identificazione delle donne con la sfera riproduttiva del lavoro gratuito ha portato a una simultanea svalutazione anche del lavoro produttivo da esse svolto, dal momento che la forza lavoro femminile veniva (e viene) considerata come secondaria e accessoria rispetto a quella maschile.
Eppure, questa rigida distinzione tra sfera produttiva e riproduttiva non attiene alla realtà dei fatti: essendo il lavoro domestico gratuito «condizione di possibilità per l’accumulazione capitalistica», come ricorda la filosofa femminista statunitense Nancy Fraser, il rapporto tra queste due dimensioni è sempre stato dialettico e storicamente situato. In altre parole, l’organizzazione della riproduzione sociale ha seguito quella della produzione, continuando a esserne condizione di possibilità. Fraser individua tre fasi principali di ristrutturazione di quella che definisce la «contraddizione tra capitale e cura». La prima fase, quella del capitalismo liberale competitivo del XVIII secolo, è stata messa alla prova dall’esplosione di questa contraddizione latente, dal momento che l’ipersfruttamento del lavoro femminile e minorile minacciava la stessa capacità di sopravvivenza e rigenerazione della classe lavoratrice. È allora che il lavoro stesso viene definito come qualcosa di diverso dalle altre merci, aprendo una fase di maggiore tutela definita come capitalismo a guida statale del XX secolo, in cui lo Stato assume la responsabilità del mantenimento e della protezione di lavoratori e lavoratrici attraverso le prime forme di welfare e protezione sociale, grazie anche a mobilitazioni e lotte degli stessi lavoratori e lavoratrici. Per concludere, la terza e ultima fase, quella del capitalismo finanziario del presente, vede un nuovo processo di mercificazione del lavoro e un ritiro dello Stato dalle sue responsabilità sociali e di welfare, con le mansioni riproduttive spesso trasformate in beni acquistabili sul mercato. A partire dalle crisi petrolifere degli anni Settanta del Novecento, dai processi di internazionalizzazione e finanziarizzazione del capitale e da quelli di ristrutturazione dello stesso sistema produttivo e di organizzazione del lavoro, «lo Stato ha nuovamente iniziato a scaricare in maniera unilaterale i costi della riproduzione sociale sulla classe lavoratrice». Si è assistito, dunque, a un processo di ri-privatizzazione e mercificazione delle attività riproduttive che è proceduto di pari passo alla progressiva erosione del regime di welfare dei diversi stati.
Alla luce di quanto appena esposto, appare evidente che parlare di riproduzione sociale implica parlare di welfare, e per farlo occorre necessariamente tenere conto delle differenze esistenti a livello nazionale. L’Italia, per esempio, ha sempre avuto un regime di welfare cosiddetto familista, ovvero basato sul ruolo essenziale della famiglia come cuscinetto e ammortizzatore tra dinamiche macro e strutturali, e dinamiche micro e individuali. Nonostante il conflitto industriale degli anni Sessanta e Settanta abbia ottenuto importanti risultati in termini di tutela della classe lavoratrice nelle diverse forme di protezione e assistenza sociale, la fornitura di servizi sociali pubblici ed effettivamente accessibili è sempre stata limitata rispetto ad altri contesti. Tuttavia, il massiccio ingresso delle donne nella forza lavoro a partire dagli anni Settanta e, ancora di più, il ben più recente processo di invecchiamento demografico, hanno negli ultimi anni messo in evidenza i limiti del familismo del nostro welfare, ulteriormente aggravati dai tagli alle spese pubbliche dettati dalle politiche di austerity post crisi del 2008. Le necessità domestiche e di cura restano definite come private e individuali, prive di qualunque forma di rilevanza sociale e politica, secondo una logica incapace di cogliere i nessi esistenti tra sfera produttiva e riproduttiva. Abbiamo così assistito in tutti i paesi, e anche in Italia, a un processo di mercificazione del lavoro riproduttivo, che vede le necessità domestiche e di cura non più come necessità sociali da tutelare in quanto diritti garantiti, ma come bisogni facilmente soddisfabili sul mercato, spesso grazie a trasferimenti monetari diretti, compensando l’assenza di servizi sociali accessibili e gratuiti per tutti.
In un contesto come quello italiano, la responsabilità privata e sessualizzata del lavoro riproduttivo si è scontrata con i bisogni concreti e materiali della forza lavoro, in primis quella femminile. La soluzione che molte famiglie hanno trovato per soddisfare i propri bisogni domestici, specialmente per quanto riguarda la cura degli anziani, a fronte di una spesa pubblica in long-term care tra le più basse di Europa, è stata quella di ricorrere alla forza lavoro femminile e migrante, arrivando alla definizione del modello di cura migrant-in-the-family. In altre parole, le donne italiane hanno di fatto esternalizzato le proprie responsabilità domestiche ad altre donne, migranti, senza mettere in discussione lo storico processo di divisione sessuale del lavoro e approfittando di una forza lavoro spesso poco qualificata, facilmente ricattabile e altamente sfruttabile. All’interno di un sistema di welfare “fai-da-te”, le famiglie italiane si trovano, dunque, ad arrangiarsi in base alle proprie possibilità economiche, senza poter contare su un effettivo sostegno istituzionale né in termini di servizi, né in termini di aiuti economici sostanziali. All’interno di un contesto in cui l’attenzione alla riduzione dei costi è essenziale per la maggior parte della famiglie tanto per necessità, quanto per l’eredità di quello storico processo di invisibilizzazione del lavoro riproduttivo che lo porta a essere difficilmente riconosciuto come “vero lavoro” poiché improduttivo, il ricorso a forza lavoro migrante e la dimensione privata in cui questo specifico rapporto di lavoro si svolge hanno di fatto aperto la strada a una serie di abusi e irregolarità da cui sembra essere difficile sfuggire senza un radicale e sostanziale ripensamento del ruolo stesso della riproduzione sociale.
All’interno del contesto sopra citato, il lavoro domestico retribuito emerge come componente essenziale del welfare “fai-da-te”, di cui soffre i principali limiti e distorsioni. Tuttavia, analizzare il fenomeno in una pura e semplice cornice di regime di welfare e diritto del lavoro appare spesso riduttivo: la determinante componente intersezionale di questo specifico lavoro, in cui il processo storico di divisione sessuale del lavoro e il regime migratorio basato sul nesso tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro determinano la condizione di invisibilità delle lavoratrici coinvolte, appare essenziale nel modificare la dimensione culturale del fenomeno. Affrontare il problema senza mettere in discussione l’attuale approccio alle politiche migratorie e il sessismo strutturante il familismo del welfare italiano porterebbe a risultati parziali e scarsamente efficaci. Se è vero che l’attenzione per la riduzione dei costi da parte istituzionale e la conseguente definizione delle mansioni domestiche e soprattutto di cura come responsabilità privata determinano la dimensione di invisibilità del settore come sua componente strutturale, è pur vero che, come ricorda la stessa Oil, il processo di invecchiamento della popolazione e la scarsità di servizi ci mettono quotidianamente di fronte all’essenzialità di questo lavoro nella nostra società.
Un chiaro esempio di questa contraddizione in termini tra invisibilità e rilevanza sociale del lavoro domestico si è avuto durante i primi mesi di lockdown, in piena pandemia da Covid-19. Fin dal decreto “Cura Italia” del 17 marzo 2020 il lavoro domestico è stato definito come lavoro essenziale: se la produzione può essere effettivamente bloccata in momenti eccezionali di crisi, non si può dire lo stesso della riproduzione sociale, che continua invece ad andare avanti. Eppure, nessun provvedimento di sostegno diretto alle lavoratrici domestiche è stato previsto in quel decreto: il lavoro domestico è stato escluso dal divieto di licenziamento e dalla cassa integrazione, e le lavoratrici non potevano accedere al bonus baby-sitter né ad altre indennità specifiche. Le lavoratrici domestiche sono state definite essenziali pur rimanendo, nei fatti, ancora una volta completamente invisibili. Solo a seguito di una presa di posizione delle associazioni datoriali, dei sindacati e della stessa opinione pubblica sono stati fatti dei piccoli passi in avanti; il cosiddetto “Decreto Rilancio” del 19 maggio 2020 ha previsto una specifica indennità di cinquecento euro per le sole lavoratrici non conviventi e assunte per più di dieci ore a settimana, per i soli mesi di aprile e maggio. L’art. 103 ha poi introdotto una nuova procedura emergenziale di emersione dal lavoro nero nei settori del lavoro domestico, dell’assistenza alla persona e del lavoro agricolo che testimonia la presa di coscienza della centralità di questi settori e della conseguente necessità di farli emergere da una condizione di estrema irregolarità.
Per quanto concerne l’esperienza di vita delle lavoratrici domestiche durante la pandemia, due sono state le condizioni essenziali a determinarla. Da un lato, l’essere conviventi o meno: se le lavoratrici non conviventi hanno vissuto un’ondata di licenziamenti spesso dovuti alla paura del contagio, le conviventi hanno invece visto rafforzarsi la loro condizione di invisibilità, venendo spesso segregate in casa con i loro assistiti (si tratta in maggior parte di assistenti familiari dedite alla cura diretta), con notevoli difficoltà nella distinzione tra tempi di lavoro e di riposo. Dall’altro lato, avere un contratto di lavoro regolare o non averlo: mentre le lavoratrici regolari hanno potuto accedere alle tardive e limitate misure adottate col Decreto Rilancio, le irregolari sono state ancora una volta abbandonate al loro destino. Nel concreto, le lavoratrici domestiche sono state considerate più come risorsa essenziale e iper-sfruttabile che come lavoratrici da tutelare e garantire in un periodo estremamente difficile. Ancora una volta la dimensione lavorativa formale di questo settore ha faticato a emergere: nel concreto l’esperienza vissuta dalle lavoratrici domestiche nei mesi di lockdown è stata determinata dal peculiare tipo di rapporto instaurato con i datori di lavoro. Al di là delle specifiche previsioni di legge, ciò che ha realmente contato è stato il rapporto di fiducia instaurato con i datori di lavoro e, soprattutto, con gli assistiti. D’altra parte, la stessa procedura di emersione straordinaria del 2020 esplicita quanto l’approccio emergenziale sia ormai divenuto la norma: a fronte di una condizione di invisibilità strutturale di cui gli attuali canali di ingresso in Italia per motivi di lavoro costituiscono un elemento essenziale, si procede con forme di emersione mirate e specifiche solo in periodi di estrema necessità. In condizioni di “normalità”, invece, si continua ad adottare un approccio basato sul sistema di quote del cosiddetto “Decreto Flussi” che, sottostimando puntualmente la domanda di lavoro in specifici settori (tra cui quello domestico) e senza impedire di fatto l’ingresso irregolare che pone i lavoratori migranti in posizione di estrema vulnerabilità e ricattabilità, lascia ampio margine a diverse forme di lavoro nero e grigio funzionali a quell’abbattimento dei costi che appare preoccupazione essenziale delle nostre istituzioni, prima ancora che dei nuclei familiari. In altre parole, se il lavoro domestico venisse effettivamente garantito e tutelato, ovviamente il suo costo aumenterebbe e, all’interno del welfare “fai-da-te” all’italiana, questo graverebbe troppo sulle spalle delle famiglie. D’altra parte, lo Stato continua a rifiutarsi di assumere responsabilità in merito, preferendo optare per misure di regolarizzazione straordinaria che ormai sono diventate la norma, senza mai agire sulle cause della diffusa irregolarità lavorativa in determinati settori: negli ultimi trent’ anni ben oltre due milioni di immigrati già presenti sul territorio sono stati regolarizzati tramite sanatorie.
Concludendo, possiamo affermare che l’invisibilità del lavoro domestico, pur essendo radicata in processi storici e culturali di lunga durata, ha oggi una rilevanza economica notevole, direttamente legata alla (dis)organizzazione del welfare all’italiana. È proprio quella costante svalutazione del valore tanto economico quanto sociale del lavoro domestico in quanto femminilizzato e razzializzato a consentire l’esistenza di un welfare “fai-da-te” che solleva lo Stato dalle sue responsabilità in campo di riproduzione sociale. Ovviamente, questo impatta inevitabilmente sulle condizioni di vita e di lavoro delle lavoratrici domestiche: assicurare condizioni di lavoro degne nel settore è necessariamente in contraddizione con la volontà di abbattere i costi. Le conseguenze, tuttavia, sono negative non solo per le lavoratrici, ma anche per le famiglie abbandonate a loro stesse, e per la stessa qualità dei servizi offerti, oltre che per la componente femminile della forza lavoro in generale. Appare evidente, infatti, che in un simile contesto, chi non dispone delle risorse necessarie per esternalizzare ad altre donne i propri compiti domestici e di cura sarà impedita di fatto nell’accedere al mondo del lavoro. Inoltre, come ricorda l’Oil , a fronte del costante invecchiamento della popolazione, la spesa destinata al settore della cura soprattutto degli anziani è inevitabilmente destinata a salire, anche solo nella forma dei trasferimenti monetari diretti alle famiglie (il cui impatto dipende strettamente dalle diverse posizioni di classe dei nuclei familiari). Se lo Stato, invece, si assumesse la responsabilità della riproduzione sociale e investisse in servizi pubblici accessibili, da un alto si potrebbero garantire migliori condizioni di lavoro, dall’altro si aumenterebbe l’occupazione tanto in forma diretta, quanto in forma indiretta (liberando molte donne dalla necessità del lavoro riproduttivo). Tuttavia, questo passaggio presuppone un radicale cambio di paradigma: la riproduzione sociale dovrebbe assumere rilevanza pubblica e politica, passando dall’essere responsabilità privata e familiare a questione pubblica e politica. Ripensare il ruolo stesso delle necessità di cura all’interno della nostra società appare, ancor di più dopo questi due anni pandemici, un’urgenza da affrontare.
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