Il Covid-19 in Lombardia: casi, esperienze, testimonianze di lavoratori
«Non pensavo che nel mio lavoro in ospedale avrei dovuto assistere a quello che ho visto durante i mesi più difficili della pandemia».
Durante l’estate, tra luglio e settembre 2020, cioè tra prima e seconda “ondata” della pandemia da Covid-19, abbiamo raccolto alcune interviste-testimonianze tra il personale medico e infermieristico di alcune realtà sanitarie operanti in Lombardia. Non siamo stati guidati da criteri di documentazione storica, né da un ordinato piano d’inchiesta che studiosi ben più esperti hanno peraltro già avviato. Abbiamo invece pensato che fosse importante dar voce ai lavoratori/trici della sanità nella regione che è stata ed è ancora la più colpita dalla pandemia da Covid-19, e assumere il loro punto di vista “a posteriori” su ciò che è avvenuto.
Abbiamo potuto contattare la maggior parte degli intervistati grazie ai buoni uffici della Cgil-Funzione pubblica della Lombardia, e in particolare della segretaria regionale Manuela Vanoli. Altri ci sono stati invece indicati da reti di amici e conoscenti, per cui i profili professionali sono molto diversificati: una psichiatra, due primari (di cui uno di terapia intensiva), due infermieri specializzati (Is) di cui uno in una Residenza sanitaria assistenziale (Rsa), un medico di pronto soccorso, un neurochirurgo, un medico di base. Solo tre (su otto intervistati) sono sindacalizzati. Le interviste sono state concesse dietro la garanzia dell’anonimato, dal momento che i Contratti collettivi nazionali del settore impongono l’obbligo del dipendente di ottenere esplicita autorizzazione dalle direzioni sanitarie degli ospedali e delle Rsa per poter concedere interviste. Abbiamo così dovuto optare per un resoconto giornalistico di ciò che abbiamo raccolto, riferendo come discorso diretto solo alcune battute delle interviste: un metodo forse poco rispettoso delle regole della storia orale, ma che vediamo complementare alle domande poste da OPM al collettivo di Medicina democratica nel pieno della crisi pandemica.
La frase qui sopra in esergo ci è stata ripetuta, quasi identica, da tutti gli intervistati.
La “prima ondata” a Milano e il caso Trivulzio
Solo per delimitare lo spazio temporale su cui concentreremo l’attenzione, e senza entrare per ora nella grave questione dei dati e della loro attendibilità, secondo la Dashboard Covid-19 pubblicata da Regione Lombardia la curva dei ricoveri si impennò in modo drammatico tra l’ultima settimana del febbraio 2020 (settimana 9) – quando i pazienti ricoverati erano solo 336 – e la settimana 12, la terza di marzo e la peggiore in assoluto con 3.721 ricoveri. Nelle sole due settimane centrali di marzo, nei reparti di terapia intensiva si dovettero ricoverare rispettivamente 373 e a 361 pazienti gravemente ammalati di Covid-19. La curva dei decessi seguì quella dei ricoveri, con un ritardo approssimativo di circa una settimana: nel mese di marzo, infatti, i decessi passarono da 131 (settimana 10) a 812, 2.129 e 2.849 (settimane 11, 12 e 13), per scendere poi lentamente a 2.712, 1.855, 1.539, 1.219 e finalmente 920 alla settimana 18. Caddero al di sotto della soglia dei cento decessi settimanali soltanto alla fine di giugno (69 decessi nella settimana 26).
Altro punto di riferimento importante è il momento in cui, oltre alle voci più o meno allarmate degli specialisti, si alzarono quelle dei lavoratori della sanità lombarda e insieme dei famigliari dei pazienti delle Rsa, a denunciare l’impreparazione, l’assenza di informazioni e in fondo l’arroganza di alcune direzioni sanitarie. «37 e 2», la trasmissione di Vittorio Agnoletto su Radio Popolare, cominciò a parlarne nella puntata del 12 marzo. I delegati sindacali Cgil e Cisl dei lavoratori del Pio Albergo Trivulzio di Milano intervennero sul caso del prof. Bergamaschini, docente all’Università Statale ed ex direttore della scuola di specialità di geriatria, esonerato dalla direzione sanitaria perché nel suo reparto consigliava agli operatori di indossare i Dispositivi di protezione individuale (Dpi), che la direzione proibiva al personale di usare «per non allarmare i pazienti». Al Trivulzio, «le prime mascherine le abbiamo viste il 2 aprile». Nel frattempo le visite dei famigliari erano già state sospese, con evidente apprensione di pazienti e parenti.
Bergamaschini venne reintegrato ai primi di aprile, ma i delegati sindacali decisero di rendere pubblico ciò che stava accadendo al Trivulzio, la maggior struttura geriatrica italiana, in particolare dopo che la direzione sanitaria suggerì via email ai medici di non inviare più pazienti al pronto soccorso senza aver contattato prima gli ospedali, già in crisi.
Questo è in effetti un punto delicato. Le Rsa non sono attrezzate per trattare le fasi acute o le urgenze, l’invio al pronto soccorso è una routine obbligata; ma certo, nelle settimane di marzo tutti i reparti di pronto soccorso della Lombardia erano diventati impraticabili e il rischio per i pazienti anziani altissimo.
In ogni modo, la confusione, le contraddizioni e in particolare la cattiva gestione della comunicazione al pubblico è stata centrale nella prima fase di espansione del virus nelle Rsa, e – com’è noto – non ha riguardato solo le strutture sanitarie ma anche i vertici di Regione Lombardia.
Ciò a cui stavano
assistendo gli operatori del
Trivulzio era qualcosa di
mai accaduto. Alla fine di
aprile si conteranno circa
trecento morti
L’assessore Gallera, a cui i lavoratori del Trivulzio inviarono una mail allarmata il 31 marzo («qui rischiamo la strage»), non pensò di rispondere, ma in un successivo confronto un delegato sindacale si sentì dire dall’assessore regionale alla Sanità e al Welfare «Tanto lei verrà querelato…».
Così il “caso Trivulzio” finì sulla stampa nazionale. Gad Lerner intervistò Piero La Grassa, delegato sindacale Rsu e coordinatore Cgil-Funzione Pubblica, da ventun anni infermiere al Trivulzio, e l’intervista venne pubblicata il 4 aprile su Repubblica sotto il titolo «Coronavirus, l’epidemia insabbiata: al Trivulzio di Milano si indaga su settanta morti». Fu un’aperta denuncia delle gravi responsabilità della direzione sanitaria che, dopo aver interrotto le visite dei famigliari, continuò a diramare bollettini medici “rassicuranti”, in cui si escludeva la presenza del virus nei reparti e soprattutto negava che vi fossero stati decessi in conseguenza del Covid-19. Anche ai lavoratori, che ne avevano fatto richiesta, i dati vennero negati.
Ciò a cui stavano assistendo gli operatori del Trivulzio, invece, era qualcosa di mai accaduto, 12-13-14 morti al giorno, «abbiamo perso pazienti che vivevano da noi da dieci-vent’anni, a cui eravamo affezionati». Alla fine di aprile si conteranno circa trecento morti, un numero che normalmente il Trivulzio registra in dodici mesi, nel periodo gennaio-giugno 2020 saranno complessivamente 430 decessi. A un certo punto 280 operatori erano a casa in malattia, non tutti Covid-19 per fortuna – anche se qualcuno è finito intubato – ma per qualunque genere di assenza il lavoratore doveva poi essere sottoposto a controllo e, in mancanza di tamponi, non potevano rientrare. «Ci siamo sentiti dire, dalla commissione d’inchiesta voluta da Regione e Comune, che c’è stato un assenteismo a livello straordinario durante la pandemia!».
Il Pio Albergo Trivulzio è una delle istituzioni più rappresentative della città di Milano e anche delle più emblematiche della storia recente. Erede della tradizione filantropica del patriziato milanese nell’epoca dell’assolutismo illuminato, la “Baggina” (perché situata sulla via per Baggio) fu nel 1992 al centro delle prime indagini che condussero a Tangentopoli. Ancora nel 2011 tornò alle cronache della corruzione con lo scandalo cosiddetto “affittopoli”, ovvero l’affitto o anche la vendita a prezzi più bassi del mercato di una parte dei circa 3.700 beni immobili (tra cui 1.700 appartamenti d’abitazione) appartenenti al patrimonio dell’ente. Dal 2003 il suo statuto giuridico è quello di ente pubblico operante in ambito socio-sanitario, sociale e educativo sul territorio della Regione Lombardia ma in particolare rivolto alla città di Milano, e ha inglobato i due storici orfanotrofi milanesi dei Martinitt e delle Stelline in una sola “azienda di servizi alla persona” (Asp), denominata Istituti Milanesi Martinitt e Stelline e Pio Albergo Trivulzio. Riunisce tre strutture, il Pio Albergo di via A. T. Trivulzio a Milano, la residenza per anziani Principessa Jolanda di via Sassi (adiacente alla Basilica di S. M. alle Grazie) e l’Istituto Frisia di Merate (Lecco), circa 1.200 posti letto complessivi. Vi lavorano circa 1.200 operatori, specialisti, medici, infermieri compresi, in parte dipendenti e in parte come consulenti a contratto.
L’azienda Pio Albergo Trivulzio è una delle maggiori in Lombardia, ma il complesso di via Trivulzio per dimensioni è forse un caso a sé, anche per il patrimonio edilizio che amministra. Non stupisce che non sia mai sfuggito alle ferree leggi del sottogoverno locale, e che la sua direzione sia sempre stata molto “politicizzata”. Per statuto, peraltro, la sua gestione è responsabilità paritetica di Regione Lombardia e Comune di Milano, e di conseguenza affidata a un direttore generale nominato dalla Regione ma con il parere favorevole del Sindaco di Milano. Oggi il direttore generale del Trivulzio è Giuseppe Calicchio, in carica dal gennaio 2019, classe 1971, laureato a Pavia in Filosofia ma con un lungo curriculum di manager nelle strutture socio-sanitarie lombarde, a partire dal decennio passato al servizio della Caritas diocesana di Vigevano. Lo stesso vale per il Consiglio di indirizzo dell’ente, composto da cinque membri di cui tre nominati dal Comune di Milano, tra cui il presidente. Ricopre questa carica dal 2015 Maurizio Carrara, laurea in architettura, presidente di UniCredit Foundation e prima manager nella società editrice del periodico non-profit Vita. Attuale vicepresidente è Stefania Bartoccetti, giornalista e insegnante di yoga, fondatrice di Telefono Donna, amica personale di Letizia Moratti e candidata (non eletta) nella lista di quest’ultima alle elezioni comunali del 2006. Gli altri componenti del Consiglio d’indirizzo sono: Bettina Campedelli, commercialista, docente nel corso di economia aziendale all’Università di Verona, membro del Cda di molte società di assicurazione, tra cui la Cattolica di Assicurazione di Verona, nonché presidente del colosso dell’edilizia Icm Spa di Vicenza e vicepresidente della Fondazione Monte dei Paschi di Siena; Elena Airaldi, architetto progettista di strutture ospedaliere, figlia di Luigi, urbanista e docente del Politecnico; e Francesco Triscari Binoni, classe 1946, aiuto e poi primario di Malattie dell’apparato respiratorio presso l’Ospedale di Desio e quindi dell’Azienda ospedaliera di Desio-Vimercate, per anni presente nei Cda di aziende a partecipazione pubblica come Ferrovie Nord Milano, Interporti Lombardi Spa, Aeroporto di Orio al Serio, Malpensa Logistica, Trenord ecc. nonché per tre lustri consigliere comunale a Milano eletto nelle liste di Forza Italia.
Il direttore socio-sanitario, invece, è nominato dal direttore generale ed è carica attualmente ricoperta da Pierluigi Rossi, classe 1955, laureato in Medicina a Milano e specialista in Terapia fisica e riabilitazione.
Il 10 aprile 2020 Cgil, Cisl e Uil depositarono una denuncia in Procura contro il direttore generale Calicchio, seguita da una decina di denunce di altri dipendenti e soprattutto dei famigliari dei degenti deceduti. L’11 aprile la stampa informò che oltre a Calicchio erano stati iscritti nel registro degli indagati anche i dirigenti di altre Rsa. Le indagini si concentrarono inizialmente su un centinaio di decessi e sul trasferimento di pazienti di altre strutture con sintomi da Covid, e condotte dal procuratore Tiziana Siciliano, che ha ascoltato i lavoratori minacciati perché portavano la mascherina e quelli che hanno assistito i pazienti Covid fino all’ultimo. Quanto alla commissione istituita dalla Regione (7 commissari su 8 della Regione, uno solo per il Comune, Gherardo Colombo), non ha sentito né i dipendenti né i delegati.
In seguito il clima al Trivulzio non migliorò di certo, anzi cominciarono le ritorsioni verso medici e infermieri più esposti, anche minacciati, e verso il comitato dei parenti, i cui famigliari degenti sono stati allontanati dal Trivulzio «in considerazione del fatto che è venuta a mancare la necessaria fiducia tra paziente e Istituto». Durante l’estate è stato persino deciso di spegnere l’aria condizionata nei reparti, come “misura precauzionale” per non diffondere il virus: mentre il termometro nei reparti raggiungeva i 35°, al personale veniva imposto – pena sanzioni interne – di indossare camice e sovracamice, mascherina, guanti.
Ai confini delle “zone rosse”
Al di là di come l’abbiano voluta trasformare i governi regionali guidati da Formigoni, Maroni e Fontana, la sanità lombarda non può essere considerata se non come un organismo sistemico, in cui il funzionamento di una sua parte (di un servizio territoriale o di una filiera specializzata) influisce su come funzionano le altri componenti del sistema, e ne è da queste condizionato.
Nei mesi successivi al febbraio 2020, di fronte a una pandemia molto seria e a rapida diffusione qual è quella da Covid-19, il sistema lombardo è andato rapidamente in sofferenza e quindi in crisi, e ha potuto tenervi testa solo grazie al sacrificio e all’intelligenza di chi in questo sistema lavora quotidianamente e rende umano e sopportabile che tutta questa grande e complessa macchina, fatta di routine burocratiche più che di “eccellenze”, sia stata modellata dalla legge del profitto.
Il caso dell’Ospedale Oglio Po di Casalmaggiore (Cremona) è in questo senso significativo. Si tratta di una struttura medio-piccola, con 240 posti letto accreditati, dipendente dall’Asst di Cremona ma posto all’intersezione del confine provinciale con Parma e Mantova. Quando gli ospedali della “zona rossa” di Codogno-Casalpusterlengo-Lodi – una decina di comuni della Bassa lodigiana, i primi a essere isolati per decreto governativo, a partire dal 23 febbraio scorso – non poterono essere più ricettivi, indirizzarono i pazienti verso le zone vicine, appunto Crema, Cremona e, a cascata, Casalmaggiore.
A livello aziendale, l’ospedale Oglio Po entrò in emergenza già il 20 febbraio, inizialmente cercando di sviluppare al suo interno un protocollo basato sulle linee guida internazionali, oltre che sull’eziologia del virus, per l’utilizzo dei Dpi. Tuttavia la bozza di protocollo diventerà definitiva molto più avanti, dalla metà di aprile, e inoltre circolò in forma cartacea e senza la verifica che fosse stata effettivamente recepita. Era importante – come ha anche sostenuto l’Istituto superiore di sanità (Iss) – che il personale fosse addestrato all’uso dei Dpi contro questo nuovo rischio biologico, «ma secondo noi – ci ha detto uno degli infermieri che, come delegato sindacale, ha tenuto i contatti con la direzione sul problema della sicurezza del lavoro degli operatori – non c’era la certezza che tutti gli operatori ne fossero a conoscenza. Alcuni eventi formativi, in videoconferenza o in aula magna, ci sono stati, ma secondo noi non son stati sufficienti. Per esempio la vestizione e svestizione sono momenti delicati, in cui il virus potrebbe facilmente contagiare se le regole non sono attentamente rispettate», a partire da quella – banale – dei doppi guanti.
A Casalmaggiore i Dpi non sono mai mancati, anche se in alcuni momenti le scorte si sono drammaticamente assottigliate. «Abbiamo richiesto informazioni sullo stato dell’approvvigionamento dei dispositivi, sulle loro certificazioni che ci parevano non conformi alla normativa. Siamo riusciti a entrare in contatto con lo stesso ente certificatore cinese – oggi riconosciuto da Regione Lombardia, Iss e Protezione civile – e la risposta fu che la certificazione in oggetto era fasulla».
Carenze significative, invece, vi sono state sulle indicazioni interne, come la rilevazione della temperatura corporea – partita con un mese di ritardo – e soprattutto il mancato addestramento ai Dpi di 3a categoria, cioè ai Dpi da utilizzare in caso di esposizione del lavoratore al rischio di morte o di grave danno, Dpi per cui l’addestramento è obbligatorio. Nel caso del virus del Covid, per esempio, la mascherina filtrante diviene un Dpi di 3a categoria: non la mascherina chirurgica, si badi, che protegge solo in uscita, ma il cosiddetto “facciale filtrante” di tipo 2 e 3, che protegge anche in entrata. Inoltre a Casalmaggiore i primi tamponi agli operatori sono stati fatti solo ai primi di marzo, il che ha causato un’ecatombe, con tantissimi contagiati tra medici e infermieri, e di conseguenza si è registrato un “fermo” dell’attività ospedaliera: i contagiati sono entrati in “infortunio”, tenuti a casa in quarantena sorvegliata. I tamponi sono proseguiti fino alla metà di marzo, quando sono stati interrotti perché altrimenti non sarebbe più andato nessuno a lavorare. Fino al 30 aprile il tampone è stato riservato a chi presentava i sintomi, mentre a quella data tutti i dipendenti avevano fatto il test sierologico.
Anche qui, sebbene su scala minore, si sono dunque registrate gravi carenze soprattutto nella circolazione delle informazioni, come le rappresentanze sindacali hanno segnalato alla direzione generale dell’azienda, oltre che al Servizio di prevenzione e protezione. Certo, sono state carenze in qualche modo dovute alle dimensioni dell’emergenza, ma è significativo che le criticità abbiano riguardato soprattutto il punto specifico della protezione della salute sul luogo di lavoro.
Apocalisse bresciana?
Seconda, dopo Milano, per numero di pazienti Covid-19 e per decessi, Brescia è un punto di osservazione privilegiato per indagare la condizione del lavoro ospedaliero durante la pandemia.
Per parecchie settimane tra marzo e maggio gli Spedali Civili di Brescia – una delle più grandi aziende ospedaliere italiane, con oltre 1.900 posti letto, di cui la metà nel grande complesso cittadino di Mompiano – sono stati praticamente un ospedale “full Covid-19”, quasi tutti i posti disponibili erano occupati da pazienti infetti da Coronavirus: «Probabilmente in quelle settimane eravamo il maggiore ospedale Covid-19 del mondo occidentale». L’articolazione organizzativa è stata sconvolta, l’attività dei reparti specialistici ridotta all’osso e tutto lo sforzo diretto a combattere la pandemia. Per esempio, il reparto di Neurochirurgia è stato dimezzato, e ha operato invece che su due sale chirurgiche su una sola, praticamente occupata a tempo pieno. In effetti non sono stati pochi i casi di anziani affetti da Covid-19 che si sono procurati traumi cranici in seguito a svenimento o caduta accidentale, e in ogni caso si dovevano affrontare le urgenze. «Abbiamo anche effettuato alcuni interventi di neurochirurgia neonatale, quelli non rinviabili. In questi casi, non abbiamo isolato solo il bambino ma anche il genitore che lo accompagnava, come sempre in casi di pazienti così piccoli, e che è dovuto rimanere per tutta la durata del ricovero all’interno della “bolla” allestita in reparto, una misura pesante ma inevitabile».
In ospedale «la
solidarietà del lavoro è
stata fondamentale»,
ma il lato personale e
privato di questo sforzo
è stato pesante
Quanto al pronto soccorso degli Spedali, è diventato una vera “prima linea”. Dal 14 marzo si cominciarono a trasferire i pazienti Covid-19 verso Sondrio e Varese, poi anche più lontano. A quella data c’erano 41 posti in terapia intensiva, più altri 5 in allestimento, ma in breve le disponibilità crebbero, anche per terapia sub-intensiva. Si allestì un “centro triage” di fronte al pronto soccorso, all’aperto sotto alcune tende da campo, persino dotato di Tac, anche se di fatto «il vero triage veniva già effettuato in base ai sintomi più evidenti sulle ambulanze dai barellieri, che si tenevano in contatto telefonico con il pronto soccorso», in modo da sapere subito dove collocare il paziente al suo arrivo. Poi si ricavarono altri posti letto nell’ex lavanderia e nella mensa, tanto che il 4 aprile fece la sua comparsa ai Civili l’assessore regionale Gallera per annunciare l’apertura di un’ala dell’ospedale dedicata all’emergenza Covid-19, con 180 nuovi posti: «Questa degli Spedali Civili è una delle strutture più grandi di Regione Lombardia per il coronavirus e nasce con un modello che prendiamo da Israele», ha dichiarato nella conferenza stampa.
I costi umani sono stati enormi, ma a qualche mese di distanza traspariva anche un certo orgoglio («Se ce l’abbiamo fatta in quella situazione… non potrà esserci nulla che si ripeta in quello stesso modo. Forse potrà ripetersi in altre regioni, che non hanno avuto la “preparazione” che abbiamo avuto a Brescia») e uno sguardo sereno a ciò che avrebbe potuto succedere – e in effetti sta succedendo – in autunno: «La città ha risposto bene, ha imparato la durissima lezione, e oggi [settembre 2020, N.d.R] le misure di distanziamento e di prevenzione come la mascherina in pubblico sono generalmente rispettate. I casi di Covid che abbiamo registrato durante l’estate sono stati tutti importati “da fuori”, cioè conseguenza di viaggi all’estero o spostamenti lavorativi».
In ospedale «la solidarietà del lavoro è stata fondamentale», ma il lato personale e privato di questo enorme sforzo è stato parecchio pesante. Tutto il personale medico e infermieristico è andato al lavoro, per settimane, senza sapere se a fine turno ognuno e ognuna di loro avrebbe potuto tornare in famiglia, tutti praticando l’auto isolamento in casa per preservare i congiunti dal rischio di essere contagiati.
«Ho dovuto “accompagnare” il mio vecchio professore di specialità, 82 anni, arrivato qui già molto sofferente e per il quale non ho potuto fare nulla se non stargli vicino». Ma recuperare la dimensione umana del lavoro medico ha implicato uno sforzo particolare: «Mi sono visto riflesso nel vetro della porta del reparto con camice, sovracamice, stivali, maschera facciale filtrante, occhiali di protezione, doppi guanti, in mano la lista dei trasferimenti giornalieri: cioè il destino delle persone che stavano lì. Ero come un personaggio di Orwell, come il medico del lager. Ho deciso in quel momento che ogni giorno avrei dedicato un po’ di tempo a conoscere i miei pazienti, le loro storie, le loro paure e le speranze, a parlare con loro».
Le bare di Cinisello
Il 28 settembre scorso il Washington Post annunciò in prima pagina il raggiungimento del tragico traguardo di un milione di morti da coronavirus nel mondo. A commento della notizia era un’immagine, scattata esattamente sei mesi prima, il 27 marzo, nel cimitero di Cinisello Balsamo, dove numerose bare provenienti dalla provincia di Bergamo erano in attesa di sepoltura. In quei giorni si era saputo che le camere mortuarie degli ospedali e i cimiteri bergamaschi non erano in grado di “smistare” le spoglie dei deceduti per Covid-19, e che i camion dell’esercito trasportavano le bare nei cimiteri di mezz’Italia.
Per numero assoluto di decessi, anche in proporzione alla popolazione contagiata, l’area bergamasca è stata – insieme a quella lodigiana – il territorio lombardo più colpito dalla prima, violenta ondata della pandemia, inverno-primavera 2020. Ne è stato un testimone privilegiato Bruno Balicco, che ha avuto una lunga carriera prima come medico rianimatore agli Ospedali Riuniti di Bergamo, poi come primario a Clusone e a Zingonia. In pensione dall’aprile 2019, a marzo è tornato in servizio al Policlinico San Marco di Zingonia per dare una mano nel momento di maggior crisi: «La prima notte di guardia a Zingonia… mai visto un’emergenza simile. Arrivano venti pazienti con la polmonite bilaterale interstiziale al pronto soccorso, quando solitamente ne vedevamo sette-otto all’anno». Poi è andato a dirigere il reparto di terapia intensiva al Policlinico San Pietro di Ponte San Pietro, stesso gruppo dell’ospedale di Zingonia, dove il primario era risultato positivo al Covid-19.
Raccogliendo i dati dei due ospedali per uno studio in via di pubblicazione, Balicco ha valutato come «enormemente sottostimate» le cifre globali ufficiali, cioè 11.360 casi accertati con 2.994 decessi in provincia di Bergamo nei soli mesi di marzo e aprile. Ciò si deve al cosiddetto “criterio di attribuzione di caso”, in cui l’attribuzione al Covid-19 come principale causa di morte era fornito dalla positività al tampone. Prendendo invece a riferimento l’aumento della mortalità generale nella provincia di Bergamo di uno studio pubblicato dall’Istat, e incrociando con i dati “sul campo” dei due ospedali bergamaschi, i decessi da Covid-19 nel bimestre sono probabilmente stati circa 6.500, più del doppio della cifra ufficiale.
Balicco tiene a mettere in evidenza che durante la pandemia le strutture del “privato accreditato” hanno dato il meglio di sé per arginare l’orrore della pandemia e, forse per la prima volta nella storia della sanità lombarda, non ci sono state differenze tra ospedali pubblici e ospedali privati. «Certo, forse non si poteva fare altro, a ogni modo le nostre direzioni sanitarie hanno sospeso le procedure chirurgiche – quelle più redditizie – e i 14 posti di terapia intensiva nei due ospedali [di Zingonia e Ponte San Pietro] sono immediatamente diventati Covid-19, con un’intensità di cura paragonabile alle strutture pubbliche. Impossibile però mantenere il rapporto di 2 a 1 tra operatori e pazienti in terapia intensiva, perché questo virus è molto contagioso e ha conseguenze importanti sul 20% dei contagiati, la metà dei quali finisce in terapia intensiva».
Anche dal punto di vista del coordinamento regionale per smistare i pazienti negli ospedali meno affollati, le strutture private si sono pienamente inserite nella rete regionale, gestita dal centro unico del Policlinico di Milano, diretto dal prof. Antonio Pesenti, direttore del dipartimento Anestesia-rianimazione ed Emergenza urgenza. Va detto che questo è avvenuto solo dopo che la Regione Lombardia ha garantito agli ospedali privati – di fatto paralizzati dalla pandemia nella loro attività ordinaria – congrui livelli tariffari per le prestazioni rivolte a pazienti Covid-19, firmando accordi di settore anche in deroga ai tetti di spesa vigenti.