Numero 2. Dicembre 2020,  Sociale

Il costo sanitario della pandemia

Sin dalla preparazione del primo numero, la redazione di OPM ha pensato di aprire un dialogo con il collettivo di Medicina Democratica intorno alla pandemia da Covid-19, le sue ragioni, le sue conseguenze (da questa collaborazione è nato anche uno degli incontri del convegno “Salute e lavoro in Veneto” del 17 ottobre 2020, a Padova). Sono emerse così alcune “domande” che hanno segnato diversi momenti di questo dialogo a distanza, a partire dall’aprile 2020, in piena “prima ondata”. Durante l’estate, cioè ben prima della “seconda ondata”, abbiamo ricevuto da Md anche l’“introduzione” che pubblichiamo qui di seguito e che opportunamente sottolinea come la logica del mercato sia profondamente radicata nella stessa Organizzazione Mondiale della Sanità.

Ringraziamo Enzo Ferrara, che ha raccolto e editato le risposte dei componenti di Medicina Democratica alle domande di OPM (più avanti in corsivo).

Disegno: Arpaia
Disegno: Arpaia

Lo scorso 11 agosto 2020 l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha annunciato la costituzione di una Commissione pan-europea dedicata ai temi della salute e dello sviluppo sostenibile per “ripensare le priorità politiche alla luce della pandemia da Coronavirus”, alla cui presidenza è stato nominato il senatore a vita Mario Monti, già Presidente del Consiglio dal 16 novembre 2011 al 28 aprile 2013. Oltre che Presidente dell’Università Bocconi dal 1994, Monti è stato anche Commissario europeo per il mercato interno tra il 1995 e il 1999 nella Commissione Santer e ha rivestito il ruolo di Commissario europeo per la concorrenza fino al 2004 nella Commissione Prodi. Alla luce della pandemia in corso, che ha bruscamente svelato i limiti e le debolezze dei sistemi sanitari improntati esclusivamente sulla medicalizzazione – attenti cioè solo alla cura delle malattie e mai alla loro prevenzione –, questa nomina conferma l’approccio arcaico e a tutela dello “status quo”, più che della salute globale, anche da parte della più importante organizzazione internazionale di difesa della salute, perfino nella gestione di un’emergenza planetaria. Un’ennesima manovra di difesa delle posizioni di dominio economico, patriarcale e conservatore senza una reale volontà di ripensamento culturale del concetto di salute come bene personale e collettivo, di tutti e di ciascuno. Europeista convinto, in economia Monti sostiene il mercato, le liberalizzazioni e il rigore dei conti pubblici. In Italia si è fatto promotore dell’economia sociale di mercato: un modello di sviluppo che subordina la giustizia sociale alla libertà di impresa lasciando allo Stato il solo ruolo suppletivo laddove il mercato stesso fallisca nella sua “funzione sociale”, senza però interferire con i suoi esiti “naturali”. Con Monti a capo della Commissione pan-europea dell’Oms si continua a sostenere il predominio dell’economia anche nel campo della tutela sanitaria – dove sono invece fondamentali tanto le politiche di tutela diffusa della salute e dell’ambiente quanto quelle di educazione preventiva – rendendo impossibile fermare la deriva verso l’insostenibilità dei sistemi sanitari, oggi seconda voce di spesa pubblica in Italia dopo il rimborso del debito, e verso maggiori diseguaglianze sociali anche nelle nazioni più ricche e potenti.

Per ritornare sui temi delle politiche sanitarie con prospettiva sul futuro immediato, per recuperare e ridefinire gli obiettivi principali di intervento con la prevenzione e la partecipazione come pilastri del sistema, non si potrà prescindere dalle lezioni apprese a causa del Covid-19. Proviamo dunque a riprendere il discorso partendo dalle esperienze maturate in piena pandemia da operatori sanitari, lavoratori e cittadini mano a mano che la situazione sanitaria andava uniformandosi, almeno sul piano delle procedure in emergenza, e gli operatori imparavano scambiandosi informazioni pratiche su come trattare i pazienti affetti da Covid-19 nelle diverse condizioni di gravità affrontando anche il problema di come contenere il contagio. 

Dall’insieme emerge la disfatta delle strutture di cura e di protezione sanitaria a partire dalla mancata prevenzione e dalla sottovalutazione del pericolo del Coronavirus di cui sono responsabili in tanti. La débâcle era visibile già nell’informazione mal gestita e confusa su scala internazionale. In Italia se ne occupava la Protezione civile con i dirigenti del Servizio sanitario nazionale (Ssn) e dell’Istituto superiore di sanità (Iss), che hanno commentato a lungo i dati di contagi, ospedalizzazioni, mortalità e guarigioni senza spiegarne le incongruenze e senza specificarne il valore relativo a seconda delle modalità di conteggio.I numeri di una pandemia di tale portata sono complessi ma c’è il timore che l’incompletezza informativa sia stata e sia ancora funzionale alla volontà di uscirne comunque al più presto. Il 31 luglio 2020 il New York Times dopo una verifica dei dati di mortalità in 28 paesi del cosiddetto “primo mondo” contava almeno 161.000 decessi in eccesso nel 2020 rispetto al numero di vittime ufficiali del Covid-19. Una stima che vede al rialzo il costo umano della crisi sanitaria globale – alla quale l’Oms ha oggettivamente opposto poco più che una resistenza di facciata, passiva – e che include, oltre alle vittime del Coronavirus, anche chi pur essendo colpito da altre patologie non ha potuto accedere alle cure in ospedali e strutture sanitarie quasi totalmente dedicate al contenimento della pandemia.

È chiaro che sulla diffusione e sul numero delle vittime dell’epidemia di Covid-19 in Italia e soprattutto in Lombardia non c’è stata raccolta di dati istituzionale e scientifica. Tutte le decisioni politiche sono state prese sull’onda dei timori e delle pressioni della politica locale e nazionale, a sua volta oscillante tra sottovalutazione e drammatizzazione. I soli studi seri che ci sono capitati sotto gli occhi sono quelli di A. e G. Remuzzi (rispettivamente dell’Università di Bergamo e dell’Istituto M. Negri) e di Grasselli, Pesenti, Cecconi (ricercatori presso il Policlinico di Milano e l’Humanitas di Rozzano). Chi dovrebbe raccogliere i dati epidemici sul campo, e di quali strumenti avrebbe bisogno?

I piani italiani di emergenza per una pandemia, purtroppo datati ancora ai tempi della Sars (2005/2006), non prevedono indicazioni specifiche, ma la gestione della crisi – anche in termini di raccolta e distribuzione dei dati aggregati – spetta agli organi del Ministero della Salute e in particolare al Centro nazionale per la prevenzione e il controllo delle malattie – Ccm.

La raccolta dei dati è stata disordinata soprattutto durante le prime settimane di marzo, quando solo la Protezione civile è riuscita a organizzare un primo servizio specifico. Poi, poco per volta si è tentata una ricostruzione anche di tipo istituzionale e scientifico della situazione, cosa comunque per nulla semplice vista la drammatica portata della pandemia. I dati epidemiologici attendibili si raccolgono, in condizioni non di emergenza, con modalità ben diverse da quelle che abbiamo visto riportate nei media per mesi, cioè attraverso registri ufficiali di diverso genere e verificando ogni minima variazione dei parametri associati a incidenza e mortalità su base cronologica. Per esempio si suddividono le persone per età, genere, località geografica, condizioni di ospedalizzazione, anamnesi delle patologie pregresse e se si riesce si distinguono anche le tipologie socio-economiche dei soggetti coinvolti. 

Purtroppo, l’emergenza ha costretto tutti a cercare informazioni e fare previsioni sui dati di cronaca – perché è questo il livello di analisi ancora attualmente proposto – che sono disordinati e anche incongruenti, ma disponibili in quantità, purtroppo, anche superiore al necessario.

Un esempio di confronto, per quanto approssimativo, sono i dati epidemiologici che si raccolgono quando ci sono ondate di calore che comportano eccessi di ospedalizzazione e soprattutto di decessi, sistematicamente per malattie che interessano anche l’apparato respiratorio. Anche in quel caso, tutti i parametri di distinzione visti prima assumono valore rilevante. 

Comunque, le prime analisi con valore epidemiologico – ricordiamo che sono sempre analisi di confronto – sono state disponibili dalla fine di marzo, quando l’Istat ha diffuso il numero totale dei decessi per alcuni comuni della Lombardia (434 comuni su 1507) e del Veneto (122 comuni su 563) per il periodo dal 1 gennaio al 21 marzo degli anni 2015-2019 e per lo stesso periodo del 2020. I dati continuano a essere incompleti, perché non riguardano tutti i comuni ma appena il 56,5% di quelli lombardi e il 21,8% di quelli veneti. La corrispondenza con i dati di popolazione non è immediata ma si può ricostruire con l’elenco dei comuni. Le prime evidenze indiscutibili, a prescindere dalle cause, sono: un eccesso di mortalità nelle due regioni rispetto al passato e una situazione peggiore in Lombardia, soprattutto in termini di mortalità nei primi 80 giorni del 2020.

Ogni altra deduzione al momento è rischiosa e difficile da confermare. Ciononostante, occorre lavorare su questi dati per capire se le scelte sanitarie in parte diverse fatte in questi due territori portano o meno dei vantaggi in termini di diffusione del contagio e soprattutto di vite salvate. 

Per esempio, occorre capire se abbiano avuto un ruolo le diverse strategie di riconoscimento dei contagiati – la cosiddetta politica dei tamponi – e se la diversa contagiosità e letalità siano legate a diversità nella struttura socio-economica e/o orografica delle due regioni, a una diversa efficacia dei trattamenti in ospedale e in terapia intensiva o, ancora, a diversi livelli di stress del servizio sanitario. Un altro dato importante emerso nel confronto con la Lombardia è la minore frequenza di operatori e operatrici sanitarie infettate rilevata in Veneto, questo può rafforzare l’idea che i pronto soccorso e in generale l’ospedalizzazione con scarsa attenzione alla protezione del personale medico abbiano generato inizialmente più focolai in Lombardia.

Non si può inoltre scordare che la differenza di decessi tra le due regioni, osservabile fin dall’inizio della crisi, avrebbe dovuto essere calcolata tenendo in considerazione anche i tempi di innesco del contagio, che potrebbero esser stati diversi; questo avrebbe dovuto portare a un riallineamento dei dati nelle settimane successive, evento che però non si è verificato, mentre si è al contrario evidenziato un sostanziale e continuo scostamento dei tassi di contagio e mortalità molto più elevati in Lombardia (33% contagi, 45% dei decessi) rispetto a ogni altra regione italiana. 

Come commentare le differenti strategie nei paesi via via interessati dalla pandemia? Tampone generalizzato? Solo nei casi sospetti? Solo ai pazienti ricoverati, per seguirne il decorso?

In realtà l’Oms aveva diffuso delle linee guida già lo scorso anno (Global Preparedness Monitoring Board 2019) e aggiorna di continuo le informazioni che collettivamente tutte le nazioni dovrebbero adottare per fronteggiare la pandemia. Gli stati singoli però hanno aggiornato raramente le proprie strutture e i propri piani di reazione con prontezza. Il 13 agosto 2020 The Guardian ha azzardato una stima secondo cui se l’Italia avesse aggiornato il proprio piano anti-pandemie secondo le linee guida indicate dall’Oms e dal Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (Ecdc), si sarebbero potute salvare 10.000 vite sulle 35.000 finora perse a causa del Covid-19. Purtroppo, oltre ai ritardi nell’opera di prevenzione, in questa pandemia emergono non solo le diverse volontà politiche e le differenti sensibilità democratiche dei paesi, ma anche le enormi differenze in termini di capacità di assistenza sanitaria pubblica e di disponibilità economiche dei singoli.

È paradossale che
proprio il sistema
sanitario regionale
contribuisca alla
diffusione del contagio

Il virus è aerogeno, si diffonde nell’aria e per semplice contatto tra persone e superfici, a differenza di altri virus che hanno solo una trasmissione ematica o attraverso liquidi sierologici, come l’Aids. Il distanziamento, da 1 a 4 metri, e la mancanza di contatti sociali e lavorativi sono ritenuti gli strumenti di prevenzione migliori per impedire al virus di replicarsi nelle cellule umane. Diversamente da altri stati come la Cina e la Corea del Sud, che sono state colpite prima di noi, non abbiamo adottato la disinfezione mediante agenti sterilizzanti con nebulizzazione costante di intere città, metropolitane, uffici, luoghi di lavoro, case, chiese, sale riunioni ecc. concentrandoci solo sull’igiene personale; inoltre si è prescritto di evitare contatti, strette di mano, e di indossare le mascherine senza fornire indicazioni precise sul loro funzionamento. Per quanto riguarda il tampone faringeo inizialmente è stata data indicazione di effettuarlo solo nei casi estremi del paziente sintomatico in ospedale e non all’asintomatico a casa, questo è stato un errore che ha portato inevitabilmente a una sottostima dei casi e a falsare i dati dei positivi e le relative percentuali rispetto ai decessi.

Si è così verificato un paradosso di non poca rilevanza: inizialmente pazienti sintomatici ma in casa hanno solo dovuto attendere il decorrere di 14 giorni di trattamento con antipiretici senza obbligo di fare altri test; terminato questo periodo avrebbero potuto in teoria anche tornare al lavoro se appartenenti a categorie autorizzate. Nemmeno gli eventuali familiari asintomatici erano considerati nella griglia di osservazione; quindi, una persona sintomatica eventualmente positiva aveva la possibilità di contagiare un certo numero di persone in famiglia che a loro volta, inconsapevoli, hanno potuto contagiare altre persone, allargando e ampliando il numero dei contagi. L’eventuale paziente sospetto che avesse avuto un aggravamento dei sintomi poteva infine recarsi all’ospedale per effettuare il tampone, ma così facendo aumentava la concentrazione del virus nei centri di cura, da cui è derivato il 9% dei pazienti contagiati in Italia appartenenti al personale sanitario e i troppi decessi, sempre tra il personale sanitario, con la deduzione dell’Iss che è stato l’ospedale il maggiore centro di contagio nella epidemia. In sostanza, il Ssn era impreparato all’emergenza. In Cina, dove le pandemie sono più comuni, hanno rapidamente separato le strutture di cura per Covid-19 dalle altre. 

Oggi [aprile 2020, N.d.R.] l’Oms scrive che occorre correre dietro al virus e non aspettarlo – questo doveva essere detto e fatto subito – e lancia l’allarme sugli inquietanti livelli di inazione di molti paesi occidentali. Sono necessarie misure coraggiose per rallentare l’infezione. Il lockdown è fondamentale: in Cina il distanziamento sociale ha ridotto la trasmissione del contagio di circa il 60%. Ma il timore è che non appena le misure restrittive saranno rilassate per evitare di fermare l’economia il contagio ricomincerà a diffondersi, per questo c’è anche bisogno di un piano di lungo periodo. 

Il Coronavirus richiede uno sforzo coordinato e transnazionale, non è particolarmente letale, ma è molto contagioso per cui più la società è medicalizzata e centralizzata, più si diffonde. 

Anche a un osservatore non avvertito, il quotidiano bollettino di guariti/infetti/morti sembra soprattutto una misura psicologica per contenere i comportamenti collettivi dentro le misure di prevenzione. Ma questa prevenzione non poteva essere esercitata prima, in modi graduali e meno terroristici? In altre parole: è possibile una reale prevenzione con le malattie virali?

Si poteva fare prevenzione anche senza sovraccaricare le strutture ospedaliere che hanno numeri non infiniti di ventilatori, mascherine, posti letto ecc. così evidenziando drammaticamente le criticità del Ssn che già conoscevamo dagli ultimi trent’anni. Il problema non certo secondario è stato ed è anche come contenere il contagio, oltre che fornire assistenza vitale per un quinto delle persone positive. Su questo aspetto per settimane si sono commessi errori molto gravi pagati a un prezzo enorme da tutti: operatori sanitari, pazienti, addetti esterni nelle strutture di assistenza. Purtroppo abbiamo messo a rischio la vita degli operatori e delle operatrici sanitarie, senza allo stesso tempo combattere sul campo e non nell’ultimo fronte, che è l’ospedale, la battaglia con il virus. È una battaglia che si vince tra le mura domestiche, riducendo il numero dei contagi e intervenendo prima che insorgano, quando possibile, i sintomi gravi di ipossia.

Il perché si sia volutamente ritenuto superfluo non abbattere la carica virale ambientale, sterilizzando anche gli ambienti pubblici, resta un’incognita che ci differenzia da chi ha svolto questa lotta al virus anche dopo di noi, come l’India e diversi paesi africani.

Comunque, dalla prima fase di ignoranza, poco per volta, almeno sul piano dell’assistenza sanitaria e delle procedure in emergenza negli ospedali la situazione si è uniformata, gli operatori e le operatrici si sono scambiati informazioni pratiche su come meglio trattare i pazienti con sindrome Covid-19 nelle diverse condizioni di gravità. 

Qual è lo stato della medicina preventiva, di fronte all’avanzata della sanità privata e delle sue logiche anche nella sanità pubblica?

Quello della prevenzione delle pandemie è un livello di intervento che prevede un’organizzazione sanitaria attiva e coordinata a livello internazionale. La medicina preventiva da molto tempo è una scienza negletta in occidente. Nel nostro paese con questa crisi sono rapidamente emerse le profonde incongruenze della sanità moderna, soprattutto in Lombardia, dove il Sistema sanitario regionale (Ssr) è sostanzialmente basato sulle logiche del privato che, nonostante si sia affermato trionfalmente negli ultimi decenni e sia indicato da molti come esempio pronto a sostituire il Ssn pubblico, si è invece dimostrato inadeguato per la difesa della salute collettiva nell’emergenza da Coronavirus. Anzi, con l’emergenza sono diventate chiare le logiche di fondo del modello sanitario privato le cui contraddizioni – per esempio, le strutture di eccellenza mondiale ma solo per erogare prestazioni non di emergenza, tanto che molti pazienti lombardi gravi sono stati trasportati fino in Germania per trovare posti disponibili nei reparti di terapia intensiva – rivelano una visione della salute in chiave essenzialmente utilitarista e di mercato. 

La deriva è durata decenni, la prima svolta nella configurazione del Ssn, che ha prodotto questo cambiamento deleterio, si è avuta nei primi anni Novanta, con la cosiddetta controriforma sanitaria. Quelle che poi saranno identificate come le principali precondizioni della privatizzazione del Ssn in generale e dei Ssr sono state introdotte già da allora: per esempio l’aziendalizzazione con metodi e strumenti di gestione manageriali tipici delle aziende profit venivano applicati alle strutture pubbliche, l’eccessiva regionalizzazione con misure che consentivano libertà di definizione delle politiche sanitarie a livello regionale e facilitavano quindi il differenziarsi delle finalità e delle politiche nelle diverse parti del paese. 

Prendiamo ancora la Lombardia, considerata artefice del miglior sistema sanitario d’Italia fino a pochi mesi fa. Va precisato che prima della riforma regionale di Formigoni del 1997, consentita in realtà dalla riforma Bindi del 1992 che avviò l’aziendalizzazione della sanità pubblica sul piano nazionale, anche in Lombardia il Servizio sanitario si articolava, come nel resto d’Italia, in strutture locali organizzate in distretti (in Unità socio sanitarie locali – Ussl, inizialmente su base comunale, poi, ridimensionate nel numero e divenute, nei primi anni Novanta, Aziende sanitarie locali – Asl). Strutture che svolgevano direttamente al proprio interno, attraverso le proprie unità organizzative (uffici amministrativi, unità di prevenzione, presidi ospedalieri, ambulatori, consultori, ecc.) anche le funzioni di prevenzione, programmazione, erogazione diretta dei servizi e controllo delle attività svolte. Si trattava di un governo diretto della sanità in tutti i suoi aspetti e in Lombardia si estendeva anche al socio-assistenziale, con un sistema organizzativo regionale che presentava una struttura di tipo modulare, che si ripeteva cioè secondo lo stesso schema nelle diverse aree ma con una gestione strategica regionale unitaria e con l’integrazione delle funzioni di prevenzione, programmazione, erogazione e controllo su una base locale. 

Il frazionamento del Ssn e il decentramento legislativo oltre che amministrativo hanno poi di fatto offerto la possibilità anche di sperimentazioni “creative” riferite ai processi di privatizzazione; per esempio, a metà degli anni Novanta, è stato introdotto un nuovo sistema di pagamento dei servizi sanitari attraverso la definizione a livello regionale di tariffe per le singole prestazioni sanitarie, che ha offerto ai nuovi potenziali entranti privati nel Ssr la possibilità di commisurare l’entità potenziale del business, consentendo loro anche di stimare i compensi futuri. Su questa base normativa nazionale, nel 1997, la Lombardia ha dato una sterzata decisa verso un modello simile a quello scaturito dalla riforma britannica del 1991, che introduceva i quasi-mercati nella sanità di quel paese – cioè la possibilità per il sistema pubblico di pagare prestazioni di servizio erogate dal privato – cambiando consistentemente il modello Beveridge originario, quello che l’economista britannico delineò nel 1942 e che fu la base nel dopoguerra del welfare state laburista.

La giunta Formigoni, al pari dei governi conservatori oltremanica, ha la responsabilità di aver separato fra loro funzioni che prima erano integrate, questo con il solo fine di permettere l’erogazione di servizi a pagamento da parte del privato, puntando ad affidarli – ma solo questi – sempre più a esso. La sanità, da quel momento, programma sempre più dal punto di vista del committente che acquista servizi dai soggetti erogatori pubblici o privati, che diventano nella pratica “aziende” gestite via via in modo sempre più manageriale, impropriamente e pericolosamente definite “autonome” dalla normativa.

In questo quadro, lo spazio dedicato alla prevenzione è andato via via riducendosi, e non potrebbe essere altrimenti visto l’orientamento commerciale e la struttura concorrenziale data al servizio. Ma non basta, per far accogliere questa riforma radicale in senso privatistico con il massimo del consenso dell’opinione pubblica, si è fatto ricorso anche a forme di propaganda e di retorica per legittimare questa scelta, che è stata sostenuta anche da elaborazioni accademiche che si sono rivelate alla fine di pari orientamento ideologico. Si è parlato a lungo di “pariteticità”, mentre si suggeriva la superiorità del modello privato: ora ne vediamo le conseguenze. 

Notiamo una sovrapposizione tra “zone rosse” del Covid-19 e alcune delle aree più industrializzate del paese (in Lombardia, Veneto ed Emilia) e dell’area metropolitana milanese, la più centrale nella rete distributiva delle merci e nei collegamenti internazionali. L’apertura delle frontiere e gli intensi passaggi umani impongono misure speciali di controllo, del tipo di quelle che per esempio gli Usa applicano all’importazione di animali e piante?

Bisognerà ragionare molto sul caso della Lombardia, o meglio della Pianura Padana: la vittima perfetta di questo virus. Sicuramente prevalgono le connotazioni socio economiche, il territorio “aperto”, la densità di popolazione, gli scambi commerciali, la logistica ecc. Il contributo in termini di sinergia e concausa nell’incidenza del virus causato dall’inquinamento atmosferico è sotto esame, assieme all’ipotesi tutta da verificare che l’inquinamento abbia funzionato anche da vettore della malattia. Si dovrà capire, tuttavia non è pensabile che misure di controllo speciali possano dare garanzie assolute rispetto a un virus che si è diffuso grazie a persone che o non avevano ancora i sintomi (il periodo di incubazione del Covid-19 può durare fino a 14 giorni, è dunque piuttosto lungo, rispetto a un’influenza che si manifesta in 3 o 4 giorni) oppure che addirittura non li hanno mai avuti, e questi ultimi sono riconoscibili solo attraverso test sistematici che cadano però nel periodo in cui la malattia viene sviluppata in forma asintomatica: un mese circa fra incubazione e decorso. Per cui è difficile pensare a un sistema di sorveglianza efficace. 

È più facile – e avrebbe ora più senso, paradossalmente, se è vero che la sicurezza sanitaria viene al primo posto – pensare a un modello di quarantena sistematica per chi arriva, il cosiddetto “isolamento” come accadeva a Ellis Island a New York nel Novecento o sull’isola della Giudecca e del Lazzaretto vecchio a Venezia. 

Medicina d’urgenza, terapia intensiva, pronto soccorso: questi sembrano essere i settori più carenti nella sanità italiana. Cosa non è stato fatto? E cosa dovremmo fare per recuperare il ritardo con i paesi meglio attrezzati?

I medici dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, una struttura all’avanguardia con 48 posti di terapia intensiva, nelle prime settimane di marzo 2020 hanno raccontato in una lettera a una rivista scientifica internazionale la situazione grave in cui si sono trovati costretti a operare, ben al di sotto degli standard di cura in uno degli epicentri italiani dell’epidemia, più di Milano e di qualsiasi altro comune nel paese. 

In breve tempo – hanno spiegato – l’ospedale di Bergamo si è altamente contaminato ed è andato oltre il punto del collasso perché più del 70% dei posti in terapia intensiva sono stati occupati da malati gravi di Covid-19 che avevano una ragionevole speranza di sopravvivere. La loro struttura faticava a fornire i servizi essenziali come l’ostetricia e i servizi mortuari, creando ulteriori problemi di salute pubblica. Questo accadeva dentro l’ospedale mentre all’esterno le comunità erano parimenti abbandonate: i programmi di vaccinazione sospesi, i parenti delle vittime del virus senza notizie e strutture istituzionali come le carceri prive di qualsiasi possibilità distanziamento sociale. 

Hanno anche spiegato che i sistemi sanitari occidentali sono stati costruiti intorno al concetto di patient-centered care [un approccio per cui le decisioni cliniche sono guidate dai bisogni, dalle preferenze e dai valori del paziente, N.d.R.]. Ma un’epidemia richiede un cambio di prospettiva verso un modello di community-centered care, per cui la salute del singolo si difende assieme a quella di tutta la collettività. Stiamo dolorosamente imparando che c’è bisogno di esperti di salute pubblica e di epidemie e che queste conoscenze devono estendersi ben oltre le mura delle strutture sanitarie. Ognuno può e deve fare la propria parte. «A livello nazionale, regionale e di ogni singolo ospedale ancora non ci si è resi conto della necessità di coinvolgere nei processi decisionali chi abbia le competenze appropriate per contenere i comportamenti epidemiologicamente pericolosi» – hanno scritto rivolgendosi ai governi di stati che non avevano ancora preso provvedimenti contro il Covid-19. È paradossale, assurdo, che sia proprio il sistema sanitario regionale l’elemento che contribuisce maggiormente alla diffusione del contagio, a partire dalle ambulanze con i sanitari – portatori asintomatici della malattia o ammalati senza alcuna sorveglianza – che precipitano anch’essi sotto stress psichico o fisiologico, aumentando ulteriormente le difficoltà e i rischi di chi opera in prima linea.

Questo disastro poteva essere evitato soltanto con un massiccio spiegamento di servizi alla comunità, sul territorio. Per affrontare la pandemia servono soluzioni per l’intera popolazione, non solo per gli ospedali. Cure a domicilio e cliniche mobili evitano spostamenti non necessari e allentano la pressione sugli ospedali. Ossigenoterapia precoce, ossimetri da polso, e approvvigionamenti adeguati possono essere forniti a domicilio ai pazienti con sintomi leggeri o in convalescenza. Bisogna anche creare un sistema di sorveglianza capillare che garantisca l’adeguato isolamento dei pazienti facendo affidamento sugli strumenti della telemedicina. Un tale approccio limiterebbe l’ospedalizzazione a un gruppo mirato di malati gravi, diminuendo così il contagio, proteggendo i pazienti e il personale sanitario e minimizzando il consumo di equipaggiamenti protettivi. 

Soprattutto, abbiamo bisogno di strutture ospedaliere interamente dedicate all’emergenza, separate dalle aree non contagiate. Questa epidemia non è un fenomeno che riguarda soltanto la terapia intensiva, è una crisi umanitaria e di salute pubblica. Richiede l’intervento di scienziati sociali, epidemiologi, esperti di logistica, psicologi e assistenti sociali. Abbiamo urgente bisogno di agenzie umanitarie oltre a quelle scientifiche. 

Quanto può avere contribuito il degrado delle condizioni ambientali al diffondersi dell’epidemia?

La crisi ha messo a nudo tante contraddizioni e superstizioni del mondo moderno, a partire dall’idea che la salute personale e collettiva delle civiltà industriali fossero al riparo dalle malattie pandemiche. La biopolitica contemporanea – l’insieme di azioni non solo sanitarie ma anche sociali e ingegneristiche messe in atto per la sicurezza e l’assistenza intese nel senso più ampio possibile – è elemento costituente di ogni modello sociale occidentale. Il fallimento o il successo di questa offerta di sicurezza e assistenza sono l’argomento cardine per valutare l’assetto sociale e su cui occorre centrare il dibattito per decidere la direzione della sanità del futuro. 

Oggi finalmente si afferma che il nemico andava combattuto anche dentro le mura di casa, adottando disinfezioni a tappeto insieme al distanziamento, perché altrimenti un virus così mutevole e adattabile a tutto non si sconfigge. In questa partita a scacchi stiamo perdendo senza aver compreso i punti deboli del nemico. Ha giocato certamente a nostro favore l’arrivo delle temperature estive che hanno contribuito a sterilizzare l’ambiente, sopperendo all’azione mancata dei disinfettanti, anche con i raggi solari, relegando la catena amminoacidica del virus, che è termolabile, a essere presente solo all’interno della cellula, riducendo il contagio. Ma è una magra consolazione, perché dopo il lockdown abbiamo avuto un periodo di drastica riduzione del contagio durato pochi mesi, poi già ad agosto i numeri dei soggetti positivi al virus sono tornati a preoccupare, è accaduto lo stesso in tutta Europa.

Occorre perciò adottare una prospettiva di più lungo respiro e, intanto, andare a cercare le origini del virus all’interno del sistema ecologico così alterato. Inoltre, occorre rendersi conto che se non sarà possibile ridurre il rischio d’insorgenza anche delle prossime patologie epidemiche attraverso un recupero almeno della salute ecologica globale. Se dovremo infine ammettere il fallimento del nostro potere culturale prima, scientifico e tecnologico poi, allora verranno meno alcune certezze della modernità che si credevano consolidate. Le “malattie del progresso”, le patologie degenerative (tumorali, neurologiche, disfunzionali) diffuse per il degrado ambientale ma non trasmissibili da uomo a uomo, sono state accettate fino a che il sistema che le provocava garantiva però la difesa contro le “malattie epidemiche” – che hanno falcidiato per millenni l’umanità e che si consideravano relegate ai margini della storia. 

Ora, le malattie sono da sempre correlate con il modello socio-economico. Perfino lo sviluppo dell’agricoltura diecimila anni fa comportò problemi sconosciuti fino al neolitico, dovuti a carenze alimentari per una dieta meno ricca e all’insorgere delle zoonosi con la nascita dell’allevamento.

Non ne sappiamo ancora abbastanza, ma se saranno verificate alcune delle ipotesi sull’insorgenza del nuovo virus – favorita dal disboscamento, dalla perdita di biodiversità e dalla mono-dimensione umana della biosfera – sia sulle concause e i vettori della sua diffusione, a partire dalle forme di inquinamento che assieme all’alta industrializzazione correlano la maggior parte dei focolai dell’infezione – allora stiamo assistendo a qualcosa di perfino più nuovo della pandemia. Si tratta di una sinergia mai osservata prima, una nemesi che integra le “malattie del progresso” e le “malattie epidemiche”, con il rischio di rendere le une e le altre più forti e più temibili se non vi sarà un’inversione decisa del modello di sviluppo.

Il nostro dramma è che oggi il mondo della conoscenza è dominato in forma totalitaria dalla dimensione tecnologica mentre la politica delega al mercato la soluzione dei problemi economici a scapito della difesa di ambiente e salute. Come abbiamo visto, non si parla più di prevenzione primaria facendo ricadere sui comportamenti individuali o collettivi – perciò da controllare, reprimere, impedire – la responsabilità della malattia. Partecipazione e libero scambio delle conoscenze restano però i caratteri fondanti della solidarietà fra lavoratori e fra popoli, indispensabili a promuovere il soddisfacimento dei bisogni fondamentali selezionando i processi e i beni in grado di soddisfarli, entro i limiti della natura (sostenibilità), contro lo sfruttamento (eguaglianza e diritti) e l’inquinamento globale (ambiente e clima). Si tratta di un impegno culturale e politico di ampio respiro che ribadisce la connotazione solidaristica della medicina come ricerca e assistenza che necessita di un rigore tanto scientifico quanto etico. 

Il nemico andava
combattuto dentro le
mura di casa, adottando
disinfezioni a tappeto e
distanziamento

Vale anche e soprattutto per la lettura di numeri e dati ai tempi del Coronavirus, la cui “causa delle cause” andrebbe ricercata nei villaggi più poveri e indifesi della Cina interna e lì sanata utilizzando mezzi molto più semplici, democratici e dai costi molto più economici di quelli che ci tocca adesso adottare per bloccare i virus a ogni costo, rinunciando anche a libertà che credevamo irrinunciabili e gratuite. 

Sempre a proposito delle analisi statistiche, ancora confuse, sugli effetti della pandemia in termini di contagi e mortalità, vi sono due aspetti principali su cui gli studi puntano per chiarire le correlazioni possibili. 

Il primo riguarda le condizioni di salute generale di una popolazione esposta in modo continuativo a nocività ambientali. È pacifico che gli elevati livelli di inquinanti atmosferici in situazioni come quelle della Pianura Padana e in particolare nei centri maggiori, determinano un incremento nelle patologie respiratorie e cardiovascolari. Questa associazione è stata evidenziata in molti studi, segnalando l’incremento di morti premature e ricoveri per tali patologie (come pure l’incremento di acquisti di farmaci correlati) in occasione di “picchi” di inquinamento (in particolare per PM10 e PM2,5 e ossidi di azoto, maggiormente monitorati). Non si tratta solo dell’emergere di criticità da parte di soggetti già deboli per età o altri motivi; a ogni episodio e a ogni continuità di esposizione si allarga la platea delle persone sane che si “indeboliscono” sempre più fino a essere interessate dalle patologie potenzialmente fatali. Una popolazione in cui esiste una condizione generalizzata così critica è molto più “sensibile” all’effetto dell’esposizione a un virus che colpisce principalmente le vie respiratorie o comunque è veicolato da queste ultime. La loro condizione ridurrà le difese naturali. Gli studi epidemiologici in corso, con ogni probabilità, evidenzieranno tale condizione sanitaria come un cofattore rispetto alla estensione e agli effetti negativi della pandemia in corrispondenza delle aree più inquinate (e industrializzate) d’Italia.

Il secondo aspetto riguarda l’ipotesi che l’inquinamento in particolare da PM2,5 abbia favorito la veicolazione del virus facilitando e incrementando l’esposizione. Su questo la ricerca è agli inizi e non è comunque agevole stabilire delle correlazioni. L’assunto di base è che il virus sia trasportato e mantenuto in aria per tempi maggiori rispetto a quelli “naturali” grazie alla presenza e alla concentrazione di alcuni inquinanti quali le polveri e l’ammoniaca o, in genere, forme chimiche di particolato tra lo stato solido (polveri) e i condensati (aggregazioni di gas “semi solidi”). Questa ipotesi può essere fondata in situazioni locali specifiche con elevate concentrazioni di tali contaminanti ma è difficile pensare a una proporzionalità diretta tra inquinamento da polveri quali veicoli incrementali e l’esposizione al virus. Il principale dato da verificare è la “emivita” del virus in atmosfera che, solo parzialmente, può essere incrementata da un supporto “fisico” di trasporto come le polveri di piccole dimensioni.

In ogni caso è ragionevole ritenere che l’inquinamento sia un cofattore degli effetti pandemici sulle condizioni di salute collettive, come è altrettanto evidente che la riduzione dell’inquinamento atmosferico (e non solo) è un obiettivo da porsi ben prima e al di là della attuale emergenza. Non c’era bisogno della pandemia per sapere che lo smog fa male.

Nello stato di salute di una società non sono di secondo piano le condizioni del lavoro. Quelle che si stanno generalizzando vanno nel senso di una reperibilità permanente a fronte di una precarietà di fondo, any time any place con conseguente caduta della separazione tra vita lavorativa e vita privata. Come affrontare le emergenze mediche con lavoratori e lavoratrici del “precariato deregolamentato” e luoghi di lavoro “diffusi”?

Prima di parlare di “emergenze mediche” nei confronti delle molteplici forme di precariato occorre tenere conto che – almeno a livello normativo – in tutti i casi in cui la prestazione lavorativa è considerata come lavoro subordinato o equiparato, e lo sono quasi tutti, non vi è differenza nei diritti dei lavoratori e negli obblighi dei datori di lavoro in tema di difesa della salute. Pur tenendo conto delle modalità di lavoro, il diritto alla sicurezza è sancito chiaramente nelle leggi vigenti. Il tema è un altro, la effettiva “esigibilità” di questi diritti da parte di una classe lavoratrice intrinsecamente debole perché frammentata e individualizzata nel rapporto di lavoro; pesano inoltre la inadeguatezza dei servizi di prevenzione delle Usl/Asl (non solo in termini di numero degli operatori ma anche di capacità di approccio a queste nuove forme di lavoro) come pure l’arroganza dei “padroni”, tali, forse anche di più quando sono visibili sotto forma di un algoritmo.

Non a caso le lotte che sono state realizzate e in alcuni casi vinte, hanno interessato principalmente il mondo della logistica dove alla precarietà dei singoli si è sovrapposta l’unione e l’organizzazione di tipo sindacale e/o autorganizzata. Che dire poi del lavoro precario, sottopagato e con ridotti livelli formativi e informativi sulla sicurezza caratteristiche dei “soci” delle “cooperative” che reggono le attività in luoghi come le Residenze sanitarie assistite (Rsa)?

Il primo aspetto
riguarda le condizioni
di salute generale
di una popolazione
esposta alle nocività

Vi sono anche i paradossi: ci sono state iniziative di intervento di prevenzione che riguardano il mondo dell’alta moda (anche chi sfila sulle passerelle è “precario” ancorché ben pagato), mentre per i rider è dovuta intervenire la magistratura per pretendere verifiche puntuali a partire dalle “attrezzature” e dai dispositivi di protezione individuale utilizzati da questi lavoratori altrettanto precari ma con redditi ben differenti. C’è differenza tra rischiare una slogatura per un tacco 12 e rischiare di essere investito da un tram mentre si cerca di consegnare in tutta fretta un prodotto pedalando su una bicicletta scalcagnata. Prima di risolvere le “emergenze mediche” di questi lavoratori va loro garantita una piena dignità.

In che modo l’emergenza porta all’attenzione pubblica certi esperti e non altri? C’è stata una sovrarappresentazione di tipologie specifiche di esperti e forse una sottorappresentazione o forse esclusione di altri? In che maniera tale selezione è anche in parte legata a culture scientifiche o culture pubbliche?

Certamente in Italia dall’insieme emerge la disfatta delle strutture di protezione sanitaria a partire dalla mancata prevenzione, dalla disorganizzazione nella raccolta dei dati, tutto a causa della sottovalutazione del pericolo delle pandemie in generale e del Coronavirus in particolare, di cui siamo responsabili in tanti. In Italia se ne occupa ancora la Protezione civile con i dirigenti del Ssn e dell’Iss, che hanno commentato a lungo i dati di contagi, ospedalizzazioni, mortalità e guarigioni senza spiegarne le incongruenze e senza specificarne il valore relativo a seconda delle modalità di conteggio.

Nelle fabbriche dell’Italia del Nord si è tornato a lottare per la salute, con una mobilitazione proporzionale ai timori. Qual è lo stato attuale della medicina del lavoro e qual è la situazione di Spsal (Servizi per la prevenzione e la sicurezza negli ambienti di lavoro) e Spisal (Servizi per la prevenzione igiene e la sicurezza negli ambienti di lavoro)? 

La crisi pandemica ha fatto emergere anche altre debolezze, per esempio quasi tutte le imprese si sono trovate spiazzate dalla necessità di dotarsi di elementari Dispositivi di protezione individuale (Dpi), come le mascherine. Senza entrare nel merito sulle diverse tipologie e la corrispondente efficacia, quello che sorprende è la loro assenza in troppe realtà. È chiaro che vanno privilegiati i sistemi di protezione collettiva e tutto quanto fa prevenzione, i Dpi sono utili esclusivamente per i rischi residui non proteggibili altrimenti. Ma questi rischi, anche in forme limitate o saltuarie, sono presenti in quasi tutte le aziende con attività industriali e artigianali. L’assenza o carenza delle mascherine denota la mancata attuazione di alcuni obblighi di base delle norme di sicurezza e dà conto di quanto poco sia stata efficace l’azione dei lavoratori e delle loro rappresentanze sulla attuazione dei loro diritti. 

Stanno circolando volantini e appelli sindacali intitolati “Prima di tutto la salute” per richiedere interventi di tutela e/o per fermare le produzioni non essenziali, ma anche prima della pandemia, nei luoghi di lavoro, questo principio doveva valere ed essere preteso a gran voce. La richiesta della modifica dei cicli produttivi, eliminando per esempio le sostanze cancerogene, dovrebbe essere in cima alle priorità, invece è di pochi mesi fa una campagna dei sindacati europei per fissare dei limiti di esposizione a cancerogeni, anziché sulle modalità di fuoriuscita da tali produzioni/impieghi. Evidentemente la strage dovuta alla esposizione all’amianto non è stata una lezione sufficiente. 

Un’esperienza che il mondo del lavoro non si aspettava è quella che stiamo vivendo ora: l’esposizione ad agenti biologici in situazioni ove questi non sono né prodotti né utilizzati nei cicli produttivi. È chiaro che in una azienda metalmeccanica non si utilizzano batteri o virus che invece possono essere utilizzati in aziende biotecnologiche, farmaceutiche ed essere presenti negli ospedali: non ci si aspetta che l’attività determini questa esposizione. A dire il vero, rimanendo alle aziende metalmeccaniche, qualche rischio esiste, per esempio il mancato rinnovo dei fluidi lubro-refrigeranti può farli diventare brodo di coltura di batteri ed esporre i lavoratori tramite le nebbie oleose, se non captate idoneamente. Queste situazioni devono essere considerate nei documenti di valutazione di rischio e sono agevolmente riducibili. Meno naturale è considerare il rischio biologico esterno in fabbrica. Questo rischio in realtà può trovare posto nei piani di emergenza che devono essere predisposti per tutte le produzioni. Oltre a eventi connessi all’attività (infortuni, incendi, sversamenti di sostanze pericolose ecc.) vanno infatti anche considerati quelli esterni (alluvioni, terremoti, esplosioni dovute all’azienda vicina ecc.). Tra questi ultimi dovrà essere previsto, d’ora in poi, anche il rischio pandemico per non farsi cogliere impreparati come è accaduto con il Covid-19. 

E l’aumento dei controlli tanto invocato a ogni infortunio mortale dov’è finito? Dove sono finiti i tecnici della prevenzione? Ebbene durante il lockdown sono stati inviati in smartworking forzato o nei call center. È quello che è successo in Lombardia e in Piemonte, dove è stato garantito solo l’intervento in caso di infortuni gravi. Chi obietta a queste decisioni è preso per mentecatto o untore, con tendenze suicide. In Veneto, almeno, è previsto l’utilizzo degli operatori per controlli a campione nelle aziende attive: i lavoratori costretti a operare nelle condizioni attuali di rischio pandemico hanno bisogno di più vigilanza. Il tutto nel rispetto della sicurezza dei tecnici ed elaborando specifici protocolli di intervento utili anche alle aziende. Si è facili profeti affermando che le scelte di allontanamento coatto dei tecnici dall’intervento nelle aziende rinvigorirà le iniziative già in essere per lo smantellamento dei servizi di vigilanza in favore di controlli solo formali. Visto che nel momento di maggior bisogno i servizi di controllo sono latitanti, allora non sono così indispensabili nella normalità. Ma abbiamo imparato che la normalità era il problema e che occorre una sanità pubblica partecipata per superare l’attuale situazione, la si otterrà solo unendo nuovamente le forze anche per l’affermazione piena del diritto alla salute nei luoghi di lavoro.

E i medici di fabbrica dipendenti delle aziende, che ruolo hanno avuto o potrebbero avere, tenendo conto dell’esigua presenza di Rls (Rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza) e Rlst (sul territorio) quasi simbolici?

I medici del lavoro e i rappresentanti dei lavoratori possono e devono agire su due livelli di intervento. 

Il primo livello è quello di cui oggi tutti parlano: i Dpi, le attrezzature utilizzate allo scopo di tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori. In un provvedimento normativo recente, anche le mascherine chirurgiche sono entrate tra queste attrezzature. La protezione individuale, si badi bene, rappresenta l’ultima misura, in ordine di importanza, nella gerarchia della tutela, preceduta dalla prevenzione e dalla protezione collettiva. 

Questo concetto viene oggi ribaltato. Da “qualificate” fonti, scientifiche e istituzionali, sentiamo dire che i Dpi, guanti e mascherine, filtranti o chirurgiche, devono ora essere indossati per proteggere gli altri: una novità assoluta. Per la verità il ragionamento pare non fare una piega: noi diffondiamo il virus tossendo, starnutendo, parlando, ma questo significa che il pericolo siamo noi! C’è di buono che, finalmente, se ne è preso atto 

Ma torniamo alla protezione individuale: dicevamo che è la misura ultima in ordine di importanza, dopo la prevenzione e la protezione collettiva. La prevenzione del rischio infettivo è l’individuazione e la neutralizzazione delle fonti dell’infezione; che, in questo caso, sono i portatori del virus, sintomatici o asintomatici. I tamponi sono lo strumento principale se non unico di indagine. Sono stati fatti? No, o pochissimo per lungo tempo. Quando sono state date indicazioni per la loro esecuzione sistematica, hanno prevalso i problemi di gestione e le carenze di approvvigionamento dei test fin quasi alla fine dell’emergenza. 

La protezione collettiva del rischio infettivo negli ambienti di lavoro è possibile anche con il potenziamento dell’aerazione naturale dei locali per allontanare gli aerosol infettivi o, almeno, ridurne la concentrazione, assieme a ogni altra misura igienica. Negli ambienti di vita questo compito lo possono svolgere solo gli agenti atmosferici, vento, pioggia, riscaldamento del suolo.
E qui entra in gioco il secondo livello di intervento che spetterebbe ai medici del lavoro e ai rappresentanti dei lavoratori. Basta ragionare sul fatto che la riduzione degli inquinanti, da traffico e da industria, può certamente facilitare l’azione “igienizzante” degli agenti atmosferici. È stato fatto? In maniera tardiva e incompleta, eppure bisognerà insistere anche su questi aspetti.

Infine, va detto che la protezione collettiva del rischio infettivo è un argomento ancora più complesso.
Tutte le malattie infettive hanno maggiore incidenza e conseguenze più gravi nelle collettività svantaggiate sul piano economico e sociale; lo vediamo in Africa, dove sono la prima causa di morte. Anche in Italia ci sono ampi strati di popolazione svantaggiati sul piano economico e sociale, le cui difficoltà reddituali, abitative e sanitarie sono state accentuate non tanto dalle conseguenze dell’epidemia quanto dalle misure di contenimento adottate, che stanno indebolendo e impoverendo la popolazione più vulnerabile. 

In questo quadro concettuale, affidarsi interamente alla protezione individuale diventa l’ammissione della rinuncia definitiva alla prevenzione e alla protezione collettiva, un fallimento scientifico e culturale prima che politico. 

Purtroppo, anche in situazioni considerate di “eccellenza”, come in Lombardia, la condizione dei servizi di prevenzione sui luoghi di lavoro (Spal/Spisal) è spesso comatosa nonostante la pubblicistica. Non si tratta solo della riduzione del numero degli operatori per effetto delle politiche di “austerità” che hanno ridotto i dipendenti pubblici non garantendo il turnover, ma anche di un differente approccio alle modalità di utilizzo degli operatori e al modo di “misurare” le prestazioni.

All’interno dei servizi pubblici si sono irrigiditi i rapporti gerarchici che riducono le occasioni di comunicazione e dialogo. Per esempio, il rapporto diretto tra Rls e lavoratori da una parte e tecnici dall’altra è quasi interamente dedicato a espletare gli obblighi formali, mentre l’approccio gerarchico ostacola lo scambio costante di esperienze e di conoscenze tra questi soggetti, che era alla base della nascita “unitaria” degli Smal (Servizi di Medicina degli Ambienti di Lavoro) all’inizio del percorso della riforma sanitaria del 1978. Non a caso questi servizi erano impostati per rispondere all’impellente e imperiosa richiesta del movimento operaio di poter controllare le proprie condizioni di lavoro in fabbrica e di poter disporre di un punto di vista autonomo e scientificamente allo stesso livello di quello offerto dai consulenti del padrone.

La successiva deriva ha svuotato via via la sanità pubblica. La tendenza attuale è quella di far divenire i servizi di prevenzione come dei “consulenti” delle aziende (al di fuori di specifiche attività di carattere giudiziario come gli infortuni, ma qui siamo all’intervento ex post). La retorica della “collaborazione” tra servizi e aziende, di una inesistente “unità di intenti” tra servizio pubblico e interesse privato alla produzione e al profitto, ha tra i suoi effetti un eccesso di attività “formali” degli operatori pubblici rispetto al tempo da dedicare alla vigilanza pratica nei luoghi di lavoro e quindi al confronto nella dialettica tra le parti sociali. Dentro questo quadro i medici competenti risultano schiacciati: se fanno bene il loro lavoro (per esempio denunciando le sospette malattie professionali) rischiano di perderlo, mentre farlo cercando di interpretare la volontà del datore di lavoro significa non svolgere il proprio ruolo in modo corretto e aggiungere ingiustizia a condizioni lavorative pesanti. Per parte nostra, l’unica proposta per uscire da questa impasse è obbligare le aziende a utilizzare medici dei servizi pubblici per la cui attività rispondono direttamente alla Usl/Asl come pure attribuire il riconoscimento delle malattie professionali alla Usl/Asl (come previsto dalla riforma sanitaria del 1978) anziché, come è ancora oggi, allo stesso soggetto che poi deve garantire le prestazioni assicurative, l’Inail. Un palese conflitto di interessi.

Che dire poi del fatto che l’eventuale assenza di Rls o Rlst in un’azienda non è sanzionata? Equivale a un esplicito “liberi tutti” contenuto nella norma attuale, a cui contribuiscono anche i codici disciplinari, per esempio nel pubblico impiego, che fanno scattare sanzioni e licenziamenti se un operatore osa criticare o segnalare pubblicamente criticità riguardanti l’ente o l’azienda dove lavora – come è accaduto durante la pandemia in numerose Rsa. Una condizione accettata dai principali sindacati, che va esattamente nella direzione opposta al diritto, sancito dallo Statuto dei diritti dei lavoratori: «I lavoratori, mediante loro rappresentanze, hanno diritto di controllare l’applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e di promuovere la ricerca, l’elaborazione e l’attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la loro integrità fisica.» Occorre un ritorno al futuro, anche per questo va evitato il semplice ritorno alla “normalità” ante Coronavirus perché quella normalità è stata la vera fonte della malattia.

Bibliografia-Sitografia

V. Agnoletto, Senza respiro, Un’inchiesta indipendente sulla pandemia Coronavirus, in Lombardia, Italia, Europa. Come ripensare un modello di sanità pubblica, Altreconomia, Milano 2020.

A. Giuffrida, S. Boseley, «Italy’s pandemic plan “old and inadequate”, Covid report finds. Outdated guidelines and lack of protocols may have led to thousands of extra deaths», The Guardian, 13 agosto 2020.

G. Grasselli, A. Pesenti, M. Cecconi, «Critical Care Utilization for the COVID-19 Outbreak in Lombardy, Italy. Early Experience and Forecast During an Emergency Response», JAMA, 13 marzo 2020.

M. Nacoti et Al., «At the Epicenter of the Covid-19 Pandemic and Humanitarian Crises in Italy: Changing Perspectives on Preparation and Mitigation. In a Bergamo hospital deeply strained by the Covid-19 pandemic, exhausted clinicians reflect on how to prepare for the next outbreak». NEJM Catalyst, 21 marzo 2020. Qui tradotto in italiano.

A. e G. Remuzzi, «COVID-19 and Italy: what next?», The Lancet, 12 marzo 2020.

I rapporti annuali del Global Preparedness Monitoring Board sono pubblicati a questo indirizzo: si vedano in particolare A World at Risk, settembre 2019; A World in Disorder, settembre 2020.