Gaming vs mining
Negli ultimi tempi, il mondo dei videogiochi attraversa una vera e propria crisi. Essa non è dovuta tanto al mondo del gaming in sé, che anzi negli ultimi anni sta vivendo una vera e propria ascesa: il numero dei videogiocatori (i gamers) è aumentato esponenzialmente e il mercato videoludico riesce a smuovere cifre astronomiche. Tuttavia, questo settore si è recentemente trovato di fronte un ostacolo insormontabile che riguarda la penuria di materiale informatico, in particolare processori e schede video. Queste ultime rappresentano il pezzo più ambito per poter accedere ai giochi più moderni, i cosiddetti tripla A, ovvero quelli che per funzionare al meglio hanno bisogno delle piattaforme più performanti e moderne, le uniche capaci di generare la potenza di calcolo necessaria per elaborare gli effetti grafici e far “girare” i videogiochi.
La mancanza di schede video (ma anche di processori, le “Cpu”) è dovuta a molteplici fattori. Uno di questi è la recente espansione dell’informatica che negli ultimi anni ha amplificato la domanda per i prodotti in silicio, costringendo le aziende a ricollocare le proprie catene produttive. A questo si aggiunge l’impatto che la pandemia ha avuto sulla logistica mondiale, provocando ritardi e difficoltà nell’approvvigionamento delle materie prime. Come è stato ben descritto da Xaviet Tabet, il lockdown non ha avuto delle conseguenze solo dal punto di vista sanitario, ma ha anche generato una sovrapposizione tra la sfera pubblica e quella privata dei cittadini. L’obbligo di restare a casa e il telelavoro hanno costretto molti lavoratori a diventare dei veri imprenditori di sé stessi. Una delle conseguenze è stata appunto il dover equipaggiare la casa come il proprio ufficio, dirigendo le spese verso quei prodotti informatici destinati di solito allo “spazio pubblico” del lavoro.
Tuttavia, questo spiega in parte le ragioni della carenza di schede video. Il vero motivo per cui i videogiocatori penano nel trovare questi componenti è dovuto ai nuovi interessi economici che ruotano intorno alle criptovalute. In effetti, è grazie alle schede video che è possibile minare (dall’inglese mining), ovvero estrarre, le monete virtuali come bitcoin o etherum. In sostanza, e senza entrare troppo nel dettaglio di argomentazioni tecniche, una moneta virtuale è il processo di un’operazione di crittografia, una blockchain, un insieme di dati strutturato e immutabile. Diverse schede video collaborano alla produzione di queste catene di dati crittografati e più la moneta virtuale è solida più è esente da contraffazioni. Per questo motivo le schede video si trovano al centro di un contenzioso fra gli interessi dei videogiocatori e quelli dei “minatori”.
La crescita delle criptovalute negli ultimi anni è un fenomeno mondiale e il valore di ogni singolo bitcoin ha assunto delle cifre vertiginose: per un bitcoin bisogna sborsare più di quarantacinque mila euro (sebbene tali cifre sono soggette spesso a forti oscillazioni). Alcuni grandi aziende hanno iniziato ad accettare pagamenti in bitcoin (come per esempio il gigante assicurativo Axa o come Paypal) sebbene questo sistema presenta ancora molte criticità (di recente, Elon Musk ha prima confermato e poi annullato il pagamento in bitcoin per le sue Tesla). Tuttavia, si può capire come l’utilizzo delle criptovalute abbia creato una vera e propria nuova fase dell’economia mondiale in cui gli equilibri vengono spostati da chi è in grado di generare più velocemente e in quantità maggiori tale “valuta virtuale”, a fronte di rischi e conseguenze notevoli.
E in effetti, Paesi come la Russia e la Cina hanno investito e stanno investendo in bitcoin, sebbene abbiano da tempo approvato alcune misure restrittive per arginare il fenomeno del mining. In certi casi si parla addirittura di Stati interessati a sfruttare le caratteristiche delle criptovalute per garantirsi delle forme di rendita complementari alle valute classiche. L’obiettivo della Russia, per esempio, è eliminare la dipendenza dal dollaro e permettere una maggiore flessibilità sulle transazioni e sui mercati finanziari. Da questo punto di vista, investire nel mining potrebbe rappresentare un vantaggio per quei Paesi che mirano ad una maggiore autonomia economica, benché il mercato del bitcoin sia ancora una realtà molto più instabile che i mercati finanziari classici.
Non è raro vedere oggigiorno foto in cui appaiono centinaia di schede video messe insieme per generare criptovaluta. I “minatori” (ma non solo loro) hanno sviluppato recentemente delle tecniche ancora più sofisticate per arrivare a mettere le mani il prima possibile sulle nuove uscite hardware. Il metodo più noto è quello di utilizzare dei bot, ovvero dei programmi in grado di setacciare il web e le piattaforme di vendita online in modo da individuare e ordinare in modo automatico e veloce le schede video sul mercato. Di fronte alle difficoltà del momento e alla voracità dei miner, i due maggiori produttori di schede, le americane Amd e Nvidia hanno cercato di porre dei paletti a questa pratica, senza tuttavia riuscirci. L’unica soluzione resta quella di aumentare la produzione, ma il problema della reperibilità delle componenti hardware perdurerà ancora per molto tempo. Infatti, per sviluppare nuove catene di produzione c’è bisogno di competenze e di risorse che pochi specialisti possiedono, tra cui Taiwan con la fonderia Tsmc.
Come è stato evidenziato da Antonio Casilli, nel nuovo capitalismo, fatto di algoritmi ed apps, l’automazione gioca un ruolo determinante nell’evoluzione del lavoro e delle strutture sociali. Tuttavia, in questa storia, il vero protagonista è il know-how, ovvero la capacità di un’azienda e di una nazione di spostare risorse e tecnologie utili alla produzione. In effetti, il mondo dell’alta tecnologia sta modificando, in modo molto rapido, il peso di alcune nazioni nella politica mondiale, poiché ad uscire vincitori sono quei Paesi che possiedono le risorse (come per esempio un basso costo dell’energia elettrica o una rete internet all’avanguardia) e i saperi necessari allo sviluppo di questa economia altamente specializzata. Proprio per fronteggiare questa nuova sfida globale, il presidente americano Joe Biden ha di recente firmato degli emendamenti per aumentare la produzione di chip in madrepatria, invertendo una rotta che vedeva le aziende americane delocalizzare sempre di più nei Paesi asiatici. L’Unione europea, notevolmente in ritardo rispetto al duopolio produttivo Stati Uniti/Asia, ha dichiarato che il suo obiettivo è quello di portare al 20% la produzione di chip fatti in casa. Recentemente, anche l’Italia ha iniziato a perseguire una politica simile, e il primo ministro Mario Draghi ha attivato il golden power per impedire l’acquisizione da parte di una società cinese della Lpe di Baranzate, specializzata nella produzione di semiconduttori.
È chiaro che la battaglia fra miners e gamers rappresenta soltanto un fenomeno in un processo più ampio in cui la tecnologia è sempre più fondamentale per determinare il futuro dell’economia mondiale: tanto che i semiconduttori ormai assumono un peso notevole nelle politiche internazionali, quasi quanto il petrolio. A ben vedere, dalla disponibilità di semiconduttori possono dipendere alcuni dei settori strategici dell’economia di una nazione: per esempio, l’industria dell’automobile ha subito gli effetti più eclatanti della recente scarsità, con diverse aziende (come il neonato gruppo Stellantis) che hanno dovuto diminuire o reimpostare la loro produzione, mentre altre l’hanno persino interrotta.
A farne le spese maggiori sono i Paesi che letteralmente dipendono dall’importazione delle tecnologie, tra questi ve ne sono molti del vecchio continente, compresa l’Italia. Anzi, proprio il vecchio continente rischia di essere esautorato da questa corsa alla tecnologia da parte di asiatici e americani. Basti pensare all’ultima battaglia che ha visto scontrarsi gli Stati Uniti di Trump contro la Cina per la nuova rete del 5G. La globalizzazione, che ha imposto come imperativi categorici la delocalizzazione e la riduzione del costo del lavoro, sta facendo pagare i conti a quei Paesi, come quelli europei, che hanno abbandonato l’industria informatica ai nuovi Paesi emergenti. E i lavoratori e le lavoratrici, in questo caso, sono quelli che rischiano di più proprio perché, come è stato detto, l’economia di molti Paesi dipende ormai da questi settori produttivi.
In sintesi, è importante sottolineare come nella battaglia fra mining e gaming, la partita ruota attorno a questa particolare configurazione del nuovo capitalismo in cui tuttavia affiorano i vecchi conflitti nazionali e in cui è in gioco la leadership mondiale.
Bibliografia
A. Casilli, Schiavi del clic. Perché lavoriamo tutti per il nuovo capitalismo?, Feltrinelli, Milano 2020.
C. Marazzi, «I segreti del bitcoin», in Primo maggio, marzo 2018.
A. Narayanan et al., Bitcoin and Cryptocurrency Technologies. A Comprehensive Introduction, Princeton University Press, Princeton 2016.
X. Tabet, Lockdown. Diritto alla vita e biopolitica Ronzani, Dueville (Vi) 2021.