Le elezioni americane viste da Pechino
1. Cina e Stati Uniti hanno tanti, troppi interessi in comune per dichiararsi guerra. Tante fondamenta sostengono la coesistenza. Nessun inquilino della Casa Bianca potrà decidere da solo di mettere la mano sul grilletto. Tutto questa sembra acclarato. 2. Poi, le posizioni democratiche e repubblicane negli anni si sono omologate. È comune il tentativo di colpire Pechino, il China bashing diffuso, l’opinione pubblica ben addestrata. Anche questo si sa. 3. Allora, dove sono le incertezze della China policy del prossimo inquilino della Casa Bianca, nel caso vinca chi vi ha già abitato o chi l’ha frequentata da Vice Presidente? La risposta più logica è imprevedibile, soffia nel vento, in ostaggio di eventi spesso incontrollabili. Quella meditata prova a inserirsi negli scenari, cercando di capire come potrebbe reagire la prossima amministrazione di Washington in spazi di manovra limitati, dove la detente è imperscrutabile e dove appunto la tentazione militare rappresenta paradossalmente la scorciatoia più efficace.
1. Il tentativo di usare la globalizzazione come strumento di pace mostra la sua usura, ma ha finora sostanzialmente funzionato. Non si può colpire chi condivide gli obiettivi economici e talvolta quelli politici. Equivarrebbe a farsi del male. Come farebbero gli aerei statunitensi a colpire le fabbriche di proprietà americana sul suolo cinese? Siamo in presenza di una deterrenza nuova, basata su un progetto epocale, quello della win-win situation: i profitti delle multinazionali in cambio dell’uscita cinese dal sottosviluppo. Quando la guerra era davvero fredda, non si registrava alcun investimento americano in Unione Sovietica. La corsa nucleare rappresentava l’unico modo di proteggersi. In aggiunta, permane il ruolo cinese nel twin deficit di Washington. Pechino causa il passivo commerciale e poi, con il surplus, finanzia il bilancio federale. In sostanza: con la vendita di merci acquista pezzi di America. È una situazione oggettivamente insostenibile. Ma non potrà certamente cambiare con l’introduzione di dazi e contingentamenti. Le nuove tariffe contro la Cina non faranno riattivare i telai in Texas o le ciminiere in Pennsylvania. Al massimo, aumenteranno in sostituzione le importazioni da Vietnam e Bangladesh.
2. I partiti democratico e repubblicano – quando non sono impegnati in comizi elettorali – sanno che il decoupling è impraticabile, almeno nel breve periodo. Le economie di Cina e Stati Uniti subirebbero un trauma enorme se dovessero disallinearsi o disaccoppiarsi. Questo punto fermo – amaro per Washington ma certamente non casuale – non sfugge alle analisi meno propagandistiche dei due partiti. Appaiono così assottigliate, perfino impercettibili, le differenze di alcuni anni fa: l’Asinello attento ai diritti umani, agli operai, ai sindacati; l’Elefante alfiere del liberismo più puro, delle corporation, del mercato globale. Quando il nemico è esterno, indipendentemente dalla temperatura della guerra, prevale l’interesse nazionale, qualsiasi inquilino entri alla Casa Bianca. Non esiste un partito che abbia un DNA più o meno pacifista dell’altro.
3. Fuori dal territori, negli spazi sconfinati della VII Flotta, le novità sono sostanzialmente due: una politica estera cinese più intraprendente e il restringimento dei campi negoziali. La Cina remissiva, timida, intenta a crescere, opificio silenzioso del mondo, è consegnata alla storia. L’economia ha trainato un successo epocale; ora è il tempo della politica, l’attrito è inevitabile, si avvicina velocemente. Questo sembra il recinto di analisi più insidioso, quello dove il vincitore del 5 novembre dovrà misurarsi. Kamala Harris non dovrebbe distaccarsi dalla politica del suo partito: ascolto del Pentagono e del Dipartimento di Stato, sostegno delle multinazionali, ricerca di alleati europei, coinvolgimento dei paesi asiatici, da quelli già allineati come Giappone, Corea del Sud e Taiwan a quelli ancora incerti del sud-est asiatico. Si tratta probabilmente dello scenario più preoccupante per Pechino, l’aggravamento di un’ostilità mai cessata. Lo spazio concesso dai Repubblicani all’economia globale intercettava meglio le ambizioni di Pechino e quindi le sembrava meno antagonista. Tuttavia la radicalità di Trump – più della sua imprevedibilità – pone all’interno della Grande Muraglia preoccupazioni altrettanto inquietanti. Sbiadisce l’idea che la Cina preferisca Presidenti repubblicani. Nell’invincibilità sancita da un eventuale secondo trionfo elettorale, senza il freno realista di generali e diplomatici, sicuro di incarnare la maggioranza statunitense, Donald Trump potrebbe tentare di accettare la sfida cinese, di proteggere Taiwan al di là della strategic ambiguity, di tornare pienamente al suo slogan Make America Great Again. La sua miscela contiene isolazionismo, nazionalismo, potenza. Non sorprende che Pechino – oltre le dichiarazioni formali – tema entrambi i candidati. In realtà è il clima americano a preoccuparla, la continua ricerca del nemico. Per questo cerca alleanze, soprattutto nel Global South, anche se mascherate da convenienze economiche. Avverte come tutti una tensione crescente. È cosciente che gli ambiti negoziali, seppur ristretti, sono l’ultima risorsa. Soprattutto, è sicura che il compito del prossimo Presidente verterà su temi più importanti e insidiosi dell’imposizione di dazi commerciali a un paese che considera diverso, lontano e riottoso.