La crisi della Germania
La crisi politica, economica e sociale della Germania post-Merkel è diventata argomento di primo piano dei media italiani. Il numero di Limes uscito il 6 luglio è stato interamente dedicato a questo. I rapporti storici ed economici tra i nostri due paesi, Italia e Germania, sono stati così importanti che alcune riflessioni si rendono necessarie, magari aggiungendo qualche informazione in più a quelle che circolano negli organi di stampa.
Mi ricollego pertanto a quanto avevo scritto nel libro “Banche e crisi. Dal petrolio al container”, più di dieci anni fa (Derive&Approdi, Roma, 2013). Descrivevo il crollo del sistema finanziario tedesco che era leader mondiale nella finanza dello shipping, con il fallimento di centinaia di società specializzate nel cosiddetto KG-System, società in accomandita semplice che per decenni avevano consentito ai risparmiatori privati ottimi ritorni nel noleggio di navi container. Il crack coinvolse anche la banca pubblica HSH Nordbank, posseduta dal Land di Amburgo e dal Land dello Schleswig Holstein, che al tempo era la banca al mondo maggiormente presente nei finanziamenti allo shipping. La Germania, nel giro di pochi mesi, perse una leadership mondiale in un settore chiave della globalizzazione, quello del container. Il suo primato sarà in seguito raccolto dalla finanza cinese e giapponese con l’adozione di particolari strumenti innovativi come il leasing. Ma, dopo quello del 2012, altri choc dovevano investire il mondo finanziario e bancario tedesco, con un susseguirsi di scandali che arrivano ai giorni nostri. Ne cito soltanto tre: lo scandalo P&R nel 2018, una delle più colossali truffe del dopoguerra, sempre nel settore container; la società vendeva o noleggiava container a dei privati, si scoprì che un milione circa di questi container non esisteva affatto, più di 50 mila investitori persero i loro soldi; il caso Wirecard nel 2020, società di gestione digitale dei pagamenti, che ha praticato sistemi fraudolenti su vasta scala, e poi, il caso più sconvolgente, il cosiddetto “affare cum-ex”, che ha coinvolto più di 5 paesi europei, dove con la complicità di grandi banche, società finanziarie, intermediari, singoli professionisti, sono state rimborsate delle tasse a chi non ne aveva diritto per un valore di circa 62 miliardi di dollari, la metà dei quali nella sola Germania. E ogni volta è emersa la responsabilità dell’Autorità di vigilanza Bafin, che non faceva il suo mestiere. Nel mettere a nudo questo complesso sistema di evasione fiscale è stata soprattutto una magistrata di Colonia, Anne Brorhilker, che ha fatto parte di una task force appositamente creata nel 2012 per venire a capo di questo sistema. Ebbene, ad aprile di quest’anno ha annunciato di volersi dimettere dalla magistratura in quanto il governo, il mondo politico e il sistema finanziario tedesco non farebbero nulla per contrastare seriamente il fenomeno truffaldino e per colpire i maggiori responsabili. Ha deciso di proseguire la sua battaglia all’interno di un’iniziativa, una NGO o Bürgerinitiative, dal nome Finanzwende, fondata nel 2018 da un ex deputato dei Grünen con l’intento di contrastare lo strapotere della lobby finanziaria e bancaria. Uno degli obbiettivi dell’azione della Brorhilker, che evidentemente non è riuscita a raggiungere con gli strumenti della legge, è quello di recuperare almeno una parte dei miliardi sottratti al fisco. Tra i principali responsabili politici della copertura offerta alla lobby finanziaria vengono considerati sia il cancelliere Olaf Scholz che il suo ministro delle finanze, il liberale Christian Lindner.
Che nel mondo dell’alta finanza tedesca ci fosse qualcosa che non andava lo si era visto già con la Deutsche Bank, la sua filiale americana e i rapporti con Donald Trump, ma fa molta più impressione pensare ad altri episodi dove il grande capitale tedesco sembra inseguire ancora sogni di grandezza e di leadership mondiale che poi si rivelano illusori. Il caso dell’acquisizione di Monsanto da parte della Bayer per esempio, è uno di questi, operazione contro la quale si erano schierate decine di associazioni ambientaliste e di organismi scientifici a Colonia nel 2017. La Bayer si è trovata coinvolta negli Stati Uniti in una serie di class action per risarcimenti dovuti a danni provocati nell’organismo di migliaia di persone da determinati prodotti Monsanto, come i pesticidi. Il titolo Bayer è crollato. E i sindacati non hanno fatto bella figura, visto che, malgrado la loro presenza negli organismi previsti dalla Mitbestimmung, non hanno avuto nulla da ridire. Casi come questi ricordano un po’ gli idoli che vanno in pezzi, certezze in certe istituzioni (come la Mitbestimmung) che svaniscono e producono destabilizzazione di un sistema.
Di recente, dopo i risultati delle elezioni europee, il sociologo Klaus Dörre di Jena ha reso noti i risultati di una sua indagine nel corso della quale si era chiesto, tra l’altro, sul perché proprio gli operai dell’industria automobilistica sembrano orientati a votare l’estrema destra di AfD – non solo nelle regioni orientali – con percentuali del 30% in certe fabbriche Volkswagen. L’auto elettrica viene percepita come un rischio o come un lusso (in effetti le auto elettriche ora in commercio sono costose) mentre nei paesi, nelle periferie, dove questi operai vivono, mancano i servizi, i trasporti pubblici, certe volte anche i negozi. La contrarietà alla transizione energetica da parte degli operai in parte è determinata dalla radicalità con cui viene perseguita la transizione, cioè l’abbandono dei motori a combustione interna a favore dell’elettrico in un troppo breve lasso di tempo, con conseguenze occupazionali non quantificabili. Questo riguarda anche l’industria italiana fornitrice di componenti, che subisce i contraccolpi di una crisi che è anche di natura culturale, per non dire ideologica. Un groviglio di contraddizioni, dove però mi sembra esagerato, come fa Limes, ricondurre tutto alla guerra in Ucraina e al taglio traumatico dei rifornimenti energetici dalla Russia (attentato al North Stream 2). La lotta per un rovesciamento della politica “orientata a est” della Merkel era cominciata ben prima della guerra e aveva avuto un protagonista il cui nome appare di rado nei media italiani: Friedrich Merz, responsabile della filiale tedesca di Blackrock – la punta di diamante della finanza mondiale – che, inizialmente sconfitto dalla Merkel all’interno del partito, la CDU-CSU, se ne era allontanato per poi rientrare ed assumerne la leadership. Un filo-atlantista di ferro, membro del think thank Atlantic Bridge, disposto a governare a livello locale coi Verdi, vedi il caso di Berlino, senza escludere, in un primo tempo, una collaborazione con AfD a livello nazionale. Mentre oggi, anche sulla spinta della posizione assunta dal PPE a livello europeo, ritiene “‘impensabile in qualsiasi forma” una collaborazione con AfD.* Blackrock è al di sopra di Biden e di Trump, è un’espressione del capitale finanziario internazionale allo stato puro. Contro la sua ingerenza nell’economia tedesca è stato organizzato – sulla scia del vecchio Tribunale Russel – un Blackrock Tribunal, che ha già tenuto due sessioni. (Tra gli organizzatori è presente il prof. Werner Rügemer, il cui libro sulla finanza mondiale è stato tradotto in italiano, Capitalisti del XXI secolo. I nuovi operatori finanziari, Castelvecchi 2021). Formalmente Blackrock è una società di gestione di capitali, di asset management, ma sempre più appare come un formidabile strumento di presidio dei poteri, la sua presenza in Italia non a caso si manifesta in quello “che conta” del nostro sistema d’impresa (Cassa Depositi e Prestiti, ENI, Enel, Intesa San Paolo, Unicredit…). Sono stati i campioni della sostenibilità, della necessità di rispettare i parametri ESG negli investimenti e nell’erogazione di prestiti, con accenti da moralismo puritano nei discorsi di Larry Fink, il fondatore, ma pronti a spostarsi subito sugli armamenti quando la guerra è diventata con l’Ucraina il business del secolo.
Quello che è certo è che il modello tedesco, di una “economia sociale di mercato” – per dirla con il ministro della finanze di Adenauer – sempre più indebolita e screditata, lascia definitivamente il posto a un modello di società dove le diseguaglianze saranno destinate ad aumentare drammaticamente e le turbolenze sociali ad acuirsi, sempre più simile agli Stati Uniti e sempre più lontana dai valori della Zivilisation europea.
Con queste contraddizioni dovremo fare i conti, cercando di fare tesoro della nostra lunga familiarità con il mondo tedesco, per non cadere nella ripetizione di luoghi comuni e soprattutto in atteggiamenti difficilmente comprensibili, come quel malcelato senso di Schadenfreude che spesso aleggia nei resoconti della nostra stampa sulla crisi tedesca. Abbiamo solo che da perdere dalla crisi della Germania. Da qui in avanti dovremo essere molto più fini ed accorti nel conviverci, non dare per scontato nulla. Faccio un esempio. L’Associazione di Logistica Tedesca, la BVL, ha commentato nella sua newsletter Log.Mail del 5 luglio scorso lo studio di PwC Germania “Reinventing Supply Chains 2030”. Intervistando un migliaio di manager della logistica, è risultato che le soluzioni migliori per far fronte alle continue disruptions delle catene di fornitura sono quelle end-to-end, ma però i costi che debbono affrontare e il cambiamento del modo di lavorare che comportano le soluzioni end-to-end sono così impegnativi che solo un 5% degli intervistati dice di averlo fatto o di averlo avviato; la stragrande maggioranza, pur dicendo che cambiare le catene di fornitura è necessario e di averlo in programma, ci pensa due volte prima di realizzarlo veramente. Da qui risultano ridimensionati fenomeni come il re-shoring o il decoupling dalla Cina. (Secondo i dati di Xeneta, Container Trade Statistics, nei primi cinque mesi del 2024 l’export della Cina, in termini di merce in contenitori, è aumentato del 9,9% verso l’Europa rispetto allo stesso periodo del 2023, e del 15,4% verso il Nordamerica; si tenga presente che queste due rotte commerciali sono quelle che maggiormente risentono della crisi di Suez. Difficile parlare di
decoupling con questi numeri.) Questo non ci deve far dimenticare che le società di logistica tedesche continuano a investire cercando d’innovare, mentre il settore logistico italiano, anche se rappresentato da filiali di grandi multinazionali, sembra barcamenarsi tra evasione fiscale e contributiva e lavoro irregolare (v. le recenti misure prese dalla Procura di Milano, che, mettendo sotto inchiesta decine di aziende di logistica, tra cui filiali di grandi gruppi europei e americani, ha recuperato già 480 milioni di euro di evasione fiscale). Vedremo ora che succede dopo l’approvazione della Direttiva europea sulla Corporate Sustainability Due Diligence. Si metteranno in regola i nostri specialisti della distribuzione? Per non parlare del confronto che viene spontaneo fare tra due crisi, quella del settore automotive italiano e quella tedesca, profonda fin che si vuole, ma ben lontana dalla telenovela cui siamo costretti ad assistere con le giravolte di Stellantis.
*In una versione precedente dell’articolo avevo scritto, a proposito di Friedrich Merz: “… disposto a governare a livello locale coi Verdi, vedi il caso di Berlino, e a livello nazionale con la AfD, sebbene con molta prudenza”. La formulazione era inesatta. Mi scuso con i lettori e ringrazio Lars Stubbe, sindacalista dei portuali per Ver.Di e collaboratore della rivista della Fondazione di Brema per la storia sociale che mi ha segnalato l’errore. Sergio Fontegher Bologna