Il lavoro s-perduto tra Santa Maria di Sala e Trebaseleghe
La natura si raffredda, l’inverno si avvicina. Nell’ovest dell’entroterra veneziano, al confine con la provincia di Padova, lungo la statale che unisce Mestre a Castelfranco Veneto, la società messa al lavoro si muove frenetica, neppure il Covid è riuscito ad arrestarla: un formicaio di automobili, merci, camion, camioncini, fretta, tensione. Anche la cultura, seppur visibile solo a occhi allenati: la Castellana era percorsa da Giorgione e Palladio, da Mantegna e da Tiepolo. Per secoli è stata l’asse di un paesaggio agricolo, apparentemente immobile, che oggi è diventato industriale: 100.000 abitanti, 65.000 lavoratori, probabilmente 75.000 considerando il grigio e il nero, e non pochi pensionati. Il sistema pare reggersi sulla sua stessa frenesia, senza troppo interrogarsi sulla direzione di marcia né sull’energia consumata, fisica e spirituale. Alcune grandi aziende, innovative e globali, fanno da baricentro anche sociale. Lo sfruttamento talvolta è clamoroso, nelle campagne, nelle fabbriche, nelle famiglie. L’alienazione si muove subdola, compra le vite senza urlare, ognuno deve impararlo a proprie spese. Ai colori dell’autunno, magnifici quando la campagna diventa una tavolozza, succedono l’opaco e l’umido dell’inverno padano. Anche le persone paiono preferire le mezze tinte, i monosillabi, gli sguardi allusivi. Vigili e attente, sempre, agli interessi e al benessere privato: il parco macchine e gli investimenti senza tregua sull’abitazione ne sono sensori evidenti.
Stupirsi è faticoso, ancor più riflettere, pensare, reagire.
Due fatti spezzano l’incantamento e la routine, muovendo, secondo uno spartito che appariva superato, da due fabbriche grandi, una con quattrocento, l’altra con seicento operai. Il primo, a luglio 2021, lo fa detonare la magistratura: qualche decina di pachistani sono sottoposti a condizioni di lavoro servile nel magazzino di Grafica Veneta, un’azienda di Trebaseleghe ricca e moderna. L’altro esce a dicembre dagli uffici del sindaco di Venezia: la Speedline di Santa Maria di Sala, una fonderia storica, rinomata, intende chiudere e spostare la produzione in Polonia.
Stupirsi diventa necessario, riflettere anche: cosa succede? Chi? Perché? Urge la mobilitazione, si torna alla (desueta) lotta sociale? Chi la promuove? Aderiranno i lavoratori? Reagiranno i paesi? Trebaseleghe conta 13.000 abitanti, Santa Maria di Sala 17.500, sono separate da dieci chilometri, al confine rispettivamente della provincia di Padova e di Venezia, in un’enclave distante trenta chilometri anche da Treviso. Per gli storici e gli operatori turistici ha addirittura un nome: Valle Agredo, con i confini tracciati da due fiumi, il Dese e il Muson, che dalla Pedemontana porta(va)no acque (vitali) verso la laguna e il mare. Lungo il loro corso sorgono città come Castelfranco o Mirano. Il bacino di provenienza degli operai è ben più ampio dei due paesi dove gli stabilimenti sono insediati, forse non molto diverso dai trenta chilometri che negli anni Sessanta i figli dei contadini percorrevano in bicicletta per raggiungere Mestre e Porto Marghera, dove negli impianti industriali imparavano la durezza delle condizioni di lavoro e il conflitto sindacale.
Ma qui il capitalismo si è inventato organizzazione e successi senza città e senza conflitto. Le stesse forme della democrazia si affacciano timide: i parlamentini dei paesi vivono tensioni minori, quasi sempre legate agli insediamenti edilizi o al welfare locale, le leadership sono modeste, e il pluralismo liberale pare arrestarsi sulla soglia delle fabbriche.
Grafica Veneta e Speedline: produzioni e sfide diverse
Alla Grafica Veneta, allargatasi e arricchitasi nei vent’anni del nuovo secolo stampando libri per clienti di tutto il mondo, nel pieno dell’estate 2021 viene a galla, a seguito di una denuncia, lo sfruttamento odioso di una trentina di lavoratori migranti. Operano nel magazzino, sono dipendenti di un’impresa gestita da pachistani e sulla linea d’ombra degli appalti lavorano senza orari e senza diritti. Due dirigenti apicali di Grafica sono inquisiti dalla magistratura per sfruttamento della manodopera e mancato rispetto delle norme di sicurezza. La reazione della proprietà è scomposta, chi stampa libri per case editrici famose ha una reputazione da difendere. Il sindacato è chiamato in causa per l’incuria e il ritardo con cui ha reagito. Come ricorda Nicola Atalmi, segretario veneto della Slc, nel numero 4 di OPM, in Grafica la Cgil conta quarantacinque iscritti e nomina la rappresentanza aziendale. Il proprietario dà un’intervista rabbiosa su La Stampa del 17 ottobre: «pachistani nella mia azienda non li voglio più… Loro sono un po’ così, pulizia e bellezza non è che facciano parte della loro cultura». Protervia che sarà causa del suo mal, la Camera del lavoro di Padova lo denuncia per discriminazione razziale, due abili avvocati e l’ufficio legale della Cgil lo inchioderanno qualche mese dopo. A febbraio 2022, con le spalle al muro, si inventa l’ennesimo scoop: fa visita all’Imam della comunità pachistana di Padova, si autoproclama benefattore, disposto a riassumere qualcuno dei pachistani, visto che a Grafica servono urgentemente decine di operai.
La Speedline, invece, produce cerchi in lega per case automobilistiche importanti, specialmente tedesche. A Santa Maria di Sala è una presenza storica, una fonderia con cinquant’anni di attività in una zona industriale dove si addensano 8.000 addetti. La proprietà attuale è di Ronal, fondo svizzero di investimento. Occupa seicento persone, ottocento con le lavorazioni collaterali affidate ad appalti esterni, ha già attraversato altre ristrutturazioni, dolorose per chi esce e per chi resta, alla ricerca di una competitività che si rivela sempre insufficiente di fronte al capitalismo del nuovo secolo. Il 3 dicembre esplode la minaccia: chiusura e delocalizzazione dello stabilimento in Polonia. La rudezza degli imprenditori locali è diventata il cinismo di un fondo anonimo. Finanziarizzazione e mondo globale premono sul lavoro e sulla comunità locale. La reazione degli operai e dei sindacati presenti in fabbrica, Fim Cisl e Fiom Cgil, è immediata, l’opinione pubblica si allerta.
Chi disturba il ritmo della società messa al lavoro?
Nei paesi di Valle Agredo si rompe il silenzio, i sindacalisti prendono parola, operai e impiegati escono dall’ombra. I quotidiani e le televisioni scoprono che tra padroni e operai permangono i rapporti di potere, che le grandi fabbriche disegnano le traiettorie di tante vite, che la composizione della forza lavoro – età, genere, scolarità, competenze – muta continuamente, che le dinamiche socio-culturali sarebbero ricchissime di spunti per l’analisi e per la discussione pubblica, se solo esistesse un giornalismo d’inchiesta. Ne parlano anche Radio3 e Tg3, solitamente notarili, noiosi, insensibili a qualsiasi febbre che corra nel tessuto sociale della regione.
A Trebaseleghe Cisl e Cgil hanno le loro sedi, ma non un radicamento in grado di influenzare il territorio. I partiti politici, divenuti comitati elettorali senza struttura e senza militanti, non hanno voce. Anche il mondo associativo balbetta, preferisce stare alla finestra, compresa la Caritas, l’unico soggetto che in paese si occupa dei migranti. Come la Chiesa, presunto presidio di solidarietà, svuotata di energia, senza più autorità morale.
Chi governa il Comune tace, anche per i leghisti o i loro emuli l’indifferenza è più comoda. La sinistra è debole storicamente: per tutto il secondo dopoguerra la Democrazia cristiana ha avuto il monopolio della politica locale, sostituita prima da Forza Italia poi dalla Lega. Del resto, il palazzo municipale, pretenzioso, elegante, per il restauro ha avuto bisogno dei soldi di Grafica. In cambio, a ogni ampliamento dei capannoni, diventati ormai un vero e proprio quartiere del paese, l’azienda, attorniata da schiere di avvocati, ha fatto prevalere i suoi obiettivi rispetto ai vincoli del Piano urbanistico. La politica non ha nessuna autorevolezza o personalità da giocarsi, neppure la prima sindaca donna, eletta nel 2017. A fine agosto, nel pieno della bufera, il Consiglio comunale approva, come si legge nel verbale, un timidissimo ordine del giorno: «… Mentre condanna ogni forma di prevaricazione nei luoghi di lavoro… ritiene anche di ribadire il sostegno alle aziende del nostro territorio, un patrimonio da difendere e da tutelare». Il parlamentino locale non è dei migranti, loro non sono invitati e non votano.
Eppure.
Il conflitto dà parola al lavoro, anche a Trebaseleghe
Martedì 16 novembre, Trebaseleghe, primo mattino, freddo e spruzzi di pioggia, la manifestazione a sostegno dei lavoratori del magazzino è convocata da Adl-Cobas e Fiom Cgil davanti all’ingresso di Grafica. Qualcuno, sindacalista o pensionato, ex operaio, si avvicina titubante, rinfrancato poi dall’arrivo delle Rsu di altre fabbriche mobilitate dalla Fiom e di gruppi di studenti e di militanti dei centri sociali da Padova e da Mestre. La manifestazione è rara in paese, siamo sei-settecento. Il cabinato distribuisce bandiere rosse, la musica infonde calore. I pachistani presenti sono una ventina, impacciati, forse anche sorpresi da tanto baccano. Altri loro connazionali hanno scelto di non esserci, nei cento giorni trascorsi alcuni hanno trovato occupazione altrove, qualcuno è tornato in patria, in attesa di tempi migliori, chi è rimasto non sa bene di chi fidarsi e a quale sindacato affidarsi. I compagni si riconoscono, i volti si distendono, la manifestazione presta energia anzitutto a chi vi partecipa.
Le forze dell’ordine sono numerose ma non aggressive. Un camion di quindici metri, uno dei tantissimi che entrano ed escono a tutte le ore, vorrebbe superare il picchetto, l’autista viene convinto ad arretrare e a parcheggiare poco distante. Arriva anche il titolare, sulla Rolls-Royce, vede il concentramento, sgomma furioso sopra al marciapiede e si infila in un ingresso laterale. La cosa più impressionante è la bolla che avvolge la fabbrica-quartiere: nessuno fa capolino, né un portinaio né un operaio né un sindacalista di fabbrica: silenzio e immobilità. Sorpresa, imbarazzo, complicità? In ogni caso, i manifestanti appaiono isolati. Non occorre essere esperti di contrattazione per capire che se i più forti abbandonano i più deboli, questi ultimi restano nella loro impotenza. Amarissima conferma delle divisioni interne al fronte dei lavoratori dipendenti, che a ogni stagione si ripresentano, sempre nuove e sempre identiche. La classe operaia pare disporsi per gironi, spalma la sofferenza in misura disuguale, quasi che la (minuta) prepotenza sull’ultimo arrivato possa alleggerire la (strutturale) violenza dell’oppressione.
Verso le 10:45 parte il corteo diretto al Municipio. Caparezza dà il ritmo, a volume altissimo, la pioggia rimane leggera, il freddo mette a dura prova, ma l’atmosfera è carica. Lungo il tragitto i manifestanti occupano metà della carreggiata, le persone ci osservano dalle auto rallentate e dai balconi delle case prospicienti, qualcuno dà segni di apprezzare, i più ci regalano sguardi guardinghi, interrogativi, non infastiditi. Nessun segno organizzato di presenza paesana, né un crocchio, né un cartello, né un’associazione, né la Chiesa: presa di distanza oppure solo diffidenza dei gesti pubblici? Il conflitto sociale è così raro e desueto? Le bandiere rosse fanno ancora paura? Il lavoro può avere autorevolezza e voce politica? E il Comune?
Alle 11:30 arriviamo in piazza, nello slargo di fronte al Municipio un impianto voci improvvisato consente il comizio ai sindacalisti Fiom e Cobas. Intervengono anche tre pachistani a sostenere le loro ragioni, chissà con quale idea di sé, dell’azione sindacale, della piazza piena di bandiere, dello stesso comizio. Nessun amministratore ci accoglie, tanto meno la sindaca, davanti al portone staziona qualche carabiniere, due ragazzi africani, forti e divertiti, si mettono in posa con la bandiera rossa e il pugno chiuso, ricordano il gesto anti-apartheid degli atleti neri alle olimpiadi di Città del Messico, più che la lotta di classe.
A Santa Maria di Sala la comunità sfila compatta contro la globalizzazione
Domenica 19 dicembre a Santa Maria di Sala. La festa assicura una sosta, il ritrovarsi della comunità attorno alla Chiesa ha attenuato la sua presa, la tensione religiosa è ormai svanita, ma secoli di tradizione hanno lasciato una traccia profonda. La febbre dei giorni feriali si placa, ognuno cerca il respiro naturale e i legami familiari. Ma oggi è una domenica speciale: il paese è chiamato a reagire alla chiusura di una fabbrica diventata parte del paesaggio. Il ritrovo è alle 9:00 davanti ai cancelli della Speedline, la mobilitazione è indetta dai sindacati dei metalmeccanici. La Fim Cisl, con trecento iscritti, è egemone, radicata storicamente in fabbrica; la Fiom Cgil ha settanta iscritti. I lavoratori eleggono da molto tempo la Rsu, la rappresentanza aziendale, sono abituati alle assemblee e alla contrattazione. Sul tendone alzato davanti ai cancelli, ampio, ordinato, addirittura riscaldato, si legge “Casa dei lavoratori”. Si distribuiscono le bandiere, la Cisl ne ha centinaia a disposizione, con qualche ritardo arriva anche il cabinato della Fiom con le bandiere rosse e la musica. Si fa sentire la voce inconfondibile di Celentano, sì, proprio lui, Adriano Celentano.
Fa molto freddo, una nebbia gelida sulla pianura, berretti di lana, sciarpe e baveri alzati. I volti si sciolgono man mano che le persone si riconoscono e socializzano, segni di stima verso i sindacalisti nazionali e locali; qualcuno di loro ha iniziato in questa fabbrica la sua esperienza. Quando il corteo si muove le persone che sfilano sono forse 3.000, un numero significativo. Attorno agli operai, molti con moglie e bambini, si sono aggregati gruppi della sinistra politica, dei Cobas e dei centri sociali, questi ultimi lasciati in coda, subito prima delle forze dell’ordine, venute a presidiare ma tranquille, rassicuranti. Si riconoscono alcuni parlamentari del Partito democratico e gli attivisti di Articolo uno dietro allo striscione della Camera del lavoro veneziana. Sulla Noalese, la statale che unisce Treviso a Padova e sulla quale si affaccia lo stabilimento, non pesa il traffico micidiale dei giorni lavorativi, occupiamo solo mezza carreggiata, i tanti capannoni sono chiusi. Un campanaccio e qualche slogan solo nelle prime file, laddove la composizione del corteo è più studiata, più consapevole.
Colpisce l’assenza di altre fabbriche della zona, anche di quelle sindacalizzate. Sin dagli anni Sessanta Santa Maria di Sala, a opera di un sindaco democristiano, che vive ancora oggi, quasi centenario, ha aperto un’area industriale enorme e ha puntato sulla manifattura. Vi lavoravano 10.000 persone già nei primi anni Ottanta, in provincia di Venezia era il secondo addensamento manifatturiero dopo Porto Marghera, dove cominciava la deindustrializzazione. Il terziario commerciale si è spalmato nel tempo lungo la Noalese, occupando spazi amplissimi, ma il peso prevalente è ancora quello dell’industria, con alcune fabbriche brillanti, capaci di innovazione, che competono nel mondo. In questa domenica speciale, però, non si fanno vedere: limite organizzativo? Corporativismo? Indifferenza?
La nebbia si alza, ma non del tutto, il freddo morde. Raggiungiamo la piazza verso le 11:00. Lo scenario è magnifico, siamo di fronte a villa Farsetti, un investimento ambizioso e colto della fine del Settecento, sull’onda lunga della tradizione dello Stato da tera. Gli striscioni e i gruppi si dispongono sul parco. Nelle prime file, sedute, le autorità. Al centro della scenografia, inaspettato, un altare allestito in vista della celebrazione liturgica che chiuderà la manifestazione; di fianco, il microfono per i comizi. Sopra la scalinata, sul piano nobile della facciata, una ventina di sindaci a destra, a sinistra altrettanti preti, a rappresentare il bacino di provenienza dei lavoratori. Dopo il saluto del sindaco di Santa Maria di Sala, Nicola Fragomeni, un cinquantenne civico e leghista, al suo secondo mandato, molto riconosciuto perché “respira con la gente”, continuano le sorprese. Il primo discorso è del patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, che sottolinea la centralità del lavoro per la coesione della comunità e richiama a un cristianesimo sociale che forse sta solo nel suo desiderio. Sottolinea, indicandoli uno a uno, che sono presenti altri tre vescovi, quelli di Treviso, Chioggia e Padova. La gerarchia c’è, tanti forse i cattolici, i cristiani difficili da trovare. Mentre, senza alcun dubbio, preme la forza agnostica dei licenziamenti minacciati e del mercato. Tocca a Luigi Brugnaro: il sindaco di Venezia parla a nome di tutti i sindaci della città metropolitana; peraltro, era stato lui per primo, informato chissà da chi, ad allertare sul pericolo che correva Speedline. Riesce a commuoversi e, colpo di teatro, termina l’intervento tra le lacrime. Può mancare la giunta regionale? Ecco Elena Donazzan, di Fratelli d’Italia, assessora al lavoro, chissà se ha conteso il posto a Luca Zaia, parole decise: il Veneto “autonomista” chiama Roma e, quando serve, anche Bruxelles. Tra un sindacalista e un altro – due cislini per un fiommino, ognuno con “distintivi” in bella mostra – interviene addirittura Vincenzo Marinese, capo di Confindustria a Venezia. La lotta di classe non ha senso, il mondo è cambiato, la difesa dei posti di lavoro esige un territorio unito, che sa compattarsi per vincere le pretese finanziarie dei fondi e far valere la vertenza davanti alle istituzioni, sino al Parlamento e al Governo nazionale.
Tra parole roboanti e maschili si distinguono postura e toni di due donne. La segretaria territoriale della Fiom, con parole ferme, fa valere uno sguardo lucido sulla vertenza, rischi e spazi possibili, connettendo, secondo la migliore cultura sindacale, le condizioni concrete dei lavoratori alla produttività necessaria, la dignità del lavoro alla politica industriale, il locale al globale. Oltre la rabbia, servono consapevolezza e pensiero, unità tra i sindacati e fronte largo di alleanze. Il sindacato confederale come ultimo “partito del lavoro”.
Un’impiegata quarantenne, in tono pacato nonostante l’emozione, racconta la delusione provata quando un amico, all’alba del 3 dicembre, le invia per WhatsApp la notizia che Speedline chiude. «In quel momento ho capito! Per anni, sino agli ultimi mesi, ci hanno propinato grandi parole: attenzione, responsabilità, collaborazione… oltre al totem “centralità delle risorse umane”. A questi messaggi, io, come tanti colleghi, avevo prestato fede. WhatsApp mi ha svelato l’arcano: la logica del profitto e il cinismo della finanza. Le parole solenni erano solo retorica e strumentalità. L’inganno mi ha fatto molto male, mi sono interrogata: chi sono io? Chi siamo noi di fronte alla potenza e all’anonimato di questi processi? Ho dentro un’inquietudine grande. Oggi, ho voluto esserci alla manifestazione e dire questo, pubblicamente.»
Qualcuno, molto tempo fa, ci aveva insegnato a chiamarlo sfruttamento, ma specialmente alienazione, infida come il Covid, velenosa e sottile. Non ci pensi troppo, non ti interroghi a sufficienza, una fredda mattina di dicembre devi ammettere: ci sono cascato anch’io!
Il comizio conclusivo è del segretario generale della Fim Cisl, Roberto Benaglia, appassionato e lucido, che assume la vertenza di Speedline, anche a nome della Fiom, tra quelle nazionali da sostenere e da vincere.
Alla celebrazione delle 13:00 con il patriarca Moraglia si sono fermati in pochi, il capitalismo tira dritto, la Chiesa porta testimonianza, non potenza, svuotata di autorità morale. I molti che se ne vanno, pensierosi, cercano qualcuno o qualcosa che la sostituisca e dia senso al vivere, oltre che al lavorare.
Il lavoro, il potere, la politica
Il lavoro, anche nel nuovo secolo, rimane l’asse attorno a cui il singolo si mobilita e la società si struttura. Nella debolezza del sindacato e nel vuoto della politica, però, non può fornire identificazione, relazioni e valori alla comunità.
L’asimmetria di potere dentro ai rapporti di lavoro è antica, il nuovo secolo ha allargato gli spazi della contesa e rivoluzionato gli strumenti tecnologici: globalizzazione e digitale.
Serve una riconversione culturale. Il capitalismo dimostra, in Valle Agredo come in molte aree del Veneto, inventiva e successi, le crisi si alternano alle ristrutturazioni, il livello di occupazione rimane elevato, anche quello femminile. Il sindacato, presente a macchia di leopardo, è in affanno, nelle piccole imprese non entra, rispondere colpo su colpo sfinisce. Toccherebbe alla politica ma i partiti sono comitati elettorali modesti e senza fascino, i Comuni sono piccoli, con bilanci risicati, impotenti. La stessa vitalità associativa è specchio della molteplicità degli interessi e delle propensioni soggettive, ma non si fa carico di uno sguardo d’insieme.
Manca una visione, che insieme alle ragioni economiche ripensi le basi della convivenza civile, cioè l’uguaglianza necessaria tra i cittadini: scuola, formazione continua, salute, promozione sociale. Il welfare è il tratto distintivo dell’Europa, sta alla base dei diritti di cittadinanza, il primo dei quali è un dovere: pagare le tasse. Prendere sul serio il patto fiscale e il welfare costringe tutti a ripensare le ragioni fondanti della comunità.
A Santa Maria di Sala una manifestazione troppo piena e monocorde rischia una piega da “corporazione” territoriale, quella di Trebaseleghe, senza alleanze, tradisce la debolezza. Retoriche e impotenza si rincorrono. L’improvvisazione prevale, il capitalismo è più veloce del progetto collettivo.
Nelle settimane successive, alla Speedline i sindacati dei metalmeccanici hanno commissionato a una società di consulenza un piano di ristrutturazione finalizzato a scongiurare la delocalizzazione in Polonia. Si moltiplicano gli incontri romani ma l’esito della vertenza rimane incerto. I comunicati sindacali non bastano ad alleggerire l’incertezza tra gli operai. Alla manifestazione di dicembre non è seguito nessun altro appuntamento pubblico.
Molti dei pachistani, al contrario, sono rientrati in Grafica Veneta, assunti direttamente dall’azienda, a tempo pieno o a tempo determinato. Le urgenze produttive – il turnover è alto e continuano a mancare operai – e la vertenza antidiscriminatoria condotta dalla Cgil hanno fatto recedere il titolare. La Cgil si mostra riluttante a discutere davvero su quanto è successo, in fabbrica in tutti questi mesi non è stata convocata nessuna assemblea, nemmeno tra i quarantacinque iscritti. Nei social è apparso un resoconto veritiero e amaro da parte di Adl-Cobas che, a fronte di un impegno generoso, si è vista sfilare gli iscritti ed è rimasta senza radicamento. Luca Dall’Agnol lo racconta in questo numero della rivista.
Nel territorio nessuno pare in grado di gestire un appuntamento pubblico di valutazione e di proposta che snidi l’intelligenza dei vari corpi sociali e chiami tutti alla responsabilità collettiva verso il futuro. I Consigli comunali, come le autorità metropolitane venute da Venezia, sono rientrati nel silenzio. La Chiesa si fa rappresentare dalla Caritas. L’opinione pubblica, stordita dal Covid e dalla guerra in Ucraina, attende.
Quale il futuro di un capitalismo flessibile senza città?
Le grandi aziende, modernizzanti, reggeranno nel medio periodo? Il tessuto di imprenditorialità minore, energia diffusa nel corpo sociale, continuerà ad alimentarsi? Le reti comunitarie saranno isterilite dal richiamo dell’interesse individuale? Chi terrà viva la dialettica tra bene privato e bene pubblico? Chi alimenta la democrazia? L’“invenzione involontaria” di ieri, come Enzo Rullani definiva lo sviluppo periferico nel trentennio d’oro 1970-2000, si trasformerà con o nonostante la politica?