Il lavoro delle donne in Italia. Riflessioni a due anni dall’inizio della pandemia
Emergenze. Brevi considerazioni preliminari su uso (e abuso) della comparazione storica nelle crisi attuali
Non ce la fai a stare chiuso a casa? Sei annoiato da tv e videogiochi? Preoccupato perché mangi troppo? Bombardato da messaggi, stanco di disinfettarti e fare la fila ai negozi? In crisi di nervi perché i bambini sono insopportabili e non puoi uscire a far jogging, o angosciato da strade vuote e silenzio? Bene. Ora immagina che ti tolgano il gas. Niente cottura, niente riscaldamento, niente acqua calda. Immagina di avere l’elettricità tagliata: niente luce, telefono, computer, tv; niente scuola online, niente telelavoro, niente ascensore; e niente acqua, nemmeno per la toilette. Immagina che il termometro sia sotto zero e di camminare per casa con dieci strati di roba. Immagina che, invece di aspettare nella fila del supermercato, sei in fila con i bidoni per prendere acqua a tre chilometri da casa. Immagina che invece di fare jogging devi tagliare l’albero di un parco per scaldarti o stare in fila ore per un pacco di aiuti umanitari. Immagina che sei ferito mentre fai la fila per il pane o colpito da un cecchino mentre vai a respirare in terrazza. E che, invece del silenzio, hai granate che cadono ogni tre minuti. Ecco, è Sarajevo durante l’assedio.
Sono parole di Azra Nuhefendić, giornalista e scrittrice bosniaca, che dal 1995 vive e lavora a Trieste. Il messaggio, apparso sulla sua pagina Facebook durante le prime settimane del lockdown italiano, viene di lì a poco ripreso da Paolo Rumiz in «Racconto la storia e le fiabe italiane ai nipotini su Skype», pubblicato il 26 marzo 2020 nell’inserto Robinson de la Repubblica. In quelle prime settimane di confinamento, ricordo che le parole di Azra Nuhefendić ebbero su di me l’effetto di potenziare e consolidare il senso di disagio che provavo ogni qualvolta, nel discorso pubblico e mediatico, la pandemia veniva paragonata a una guerra.
Nel marzo 2020, l’uso di tale comparazione è tutt’altro che sporadico, tanto che c’è chi, come lo storico Marco Mondini, riterrà opportuno evidenziare come l’espressione “siamo in guerra” sia la «più ricorrente nelle retoriche ufficiali e nel linguaggio mediatico». A cominciare è l’Italia, seguita a ruota da Francia e Gran Bretagna.
Nel periodo in cui per contrastare l’emergenza sanitaria è necessario adottare drastiche misure di contenimento e distanziamento sociale, sulla scena pubblica e mediatica riappare un linguaggio guerresco da molti decenni scomparso dalla narrazione. Ritorna all’inizio della crisi da Covid-19, ma rimane anche dopo il primo lockdown, una volta superata la fase maggiormente segnata da lutti e limitazioni delle libertà personali. In Italia e in Francia, è il primo conflitto mondiale, come rileva Mondini, a essere quello più utilizzato come termine ideale di riferimento per esortare la comunità nazionale a stringersi compatta nella lotta contro il Coronavirus, a rispondere con orgoglio, responsabilità, determinazione.
Tuttavia nel marzo 2020 per chi ha conosciuto la guerra, come Azra Nuhefendić, la comparazione tra gli effetti del Covid-19 sulla vita delle persone e quelli causati da un conflitto appare inconsistente, superficiale, insensata. Sebbene la crisi pandemica sia nella sua fase più difficile e traumatica, il paragone non regge: non riesce a “competere” con il ricordo dell’impatto che la guerra vera ha sulla dimensione esistenziale quotidiana delle persone, con la sua capacità di sconvolgere la loro interiorità e coscienza, di scompaginare vite e progetti.
Durante il primo anno di pandemia, non sono mancate voci provenienti dalla storiografia che hanno espresso dubbi e perplessità riguardo l’uso di approcci comparativi tra la crisi da Covid-19 e altre crisi generate da eventi emergenziali, bellici o epidemici, avvenuti in epoche passate. Penso, tra le altre, a quelle di Teresa Bertilotti e Luisa Passerini in «Il lavoro di storiche» o degli studiosi di storia della scienza Guillame Lachenal e Gaetan Thomas in «Covid-19. When history has no lessons. Facing a crisis without precedent». Articolo quest’ultimo provocatorio e insieme stimolante, in cui i due autori invitano gli storici e le storiche a prendere le distanze dal fascino esercitato dai “precedenti pandemici” e a sostituirlo con una maggior comprensione della capacità da parte delle crisi odierne di resistere all’interpretazione storica. L’indicazione metodologica che se ne ricava è che essere meno inclini a ricercare differenze, analogie, parallelismi con altre emergenze sanitarie e pandemiche – rispetto alle quali l’influenza spagnola del 1918 è divenuta il principale elemento di confronto con il Coronavirus – non vuol dire rinunciare a interrogare il passato nel suo rapporto con la crisi del presente, bensì cercare di farlo nella consapevolezza che la situazione attuale potrebbe richiedere nuove strategie di indagine e nuove categorie interpretative.
In ogni caso, da qualsiasi punto di vista la si guardi, l’emergenza sanitaria Covid-19 ha rappresentato un evento dirompente, il più dirompente dopo la Seconda guerra mondiale. Tanto impattante da costituire uno spartiacque nello scenario sociale, economico, politico come nella dimensione esistenziale ed esperienziale, nella percezione di sé e del futuro delle persone. La pandemia ha anche mostrato di avere un impatto differenziato su uomini e donne, ponendo numerosi interrogativi sulla sua capacità di produrre disuguaglianze di genere nel breve e medio periodo. Interrogativi che, per altro, non trovano sufficienti elementi di comparazione con il passato, da momento che, come rileva Michal Brzezinski, vi è una sostanziale mancanza di studi sull’impatto delle passate pandemie sulla disuguaglianza di genere.
In questo contributo mi propongo di ritornare con sguardo più distaccato a quel 2020, rivisitare alcune delle riflessioni scientifiche elaborate allora a caldo, ripercorrere parte degli sforzi che, con dinamismo e prontezza, tra il 2020 e il 2021, furono compiuti dalla ricerca per capire cosa stava succedendo nelle nostre vite. Un intervento che vuole tornare a focalizzare l’attenzione sul tema dell’impatto dell’emergenza sanitaria sul lavoro delle donne, già affrontato nel numero 3 di OPM, con l’ambizione di provare a ri-tratteggiare una riflessione sull’occupazione femminile. Il contesto in cui riprendere e rintrecciare i fili di questa riflessione è però mutato: una guerra vera è scoppiata in Europa. Insieme allo scenario è cambiata la narrazione in cui siamo immersi: a quella pandemica, che per due anni ha monopolizzato in modo martellante l’informazione, si è sostituita un’altra narrazione emergenziale, onnipresente e pervasiva.
Che genere di incertezza
Negli ultimi tempi, il senso di incertezza è aumentato e continua ad aumentare nelle persone. Altre paure e inquietudini si aggiungono, intrecciano e sovrappongono a quelle generate dalla crisi pandemica. La guerra appare come un nuovo potente fattore di destabilizzazione, le speranze di una ripresa economica si affievoliscono ogni giorno di più, lasciando il posto a nuove preoccupazioni e nuovi interrogativi sul futuro. Ci si chiede quali saranno le conseguenze delle sanzioni per il nostro paese, se per il mondo del lavoro si aprirà un altro periodo di difficoltà e sofferenze, se vi sarà una rimodulazione degli obiettivi del Pnrr, quale sarà l’evoluzione del rapporto tra debito pubblico e Pil a fronte di nuove crisi. A proposito di quest’ultimo e di comparazioni con il passato, vorrei brevemente richiamare l’attenzione sul contributo del 2021 di Paolo Piacentini, «Il dopoguerra post-pandemico. I problemi del prossimo futuro e i moniti del lontano passato», specialmente per quanto concerne il fenomeno del «salto verso l’alto» e la persistenza nel tempo del debito, fenomeno per il quale secondo l’autore risulta «pregnante l’accostamento tra questa crisi pandemica ed eventi osservati dopo i due conflitti mondiali». Se nell’esperienza degli anni Venti e Trenta “a pagare il debito” fu la generazione sopravvissuta alla guerra, che vide falcidiati risparmi e redditi, la speranza di Piacentini è che, a un secolo di distanza, «fra le nazioni di una Europa non più in conflitto, ma unita nei vincoli di una unione politica ed economica, processi destabilizzanti possono essere scongiurati». Auspicio che in questi ultimi mesi appare un po’ meno convincente.
Un profondo senso di incertezza è entrato nelle vite delle persone, ma con declinazioni e implicazioni diverse su uomini e donne. Con la crisi da Covid-19 l’incertezza economica, percepita e reale, è sensibilmente aumentata tra queste ultime. La precarietà lavorativa femminile, in quanto fattore strutturale e di lungo periodo, si è rivelata per molte un vero e proprio boomerang durante la crisi da Covid-19, esponendole maggiormente tanto a fenomeni di uscita dal mercato del lavoro che a rischi di povertà. Al proposito basterà richiamare l’attenzione sul divario di genere nel ricorso alla Cig (Cassa integrazione guadagni), come messo in luce da Paola Villa, tra marzo e settembre 2020, periodo durante il quale oltre sei milioni di dipendenti – quasi la metà di quelli occupati in imprese private – sono stati sospesi e interessati dal provvedimento. I dati ci mostrano come le donne siano state fortemente penalizzate dal venir meno di rapporti di lavoro a termine, ovvero in scadenza e non rinnovati: a fronte del 42% di donne sul totale dei dipendenti del settore privato, solo il 27% risulta beneficiario di Cig. Inoltre, come evidenziato da diverse indagini, e tra le altre, dal Gender Policies Report 2021 dell’Inapp (Istituto nazionale analisi politiche pubbliche), nel secondo anno pandemico l’occupazione femminile ha registrato una crescita dei rapporti di lavoro instabili e precari: proprio questa tipologia di contratto nel 2020 è stata tra le principali cause della perdita del posto di lavoro per le donne.
Costituisce un dato ampiamente condiviso il fatto che le donne, nelle particolari circostanze createsi con l’emergenza sanitaria, si siano trovate sovrarappresentate tanto nei settori in prima linea nella lotta contro il Coronavirus, quanto in quelli più colpiti dalla recessione innescata dalle misure di contenimento. Questo impatto differenziato è stato principalmente ricondotto alla diversa distribuzione di donne e uomini nel mercato del lavoro, ovvero alla concentrazione delle prime in determinati settori produttivi – quali servizi commerciali, educativi, sanitari, domestici, assistenziali. Se interpretato alla luce delle sue implicazioni storiche, tale impatto ci appare anche sotto un’altra luce, vale a dire come il risultato di fenomeni persistenti e di lungo periodo. Fenomeni che hanno radici lontane, in larga misura riconducibili ai processi di femminilizzazione, ottocenteschi e primo novecenteschi, degli ambiti lavorativi sopra richiamati. La letteratura scientifica sulla storia del lavoro femminile ha messo in luce come la cura abbia rappresentato per le donne un importante fattore di inclusione nel lavoro retribuito. Tra le principali tappe di tale percorso, vi è quella risalente all’età risorgimentale, quando, con l’estensione alla sfera pubblica di alcuni tradizionali ruoli femminili familiari e privati, troviamo sempre più donne occupate nell’educazione, in compiti di cura e di assistenza a poveri e bisognosi. Tuttavia è con la Prima guerra mondiale che la cura inizia a divenire per le donne un vero e proprio lasciapassare nel mondo del lavoro. Basti pensare all’accelerazione e al consolidamento che durante il conflitto conosce la professionalizzazione della figura dell’infermiera. La cura di corpi adulti sarà affidata alle donne alcuni decenni più tardi, ovvero dopo il loro inserimento nell’educazione elementare – si pensi al protagonismo della maestra nell’Italia postunitaria, figura che, come scrive Simonetta Soldani, svolse una sorta di «sacerdozio laico della nazione», creando una preziosa cerniera tra dimensione materna e civile, tra spazio pubblico e privato. Il processo di femminilizzazione della professione infermieristica prosegue anche dopo il conflitto, espandendosi fino a farlo divenire uno dei settori tradizionali dell’occupazione femminile (in Italia le infermiere rappresentano oggi oltre il 76% degli iscritti all’ordine professionale). Per concludere questo breve excursus storico, possiamo dire che, se guardiamo a eventi emergenziali avvenuti in altri periodi, la Prima guerra mondiale rappresentò un fondamentale momento di snodo nell’accelerare e nel consolidare la femminilizzazione di determinate attività – oltre alla presenza delle donne nell’insegnamento, anche nel settore dei servizi sociali, sanitario, impiegatizio. La spinta propulsiva modernizzante innescata dal conflitto, come rileva la storica Barbara Curli, costituì una cesura così forte da non poter essere frenata nemmeno dal fascismo.
Se guardiamo all’impatto del Covid-19 con una prospettiva di genere e di lungo periodo, possiamo osservare come l’emergenza sanitaria abbia portato alla luce la specificità dell’esperienza professionale e lavorativa femminile, le sue radici storiche e identitarie, e con essa il patrimonio sociale di cura e di relazione storicamente acquisiti dalle donne. C’è però anche un’altra faccia della medaglia a cui dobbiamo guardare. L’impatto dell’evento pandemico sul lavoro femminile ha mostrato come le donne siano molto più esposte ai rischi sociali generati da crisi di questo tipo.
Tracciare percorsi di riflessione su trasformazioni ancora in atto è tutt’altro che semplice, tuttavia sembrano esserci dei punti fermi. E tra questi la certezza che, a fronte di altre e nuove crisi pandemiche, i costi più alti saranno nuovamente pagati dalle donne se non ci saranno significative trasformazioni nell’attuale struttura del mercato del lavoro.
Oltre alla precarietà lavorativa e alla concentrazione in determinati settori professionali, durante la pandemia l’altro fattore strutturale che ha largamente concorso a mettere le donne in condizioni di sofferenza e difficoltà è stato il carattere del welfare italiano, fondato su un modello sostanzialmente familiare, di cui la donna è l’asse portante.
L’esperienza dei lockdown, e specialmente del primo, ha avuto un impatto particolarmente forte sulle esistenze femminili e ciò per molte ragioni: ha esasperato situazioni di stress, stanchezza, affaticamento, compromesso equilibri già di per sé difficili e precari nella conciliazione tra vita e lavoro, scompaginato e modificato spazi, abitudini, ritmi, organizzazione. Nell’aprile del 2020, riflettendo su cosa stava accadendo nella vita delle donne, Sabrina Alfonsi scriveva: «Trascorrere il tempo del lavoro, il tempo della cura, il tempo del privato nello stesso luogo, senza la possibilità di staccare, è per le donne un boomerang che le colpisce sul fianco più scoperto. Quello che resta è un carico enorme, quel lavoro sommerso, di cura emotiva di figli e anziani, e lavoro domestico». La pandemia, specialmente nella fase di maggior emergenza, inasprisce la fatica fisica e psicologica del lavoro riproduttivo favorendo con una forza senza precedenti lo svelamento della sua qualità specifica: quella di servire alla vita, di ricreare la vita, di stare alla base di ogni lavoro, permettendo l’esistenza di chi compie gli altri lavori. La qualità che ne fa, per dirlo con le parole di Sara Ongaro, un’attività che si trova in una relazione verticale con gli altri lavori.
In tale contesto, alle prese con un lavoro familiare reso ancora più impegnativo e gravoso, immaginare il futuro ha per molte donne significato individuare nella riforma del sistema di welfare italiano una necessità prioritaria, non più procrastinabile.
Tuttavia, come è stato da più parti evidenziato, il Pnrr sembra più che altro orientato a colmare alcune grandi mancanze del welfare italiano, piuttosto che a favorire processi di vera e propria trasformazione. Trasformazione che, come osservano Ugo Ascoli e Rossella Ciccia, richiederebbe ben altre risorse finanziare e specialmente un diverso orientamento culturale e politico, capace di guardare la questione della conciliazione tra tempi di vita e di lavoro come problema non solo femminile; richiederebbe infatti una visione propensa ad accogliere sfide più innovative: «Una prospettiva di genere intersezionale che riconosca le donne come un gruppo eterogeneo, che metta al centro la riprogettazione degli orari e delle forme di lavoro, così come il funzionamento dei sistemi scolastici, che affronti la scarsità di visioni femministe nei luoghi di potere, che sappia contrastare con forza la violenza contro le donne e le persone Lgbtqi».
Anche restando nell’ambito di obiettivi volti a correggere alcune delle mancanze più gravi del welfare italiano, come nel caso della scarsità di asili nido, permangono alcune criticità e ritardi. Come evidenziato nel novembre 2021 da Luca Brugnara, stando alle indicazioni contenute nel materiale preliminare del Pnrr, si prevede un passaggio, entro la fine del 2025, dall’attuale 26,9% per cento di copertura di servizi per la prima infanzia a quasi il 40%. Obiettivo che in ogni caso non permetterà all’Italia di garantire per il 2026 una disponibilità di posti del 50%, traguardo già raggiunto nel 2019 da Spagna e Francia. Un’altra questione aperta è quella della loro distribuzione territoriale, non fissando il piano asili nido specifici vincoli volti al superamento delle marcate disuguaglianze regionali nell’offerta di questi servizi. Il rapporto nazionale promosso da Openpolis e Con i bambini offre un quadro molto esaustivo dei divari interni, ampi e profondi, esistenti nel nostro paese: tra le aree del centro-nord che, con 32 posti ogni 100 bambini, hanno quasi raggiunto l’obiettivo europeo del 33%, e il Mezzogiorno, dove i posti ogni 100 bambini scendono a 13,5 e il servizio è garantito in meno della metà dei comuni (47,6%). Per dare un’idea dell’ampiezza dello squilibrio, basterà dire che se a Bolzano vi è una disponibilità di quasi 7 posti ogni 10 bambini, a Catania e Crotone questa è sotto i 5 bambini su 100.
Non è bastata una pandemia, con tutto il suo disperato bisogno di cura, a mettere in gioco altri orizzonti, capaci di riconoscere nel lavoro riproduttivo un lavoro tanto impegnativo quanto prezioso e indispensabile alla vita, e ancor meno di pensarlo nel suo rapporto con la produzione e con la ri-progettazione di infrastrutture sociali. Il problema di fondo, come la crisi da Covid-19 ha ancor più evidenziato, non risiede nel suo essere un lavoro non retribuito, ma nello scarso riconoscimento del suo valore. Anzi, è proprio con la sua monetizzazione e collocamento nel mercato del lavoro che, come spiega con chiarezza il contributo di Lucia Amorosi contenuto in questo numero, la contraddizione diventa ancor più evidente ed esplosiva: la cura, anziché acquisire uno statuto dignitoso, diviene un sotto-lavoro, privo di adeguate regolamentazioni e tutele.
La pandemia ha evidenziato e inasprito problemi strutturali che da tempo penalizzano le lavoratrici – precarietà, salari bassi, scarsa occupazione, per citare alcuni dei più rilevanti. A influenzare la percezione che abbiamo di noi stesse e del futuro non sono però solo fattori strutturali (quali lavoro e reddito). Ve ne sono anche molti altri di cui, specialmente nella particolare congiuntura storica che stiamo vivendo, dovremmo tener conto. Tra questi penso al ruolo giocato da una narrazione pandemica onnipresente, martellante, nonché incline a usare una retorica bellica, o da un lavoro familiare che si è mostrato in tutto il suo carico di fatica e responsabilità. Che cosa sia accaduto nelle famiglie italiane (e nelle esistenze femminili) nei periodi di più forte emergenza è difficile dirlo, sebbene la ricerca abbia compiuto sforzi importanti per provare a capirlo. Indagare e delineare traiettorie di trasformazioni che sono ancora in atto è infatti compito piuttosto arduo. Tuttavia formulare delle domande e provare a riflettere su alcuni dei possibili mutamenti attivati o non attivati dalla crisi da Covid-19 è un atto da compiere.
La domesticità ai tempi del Coronavirus
La pandemia ha messo sotto la luce dei riflettori la dimensione domestica, trasformandola, specie nei periodi di più forte emergenza, in una sorta di laboratorio/osservatorio sul lavoro familiare. Le indagini condotte da diversi gruppi di ricerca su campioni indipendenti – di cui ho cercato di dar conto nel mio contributo contenuto nel n. 3 di OPM – hanno evidenziato come la straordinaria convergenza spazio-temporale delle attività creatasi durante il primo lockdown non abbia sostanzialmente prodotto significativi cambiamenti nella distribuzione del lavoro familiare. Anzi, la tendenza è stata semmai contraria: uno dei dati comuni e trasversali a tutte le indagini è infatti rappresentato dall’aumento per le donne del carico di lavoro domestico e della responsabilizzazione verso la cura dei propri familiari. C’è da dire, che anche in presenza della messa in campo di esperienze orientate verso una più ampia condivisione del lavoro familiare tra uomini e donne, esse non sono di per sé sufficienti a produrre mutamenti culturali duraturi. Inoltre, va anche tenuto presente, che i piccoli segnali positivi che sono stati registrati da alcune ricerche – in particolare per quanto riguarda un maggior impegno da parte dei padri a occuparsi della cura dei figli durante il lockdown – sono stati dettati dalla eccezionalità della situazione emergenziale italiana, tale da fare del nostro paese un caso particolare, il primo tra quelli europei a essere duramente colpito dalla pandemia e a adottare, per periodi anche molto lunghi, drastiche misure di contenimento. La congiuntura può aver favorito l’affermarsi di nuove consapevolezze sulla centralità della cura, come più forti aspettative in direzione di una più equa distribuzione dei compiti familiari, tuttavia tutto ciò, se non è poi sostenuto da adeguate politiche di welfare, non basta ad attivare processi trasformativi capaci di produrre mutamenti culturali duraturi e tanto meno a correggere squilibri profondamente radicati nella nostra società: secondo i dati pubblicati nel 2021 dall’European Institute for Gender Equality (Eige) l’Italia è tra i paesi europei con i più bassi indici di uguaglianza per quanto riguarda il tempo dedicato alla cura e al lavoro domestico.
Nel valutare l’impatto dell’emergenza sanitaria sulla dimensione domestica, la questione di fondo non è tanto rappresentata dal non aver favorito lo scardinamento di vecchie abitudini e comportamenti, quanto piuttosto dall’aver confermato la forza e la vitalità degli stereotipi di genere nelle famiglie italiane. Stereotipi che, non solo si sono mostrati tutt’altro che indeboliti e compromessi, ma che proprio attraverso la pandemia potrebbero aver anche trovato nuove opportunità di rivitalizzazione. A questo riguardo, alcune indagini condotte nel 2020 hanno offerto a mio avviso spunti molto interessanti, sui quali vorrei riportare l’attenzione. Mi riferisco, in particolare, all’indagine nazionale Che ne pensi? La didattica a distanza dal punto di vista dei genitori, condotta da un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Scienze umane dell’Università Milano-Bicocca, e finalizzata a raccogliere, attraverso un questionario on line, dati e informazioni su come fosse stata percepita e vissuta dai genitori l’esperienza della Dad (Didattica a distanza). Tra i dati che saltano subito all’occhio è la netta prevalenza di risposte femminili: su un totale di settemila genitori, a partecipare al questionario sono nella grandissima maggioranza madri (94%), con un’età media di quarantadue anni, per lo più lavoratrici (80%), nell’89% dei casi con un partner, e una provenienza regionale prevalentemente nell’area del Nord-Ovest (70%, contro il 20% in quelle centrali e il 10 % nel Mezzogiorno). L’indagine quantifica in tre/quattro ore al giorno il tempo dedicato dalle madri per supportare l’attività scolastica dei figli in Dad. Al di là del pesante impatto della didattica a distanza sul lavoro familiare, il dato che si impone all’attenzione è il grande e pressoché esclusivo impegno, il forte senso di responsabilità delle donne nell’educazione dei figli. Un altro dato che colpisce particolarmente, anzi ancor di più dei precedenti, è la percentuale di donne, pari a ben il 30%, che non esclude la possibilità di lasciare il lavoro nel caso la didattica a distanza dovesse continuare. È una risposta che merita molta attenzione e che non può essere letta solo come difficoltà di conciliazione tra attività professionale e assistenza ai figli in Dad. Il lavoro svolto dalle donne tra le mura domestiche è stato per lungo tempo adombrato da visioni politiche ed economiche fondate sulla separazione tra lavoro riproduttivo e produttivo. Incapaci di cogliere il profondo nesso che intercorre tra queste due sfere di attività, il lavoro riproduttivo è rimasto in un cono d’ombra e con esso l’esperienza derivante dal patrimonio sociale di cura e di relazione storicamente acquisito dalle donne. Se vogliamo (davvero) interrogarci sulle difficoltà di conciliazione tra vita e lavoro e su possibili strategie di superamento, un aspetto della questione di cui dobbiamo tenere ampiamente conto è rappresentato dal valore che le donne attribuiscono a tale patrimonio. La pandemia ci ha mostrato in modo esasperato ciò che già sapevamo, che quando i servizi scolastici sono inadeguati, carenti, fragili il tempo dedicato dalle donne alla cura dei figli aumenta.
La crisi pandemica ha dato al lavoro riproduttivo una visibilità del tutto inedita, che tuttavia non è bastata ad attivare, almeno non per il momento, mutamenti di prospettiva capaci di riconoscere nella cura una questione politica e sociale. Il lavoro riproduttivo è sostanzialmente rimasto un affare privato e familiare. E qualora le circostanze dovessero richiederlo, potrebbero essere ancora le donne a restare e/o a ritornare a casa.
I problemi irrisolti dell’attività riproduttiva vanno valutati da varie prospettive e punti di vista, nonché alla luce di altri grandi nodi e ritardi inerenti il lavoro femminile in Italia. Un paese nel quale – è bene ricordare – le casalinghe rappresentano ancor oggi un fenomeno diffuso e socialmente accettato. Le donne che lavorano solo in casa non sono infatti certamente scomparse, anzi. Le ragioni possono essere diverse, come ci spiegano Franca Maria Alacevich e Annalisa Tonarelli in un contributo molto interessante pubblicato nel 2013 dalla rivista internazionale AG About Gender, tuttavia ciò che va sottolineato è come si tratti di una condizione spesso non temporanea, fino a costituire un status che può talvolta prolungarsi anche per l’intera esistenza della persona. I diversi profili delle donne di casa descritti dalle autrici poco fa richiamate ci mostrano che oggi, più che in passato, non si diventa casalinga per vocazione. Le ragioni di questo status vanno cercate in un mercato del lavoro ancora troppo poco inclusivo, nella sua forza espulsiva, e insieme nella scarsità e inadeguatezza dei servizi scolastici, per l’infanzia, per le persone anziane. In un contesto di crisi come quello attuale, a preoccupare sono specialmente le donne più giovani, tra cui più diffusa è la precarietà lavorativa: l’ingresso e/o il rientro nel mercato del lavoro sono incerti, e l’intervallo tra una occupazione e l’altra può essere anche molto lungo. Nell’attesa, la dimensione domestica può divenire l’ambito in cui investire e attraverso il quale controbilanciare l’assenza di realizzazione fuori casa.
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